GIOSUE' CARDUCCI


La seconda rivoluzione industriale pone le sue basi nel pensiero positivista di cui Giosuè Carducci era un convinto sostenitore. Egli s’impone, nella fine dell’Ottocento, come autorevole punto di riferimento della cultura nazionale.

Nasce il 27 luglio del 1835 a Valdicastello, in provincia di Lucca, dove compie i primi studi e le prime letture, stimolato soprattutto dal padre, dotato di buona cultura classica e molto curioso della cultura contemporanea, di idee liberali, ma piuttosto autoritario nel contesto familiare (ogni volta che puniva Giosuè lo costringeva a leggere i Promessi Sposi).

Nel 1849 entra nel collegio dei padri scolopi di Firenze, quattro anni dopo vince un posto gratuito alla Scuola normale superiore di Pisa, dove si laurea in filosofia e filologia. Nello stesso anno della laurea (il 1856) fonda la “Società degli Amici pedanti”, improntata al culto letterario della classicità.

Nel 1857, anno di pubblicazione della sua prima raccolta di poesie giovanili, il fratello Dante, cui era molto legato, muore in circostanze misteriose (forse suicida).

Il padre distrutto dal dolore e forse dal rimorso, muore un anno dopo. Giosuè si trova così a dover provvedere al sostentamento della madre e del fratello minore in condizioni molto difficili, anche perché il suo primo incarico come professore di retorica al ginnasio di San Miniato, ottenuto subito dopo la laurea, gli è stato revocato dopo un anno per condotta immorale e irreligiosa.

Comincia, allora, a dare lezioni private a Firenze. Nel 1859, sposa dopo un lungo fidanzamento la cugina Elvira Menicucci, dalla quale avrà quattro figli.
Dopo un breve periodo di insegnamento al ginnasio di Pistoia, viene nominato professore di Eloquenza italiana all’università di Bologna. Qui il ribellismo giovanile di Carducci trova nutrimento nella lettura di scrittori illuministi e repubblicani e si va precisando il suo giacobinismo anticlericale e ateo che lo porta a scrivere l’”Inno a Satana”.
Tali posizioni ideologiche gli costano in procedimento disciplinare e il trasferimento dalla cattedra di latino all’università di Napoli, che tuttavia non ha corso grazie ad una battaglia legale intrapresa dal poeta.

Nel 1868, pubblica con lo pseudonimo di Enotrio Romano la prima raccolta organica in quattro libri: Levia Gravia (titolo latino, ricavato da Ovidio, che indica un insieme di poesie leggere e di poesie gravi).

I due gravi lutti del 1870 (la morte della madre e del figlio Dante che aveva solo tre anni) inducono nel poeta una profonda crisi depressiva dalla quale lo riscuote la relazione, prima solo epistolare poi anche amorosa, con Carolina Cristofori Piva,chiamata Lina o Lidia nelle poesie.

Nel 1871,esce un volume dal titolo “Poesie”, in tre parti (di cui la prima “Decennalia”, comprende le poesie politiche del decennio 1860-1870, la seconda si intitola ancora “Levia Gravia”, la terza “Juvenilia” cioè poesie giovanili) in cui dimostra grande abilità nel comporre e conoscenze tecniche, senza rivelare, però, alcuna personalità: è come se fossero un laboratorio del poeta.

Dopo il successo di questo volume pubblica, un anno dopo, le "Primavere elleniche", dedicate a Lidia e basate su un elegante ripresa di modelli antichi. Diventa candidato alle elezioni parlamentari, ma il suo giacobinismo va progressivamente riducendosi e annacquandosi, e si avvia ad accettare il ruolo della monarchia di Savoia come garante dell’unità italiana.
Giunge così ad uno spettacolare cambiamento di posizione: e la cosa è favorita dal fascino che suscita su di lui la figura della regina Margherita e dall’apprezzamento che ella manifesta per la sua poesia e le dedica un’ode: ”Alla regina d’Italia”.

Il 1877 è l’anno delle "Odi barbare" (seguite da due edizioni), versi costruiti secondo gli schemi della metrica classica in cui, basandosi sulla concezione che aveva della storia, prende in esame l’Italia pre-romana e la Repubblica romana, in cui i Romani impongono la loro morale; esalta anche il Medioevo: il periodo dei Comuni in cui l’Italia che stava nascendo era in lotta con l’imperatore. In quest’opera, il poeta mette in luce una grande capacità rappresentativa e una lingua efficacissima: usa le parole come se fossero un pennello.

Nel 1882 esce la raccolta intitolata “Giambi ed Epodi” che include gran parte delle precedenti poesie polemiche e giacobine (il titolo si riferisce a un verso e a un tipo di componimento usato dai classici per una poesia polemica e moralista).
Carducci si scaglia contro la società in cui vive perché troppo corrotta ma si dimostra fiducioso in un cambiamento. La sua poesia nelle Odi barbare e in Giambi ed Epodi scende verso la retorica e l’enfasi, tra profetico e predicatorio, è per questo che non è un grandissimo; molta della sua tarda produzione è retorica e la poesia ne risente.

Intanto aderisce alla politica forte del Crispi, nutrendo una crescente avversione per il socialismo e ponendosi come vate ufficiale dell’Italia umbertina.
Nel 1887 escono le “Rime Nuove” (in cui confluisce il meglio della poesia non barbara: la parola rime indica appunto che i componimenti si basano sui metri della tradizione romanza). Secondo Russo, questa è l’opera senza retorica ed enfasi, in cui è sincero e spontaneo poiché, pur cercando di nascondere la propria natura, resta sempre un sentimentale. Nelle Rime Nuove, dunque, si confessa e si lascia avvicinare.

Nonostante la celebrità vive tetramente gli ultimi anni, con il suo carattere impetuoso che resta però dominato da desideri e malumori e attratto da nuovi sentimenti amorosi (come quello per la giovane poetessa Annie Vivanti).

Il 1889 è l’anno della sua ultima raccolta: Rime e Ritmi, che include sia poesie basate sulla metrica latina che su quella barbara.

Nel 1904, lascia l’insegnamento e, nel 1906, vede consacrata la sua posizione di poeta ufficiale della nuova Italia col premio Nobel per la letteratura.

Muore a Bologna per un attacco di broncopolmonite il 26 febbraio del 1907.

LE PROSE

Oltre alle opere in versi, Carducci ha lasciato una fittissima produzione in prosa: essa si lega in gran parte alla sua attività di studioso della letteratura italiana, ma è anche rivolta a precisare le sue scelte letterarie e ideologiche, e si configura come intervento nel mondo politico e culturale contemporaneo.

Le prose si possono distinguere in: celebratrici, critiche, polemiche e autobiografiche.

Le prime sono scritte per diverse occasioni, per esempio in una celebra, da ex mazziniano, Garibaldi e lo fa molto bene anche se non è del tutto sincero, un’altra è scritta per l’anniversario della Repubblica di San Marino di cui celebra la libertà perpetua (sapeva parlare e sapeva scrivere,anche se era pieno di sé).

Gli scritti critici sono legati più direttamente al lavoro di studioso e di professore, in un’analisi approfondita di autori, testi, generi letterari di tutti i secoli.

Egli non ha un metodo definito, ma è costantemente guidato da un senso preciso della concretezza dei testi, del loro aspetto linguistico, retorico e formale; è attento al fare dei poeti, al mondo con cui essi costruiscono le loro opere.

Fondò anche una “Scuola storica “di derivazione positivista. Ammirava l’Umanesimo, il Rinascimento, Parini (a cui forse si sentiva legato perché entrambi consideravano la letteratura una missione),l’ironia dell’Ariosto, la lingua del Tasso di cui, però non apprezzava la tematica.

Gli scritti polemici sono in difesa della sua poesia. La prosa carducciana raggiunge le vette più alte tra momenti di rabbiosa aggressività, di acre ironia, di invettiva concitata. Sono lo specchio dell’autore. Furono raccolte inizialmente in “Confessioni e battaglie”.

Degli scritti autobiografici fa parte l’epistolario, uno dei più belli dopo quello del Foscolo, in cui si svela la varietà degli atteggiamenti umani del poeta.

PER SAPERNE DI PIU’ SU GIOSUE’

  1. Reagisce al II Romanticismo rivolgendosi agli studenti perché a loro bisogna far capire i valori della vita. Sostiene che l’uomo deve essere perfetto e lo può diventare facendo appello alle virtù romane.

  2. Motivo d’ispirazione è il senso della vita che egli intende come costruzione degli uomini.

  3. La poesia della memoria è il motivo più romantico e moderno. Sente la nostalgia delle passate speranze non realizzate, delle cose che non ci sono più. TUTTAVIA LA SUA TRISTEZZA HA SEMPRE QUALCOSA DI FORTE: EGLI ACCETTA LE SOFFERENZE PERCHE’ FANNO PARTE DELLA VITA!

  4. Avversò i veristi chiamandoli “spazzaturai” e “ridicoli nanerottoli” per il loro gusto di ritrarre la vita degli umili e i loro ambienti squallidi, e per la lingua sciatta e dialettale, tutte cose che egli riteneva assolutamente impoetiche, per il suo concetto aristocratico della poesia e dell’arte.

  5. La concezione materialistica della realtà portò il poeta a considerare la morte non cristianamente come l’inizio di una nuova vita, ma come vanificazione dell’essere nel nulla.

  6. Dalla fede nel progresso deriva il suo sano ottimismo che, pur riconoscendo l’esistenza del dolore, non si abbatte di fronte agli aspetti negativi della vita, li accetta anzi li sopporta virilmente, e trova nell’impegno per la costruzione di un mondo migliore lo scopo e il significato più alto dell’esistenza. Perciò la sua  sua malinconia è sempre virile, agonistica, costruttiva, mai querula e deprimente.