Leonardo Sciascia
A Ciascuno il Suo

ver.2

Nell’estate del 1964, un imprecisato paese siciliano viene scosso da un duplice omicidio. Il professor Laurana, insegnante liceale di storia e letteratura e critico letterario per diletto, non crede, secondo quello che è un tipico schema sciasciano, alla versione ufficiale dei fatti e dà inizio ad una serie di indagini personali, mosse da una curiosità di tipo intellettuale.

Quando pare essere ad un passo dalla verità, per una motivazione fortemente e significativamente ambigua, fondata su un senso di profonda sfiducia nei confronti dello stato, pensa di abbandonare le ricerche; purtroppo, però, si è ormai spinto troppo oltre.

A ciascuno il suo avrebbe la sua perfetta chiusura già al penultimo capitolo, quella chiusura che risulterebbe consueta al lettore di Sciascia, il quale conosce la natura della sua opera e la particolare concezione di romanzo giallo emersa già compiutamente ne Il giorno della civetta: mentre l’investigatore non sa come venire a capo della situazione e fini galantuomini discutono, intrecciando congetture in un raffinato e desolato bar, il cadavere del professore giace: «Sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata». Vero è che, a questo punto della vicenda, non c’è ancora quella certezza sui fatti, che permette al lettore di scorgere la conclusione del romanzo, ma quegli stessi fatti paiono ormai non interessare più, superati dal peso angoscioso del tragico finale.

Inaspettata e con tutti i connotati di una beffa, Sciascia scrive la sua conclusione, cui si è costretti ad assistere impotenti, irritati e a disagio; la rivelazione del delitto, momento che in ogni romanzo giallo è accompagnato dal pieno appagamento razionale e dal piacere del riannodare il filo degli eventi, emerge dai discorsi vacui dei signori del paese, che ne fanno una piccante confidenza nella loro saggezza inutile di perfetti attori di un ambiente che creano e conservano.

La vicenda è ormai chiara: il protagonista è morto e noi siamo obbligati ad apprendere i particolari dell’accaduto da una sorta di “chiacchiericcio” pettegolo, mentre ha luogo il fidanzamento dei due adulteri protagonisti dell’inganno, il banchetto dove il parroco di Sant’Anna gusta prelibati cibi e la festa di Maria Bambina, momento in cui il paese maschera con la fede la propria ipocrisia.

Un senso di impotenza trapela da tutto ciò, da uno squarcio esistenziale che si chiude su se stesso e che gode della sua stasi fatta di allusioni piccanti e maldicenze, di barzellette, piccoli ed innocui screzi e, ahimé, discorsi sulla letteratura.

Il circolo dei notabili del paese è un ambito spesso presente nelle opere di Sciascia (vengono alla mente il circolo della Concordia de Le parrocchie di Regalpetra e le riunioni dei nobili palermitani ne Il consiglio d’Egitto), ma è in questo romanzo che, in particolare, esso diviene elemento basilare della struttura e dello stile dell’opera. Il protagonista e, conseguentemente, il lettore amano stare ad ascoltare i discorsi sempre uguali di queste “eccellenze”, lasciandosi trascinare da essi come da un vortice, anche se, nel momento in cui il discorso cade sulle donne, pare far sì che gli occhi si socchiudano e si abbandonino all’immaginazione, sul filo di sensuali rievocazioni.

Lungo il percorso compiuto dal protagonista, la dimensione suadente (che almeno a livello di stile richiama Brancati e Bufalino) tenta di attrarci in una rete fatta di saggi discorsi incarnandosi, oltre che nei notabili del paese, nel parroco di Sant’Anna («Ne usciva pieno di simpatia per il parroco di Sant’Anna. Ma la Sicilia, forse l’Italia intera è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa»), nell’oculista, padre del dottor Roscio (straordinaria figura di vecchio che solo nella parola — si noti che il giradischi diffonde nell’aria giacente sopra Palermo il trentesimo canto dell’Inferno — trova lo stimolo per continuare a vivere), nel fratello dell’amico ricercatore e nella figura appena abbozzata dell’onorevole (mirabilmente delineata nella versione teatrale del romanzo) che, superando le precedenti, le rende tuttavia significative.

Il centro del romanzo sta proprio qui, nell’ambiguità emanata da figure che in esso paiono vivere da sempre e i compagnia delle quali siamo vinti da un desiderio di vana contemplazione e di partecipazione a un’etica bonariamente popolare.

La razionalità indagatrice vorrebbe librarsi lontano da questa strana atmosfera e fare luce sull’accaduto, magari attraverso atti più semplici di quel che si pensi, come avviene al protagonista quando, nel tentativo di ottenere i documenti per la patente di guida, si scontra contro l’onorevole, incontra il sicario e fa un importante passo verso la verità.

Il personaggio principale decide di agire solo dopo aver ricevuto la richiesta di aiuto da parte della vedova e lo fa in modo distorto, cosicché la scelta derivi dall’istinto e non dalla mente, non facendola precedere, dunque, da alcuna analisi razionale.

Dalla vedova spira una sensualità greve e carica di accenti di morte, che dovrebbe mettere in guardia il lettore, che invece, dal suo canto, è spinto a seguire il protagonista in un’atmosfera decadente, velata di profumi e sensazioni tattili. Indicativo, quindi, non è tanto il fatto che sia proprio la fiducia data alla donna ad essere fatale, quanto che essa rappresenti la sublimazione della struttura e dello stile di tutta l’opera.

Allargando il discorso, si può inoltre notare che, mentre ne Il giorno della civetta il delitto passionale è un’ipotesi da scartare fin da subito, poiché costituisce la tipica spiegazione popolare del delitto, cioè quella che tende a nascondere la verità, nell’opera in esame la motivazione reale, confidata tramite dicerie popolari, pare essere proprio quest’ultima.

Gli affari sporchi emergono solo grazie ad un ricatto causato da un tradimento e se a questo aggiungiamo che il protagonista viene spinto all’azione unicamente dall’amore, possiamo concludere che nel romanzo si configura una sconfitta ancora più grande di quella annunciata ne Il giorno della civetta, una sconfitta che passa dall’impossibilità di avere un altro commissario Bellodi, alla struttura stessa dell’opera che affascina e avvince, riuscendo a farci prendere, poi, le distanze da essa.

Questa è un’opera che, alla fine di tutto, nella propria bellezza e a causa di essa, nasce per essere negata e la cui comprensione implica un sostanziale rifiuto, poiché solo con esso vi è possibilità d’azione.