La depressione del 1929

Le cause

introduzione

Le cause della recessione internazionale

il gold standard
l'assenza di una leadership
l'eredità di Versailles
Le cause congiunturali
Le cause strutturali

La dinamica

Prima dell'ottobre 1929
Il crollo della borsa e l'avvio della depressione

Gli effetti

introduzione
Gli effetti sociali della crisi
Gli effetti nel sistema produttivo

La fine del Gold Standard

La scelta protezionistica

La crisi in Italia

Le politiche anticicliche in Italia
L'incapacità di autoregolazione del mercato

IL NUOVO RUOLO DELLO STATO

La centralità della domanda nel sistema economico


Le cause

introduzione

La crisi degli anni '30 rappresenta la prima grave recessione estranea ai consueti cicli economici che avevano scandito lo sviluppo industriale capitalistico della seconda metà dell'800.

Ha origine nel paese più ricco del mondo e mostra improvvisamente i limiti di un sistema finanziario e produttivo che sembrava destinato a crescere senza interruzioni.

Il crollo della borsa di New York nell'autunno del 1929, infatti, arriva dopo un decennio di straordinaria espansione del mercato economico statunitense.

La mobilitazione bellica, la successiva vittoria militare e l'aumento delle esportazioni avevano consentito una crescita prodigiosa della produzione industriale degli Stati Uniti, sostenuta da un rapido aumento dei consumi interni. Negli anni '20 lo sviluppo economico era stato accompagnato da un'intensa attività finanziaria, che però aveva progressivamente perduto ogni rapporto con il mondo produttivo moltiplicando le operazioni speculative su titoli ed azioni. 

Questa sezione affronta il problema delle cause della grande depressione da molteplici punti di vista: per prima cosa occorre comprendere  le motivazioni contingenti del crollo della borsa (cause congiunturali); in secondo luogo l'indagine verterà su quegli aspetti dell'economia americana che determinarono la notevole intensità e durata della  recessione (cause strutturali); in terzo luogo si tenterà di dare una spiegazione al perché tale recessione si sia diffusa in una parte assai significativa del resto del mondo e con intensità e durata anche in questo caso tutt'altro che trascurabili

È evidente che una tale classificazione è operata con fini esemplificativi e che le distinzioni individuate hanno in realtà confini assai labili.

Le cause della recessione internazionale

il gold standard

L'assenza di una guida economico finanziaria si rifletteva in maniera drammatica sul sistema monetario internazionale, reso quanto mai rigido e vulnerabile dalla scelta di non abbandonare del tutto il sistema aureo, ma di correggerlo semplicemente.

Nella Conferenza di Genova del 1922 venne quindi definito un sistema misto, rimasto noto come il gold exchange standard: ci si accordava di immagazzinare nelle riserve delle banche centrali non solamente oro, ma anche un'altra valuta considerata buona come l'oro, la sterlina. Questa scelta affidava alla finanza britannica un ruolo di regolatore dell'economia internazionale che essa non era più in grado di rivestire.

Questo finì per rendere rigidi i rapporti di cambio per tutti gli anni venti, impedendo alle autorità monetarie dei vari paesi di regolare i valori delle proprie monete con sufficienti margini di libertà, in modo tale da rispettare i rispettivi cicli economici.

Inoltre contribuì a far ruotare l'intero sistema monetario internazionale intorno alla moneta di un paese relativamente debole, incapace di assumere su di sé  quelle responsabilità generali che il complesso sistema economico emerso dalla prima guerra mondiale veniva imponendo.

l'assenza di una leadership

Il secondo elemento di fragilità del sistema economico internazionale consisteva nell'assenza di una credibile autorità finanziaria internazionale e di un efficace sistema di norme garantito da un paese guida capace di assumersi responsabilità generali e pronto ad operare in caso di emergenza.

La nazione che aveva rivestito a lungo questo ruolo era stata la Gran Bretagna, che però era riuscita irrimediabilmente indebolita dalla guerra.

Il primato avrebbe dovuto passare in quegli anni agli Stati Uniti, che nell'economia internazionale occupavano una posizione di assoluto predominio sin dall'inizio del secolo, ed in seguito alla guerra la finanza americana era diventata creditrice di tutte le potenze europee.

Ma in quegli anni gli USA assunsero una politica "isolazionista", contraria cioè ad un coinvolgimento nella politica europea, e quindi anche ad una eccessiva cooperazione monetaria e finanziaria.

l'eredità di Versailles

Una ulteriore causa di fragilità dell'ordine economico internazionale era costituita dall'eredità dei debiti di guerra e chiama in causa le decisioni assunte dalle potenze vincitrici, in seguito alle quali venne a crearsi un curioso triangolo finanziario, nel quale gli Stati Uniti sostenevano con i loro capitali l'economia tedesca; la Germania dedicava gran parte delle proprie risorse a pagare le riparazioni a Francia e Gran Bretagna, e queste a loro volta utilizzavano tali capitali per pagare i propri debiti di guerra.

Questo triangolo poteva sussistere solo fino a quando gli Stati Uniti fossero stati disponibili a esportare i propri capitali in Germania, ma si rivelò un pericoloso meccanismo di diffusione della crisi, quando la mancanza di risorse finanziarie americane interruppe l'intero circuito internazionale.

Le cause congiunturali

Wall Street già dal 1927 era diventata la sede di movimenti speculativi di gigantesche dimensioni, frutto dell'euforia collettiva che aveva alimentato l'intensa crescita dell'economia americana per tutti gli anni venti.

Questa tumultuosa attività borsistica aveva determinato la diffusione di pratiche assai pericolose, in particolare quella dell'acquisto delle azioni a credito, con il risultato di alimentare la formazione di una "economia di carta" sempre più slegata dall'economia reale, cioè quella della produzione e dello scambio di beni di consumo.

È precisamente dal sorgere di una vera e propria situazione di panico che derivò il crollo dell'ottobre.

Per porre un argine ai movimenti speculativi esisteva una manovra molte volte sperimentata con successo nei decenni precedenti: l'aumento del tasso d'interesse praticato dalla banca centrale nei rapporti con le altre banche, con il risultato di far crescere tutti gli interessi e quindi di scoraggiare le richieste di credito volte a fini speculativi.

Nulla invece accadde da parte delle autorità pubbliche come ci si aspettava per marzo, e la speculazione riprese.

Soltanto il 6 agosto 1929 il tasso della banca centrale fu innalzato dal 5 al 6 per cento: misura tardiva e troppo contenuta.

Il 22 ottobre l'indice era a quota 415; il giorno seguente esso cadde a 384; infine,  il "giovedì nero", le azioni vendute al ribasso furono quasi 13 milioni.

La crisi travolse gli speculatori, i mediatori di borsa, le banche; ma non poteva più restare limitata ai soli ambienti finanziari.

Le cause strutturali

È lecito affermare che la crisi affonda le proprie radici nei caratteri stessi dello sviluppo del capitalismo americano nel decennio postbellico.

Gli studiosi infatti sono concordi nel ritenere che la causa strutturale del "grande crollo" fu l'eccesso di capacità produttiva; in sostanza la sovrapproduzione latente che era cresciuta insieme allo sviluppo durante il ciclo espansivo della seconda metà degli anni venti.

I fattori che lo avevano determinato erano stati gli enormi investimenti in capitale fisso e una profonda riorganizzazione dei sistemi produttivi, fondata sull'innovazione tecnologica e sulla diffusione su larga scala del taylorismo, che consisteva in una estrema semplificazione del lavoro, attraverso la scomposizione delle mansioni.

Questa profonda trasformazione della produzione industriale era stata favorita e sostenuta da una crescita costante della domanda aggregata, nella quale l'esportazione aveva svolto un ruolo decisivo.

Oltre a questo concorse a determinare la crisi di sovrapproduzione la modificazione sostanziale nella divisione internazionale del lavoro avvenuta nella seconda metà degli anni '20: a una sola grande nazione produttrice capace di rispondere alla domanda mondiale, si sostituì un sistema policentrico, che comprendeva oramai anche Europa e Giappone, e che trasformò l'economia americana in una gigantesca macchina produttrice di eccedenze.

Si aprì così inevitabilmente una drammatica spirale che travolse l'economia americana, il fondo della quale fu toccato nel 1932, con 13 ml di disoccupati e un sistema produttivo al collasso. 

La dinamica

Prima dell'ottobre 1929

Gli anni venti in America furono un periodo veramente buono. La produzione e l'occupazione erano elevate e in aumento.

I salari non salivano molto, ma i prezzi erano stabili. Benché molti fossero ancora poverissimi, più persone di una volta erano dotate di discreti mezzi, benestanti o ricche.

Esistevano valide ragioni perché i prezzi delle azioni salissero. Le prospettive sembravano favorevoli.

In ogni caso, è evidente che fu il crollo della borsa di New York a segnare l'inizio della depressione. In quel periodo l'ascesa della borsa di New York appariva spettacolare.

Due forti cadute si verificarono nel dicembre del 1928 e nel marzo del 1929. La banca di New York era preoccupata per gli eccessivi rialzi della borsa, ma esitava ad aumentare i tassi di interesse per paura della pressione che questa operazione avrebbe generato sulle riserve auree delle banche centrali europee.

Il 9 agosto la Federal Reserve Bank di New York aumentò il suo tasso di sconto dal 5% al 6%. Il mercato dei titoli, in pieno boom, richiedeva un aumento dei tassi di interesse, mentre segni ancora vaghi di debolezza dell'economia sembravano consigliare la scelta opposta.

Il mercato tuttavia non prestò attenzione alla manovra.

Retrospettivamente, appare chiaro che l'attività economica era in difficoltà già molto prima del crollo e che i sintomi di malessere non erano molto evidenti prima del crollo del mercato azionario: da questo punto di vista il crollo della borsa non fu la causa della crisi, quanto piuttosto il segnale della necessità di una pausa d'assestamento.

Il crollo della borsa e l'avvio della depressione

L'indice di Wall Street cominciò a scendere il 3 ottobre e continuò fino all'ondata di panico del "giovedì nero", 24 ottobre. I banchieri più importanti tentarono di organizzare un consorzio per fermare il collasso: quello che fu chiamato il "sostegno organizzato", e che fallì. Il 29 ottobre infatti ebbe luogo il famoso "martedì nero", durante il quale vennero trattate 16.400.000 azioni, un record che doveva durare quasi 40 anni.

Verso la fine del mese si registrò una certa ripresa, ma il 13 novembre si registrarono i valori minimi di quell'anno. Il ritiro dei fondi a vista dal mercato di New York da parte dei capitalisti stranieri, delle banche statunitensi provinciali e delle imprese, causò grosse perdite ai singoli investitori, influenzando quindi i loro livelli di spesa.

Come conseguenza la produzione cadde e le scorte decrebbero. In definitiva il processo deflazionistico innescato si articolò in due sequenze: l'una dalla discesa dei mercati azionari alla diminuzione della produzione e delle scorte; l'altra dai prezzi dei titoli ai prezzi delle merci, alla riduzione del valore delle importazioni; entrambe furono molto rapide.

Ed alla luce dell'improvviso collasso dell'attività economica, dei prezzi delle merci e delle importazioni alla fine del 1929 si può ragionevolmente sostenere che l'andamento della borsa non fu un fenomeno di superficie o un detonatore, quanto piuttosto fu parte integrante di un meccanismo deflazionistico concreto.

Gli effetti

introduzione

Le conseguenze della crisi statunitense evidenziano le trasformazioni del mercato capitalistico e lo stretto rapporto di interdipendenza tra le economie nazionali raggiunto all'inizio degli anni '30.

Il crollo di Wall Street ha effetti devastanti in alcuni stati europei, soprattutto in Germania e Austria, che avevano affidato gran parte della ripresa post-bellica a capitali americani. Ma tutti i paesi occidentali industrializzati sono vittime della recessione.

Nel 1931 l'abbandono della convertibilità in oro della sterlina inglese appare come il segno più drammatico della conclusione di un'epoca di grande sviluppo industriale e commerciale.

La contrazione della produzione e degli scambi internazionali scuote infatti anche i più radicati principi del pensiero liberale occidentale: l'idea di un progresso indefinito, la fiducia nelle dottrine liberiste dell'autoregolamentazione del mercato, la certezza di un generale miglioramento delle condizioni di vita.

Politici ed imprenditori sono costretti a ripensare forme di organizzazione e strategie di sviluppo. 

Accanto alle soluzioni che immediatamente si prospettarono, e che si rivelarono inutili o addirittura controproducenti, una in particolare, quella più moderna ed originale, si rivelò efficace e destinata a segnare lo sviluppo economico e sociale per l'intero mezzo secolo successivo: il nuovo ruolo della politica e dello stato.

Gli effetti sociali della crisi

La scelta di operare un taglio dell'offerta per sostenere i prezzi e tutelare i profitti si scaricò interamente sulla classe operaia e sui ceti meno protetti, perché la sovrapproduzione non comportò, come era accaduto in passato, una relativa difesa dei salari reali, grazie alla caduta dei prezzi.

Il blocco degli investimenti e della produzione si tradussero in una drastica caduta dell'occupazione, che impedì pure un'efficace difesa dei livelli salariali da parte degli occupati.

Questi processi, di fronte ad una relativa tenuta dei prezzi, significarono un drastico peggioramento delle condizioni di vita degli strati di lavoratori e cittadini meno protetti.

Questo fenomeno fu a sua volta uno strumento di accelerazione e diffusione della crisi perché ridusse ulteriormente la domanda acuendo la sovrapproduzione.

Gli effetti nel sistema produttivo

Poiché i prezzi non erano più regolati dal rapporto fra domanda e offerta, ma erano stabiliti dai trust, la reazione degli operatori economici di fronte alla gigantesca massa delle scorte invendute fu quella di bloccare gli investimenti e ridurre la produzione.

In sostanza le grandi holding operarono non tanto un taglio di prezzi, quanto un taglio dell'offerta per sostenere i prezzi e sostenere i profitti.

Questa scelta ebbe come conseguenza una caduta verticale della produzione industriale ed alimentò la crescita abnorme della disoccupazione.

Con la produzione calarono ovviamente anche gli investimenti e crebbe la tendenza ad aumentare la concentrazione e la centralizzazione dell'organizzazione economica.

L'accentuata monopolizzazione dei settori economici comportò altre conseguenze significative: innanzitutto un indebolimento del mercato ed una cronica deficienza della domanda; ed inoltre una immobilizzazione degli equilibri settoriali e dei rapporti di forza tra i gruppi.

La fine del Gold Standard

La scelta protezionistica si manifestò anche tramite misure volte ad un sempre più rigido controllo degli scambi: il commercio venne di fatto sottoposto al controllo dello stato, che ne fissava regole e limiti.

In questo quadro si iscrivono gli interventi di politica monetaria, attraverso cui vennero erette le mura protezionistiche attorno ai confini degli stati.

Il 21 settembre 1931 la Gran Bretagna abbandonò il regime aureo, dichiarando l'inconvertibilità della sterlina con l'oro e lasciando che essa fluttuasse liberamente.

Il provvedimento equivaleva ad avviare una pesante svalutazione: in poco tempo la sterlina si deprezzò di oltre il 30%.

La decisione innescò una reazione a catena che indusse altri 25 paesi ad adottare lo stesso provvedimento per non far perdere concorrenzialità alle proprie merci sui mercati internazionali, facendo però precipitare la situazione.

La dinamica delle svalutazioni a catena travolse gli equilibri delle transazioni internazionali, rendendo più acuta la paralisi del commercio mondiale e rafforzando la spinta alla creazione di mercati nazionali protetti e tendenzialmente autosufficienti.

La scelta protezionistica

Per uscire dalla crisi i governi dei paesi maggiormente coinvolti misero in atto una serie di misure per rilanciare la produzione.

Esse furono sostanzialmente improntate ad elevare barriere protezionistiche sempre più rigide, per scoraggiare la concorrenza internazionale e garantire all'industria nazionale un mercato interno protetto. L'apertura delle ostilità fu ad opera del Presidente americano H. Hoover nel marzo del 1929, con il risultato di paralizzare il commercio internazionale e in particolare le esportazioni europee e dando origine ad una serie di ritorsioni doganali a catena con il risultato di acutizzare la segmentazione del mercato mondiale in tanti mondi chiusi quanti erano i singoli mercati nazionali.

Le conseguenze più gravi si ebbero in Gran Bretagna, privata di una delle sue tradizionali fonti di reddito, ed in Germania, dove la cessazione dell'afflusso di capitali stranieri portò alla sospensione dei lavori pubblici e dei piani di edilizia popolare, oltre al licenziamento degli operai di numerose industrie. Il mantenimento di un livello concorrenziale dei prezzi sui mercati esteri era ormai possibile o per mezzo di una forte diminuzione dei costi, e quindi dei salari, o attraverso la svalutazione delle monete.

Nessuno dei due provvedimenti era esente da rischi: il primo avrebbe infatti depresso ulteriormente il potere d'acquisto sui mercati interni, mentre il secondo si scontrava con il meccanismo del gold standard, che vincolava le monete a una qualche parità con la sterlina e con l'oro.

Alla fine fu proprio questo ad entrare in crisi.

La crisi in Italia

La crisi economica mondiale arrivò in Italia con qualche ritardo rispetto agli altri paesi europei, ed avevano contribuito a questo ritardo almeno tre circostanze particolari: la relativa arretratezza dell'economia italiana; la politica deflazionistica seguita, che aveva rallentato lo sviluppo, facendo giungere il paese alla grande crisi con una economia meno surriscaldata rispetto alle altre nazioni industriali e rendendo il contraccolpo meno evidente; infine, la già sperimentata pratica interventista e dirigista da parte dello stato.

Gli effetti della crisi tuttavia si fecero sentire, e il regime reagì adottando una politica di favore per i grandi gruppi industriali - finanziari, un rigido controllo statale dell'economia e una compressione dei salari e delle condizioni di vita delle classi subalterne.

Mentre Roosvelt aveva affidato l'ampliamento della domanda sul mercato al miglioramento del reddito delle masse popolari e aveva fondato la propria politica sull'appoggio dei sindacati e dei movimenti più poveri, Mussolini, imponendo fra l'altro nuovi tagli ai salari, puntò decisamente sull'appoggio dei grandi gruppi industriali ai quali assicurò ampie commesse statali e la certezza di livelli salariali bassi e stabili.

Le maggiori politiche anticicliche consistettero comunque nell'accentuare l'interventismo statale, avviare ambiziosi programmi di lavori pubblici e assumere direttamente a carico dello stato il risanamento di interi settori economici.

Le politiche anticicliche in Italia

L'impresa di più ampio respiro avviata dal governo a sostegno dell'occupazione fu senza dubbio la bonifica delle paludi pontine, decisa già nel 1928, ma attuata solo dopo la grande crisi, quando i fatti stessi imposero allo stato di intervenire.

Contemporaneamente furono anche compiuti imponenti lavori pubblici nel centro di Roma, ampliamenti della rete stradale e autostradale, e l'edificazione dell'acquedotto pugliese.

Nel gennaio 1933 fu costituito l'istituto per la ricostruzione industriale, l'Iri, con il compito di intervenire nel salvataggio delle numerose industrie e banche colpite dalla crisi.

Si trattava senza dubbio di un sistema per "privatizzare i profitti e socializzare le perdite" come sostenne la critica antifascista.

Inoltre attraverso il meccanismo delle partecipazioni statali, che portò l'Italia ad avere un settore pubblico inferiore solamente a quello dell'Unione Sovietica, si realizzava anche una forma assai efficace di intervento diretto dello Stato nell'economia allo scopo di orientarne e dirigerne lo sviluppo secondo le linee della politica governativa.

La riforma creditizia attuata nel 1936 completò il quadro affidando allo Stato il compito di rastrellare capitali, attraverso gli strumenti fiscali, il prestito pubblico, gli enti mutualistici e assistenziali, e di farli affluire in forma selettiva alle imprese.

L'insieme dei questi provvedimenti, costituì in realtà uno strumento decisivo di riorganizzazione e ristrutturazione del capitale industriale e finanziario italiano: si poté in questo modo mobilitare sotto la guida dello stato la totalità delle risorse sociali finalizzandole al proprio sviluppo.

L'incapacità di autoregolazione del mercato

La crisi del '29 aveva permesso di constatare un altro fatto: il ciclo economico, una volta entrato in fase di recessione, non era in grado di riequilibrarsi sulla base dei soli meccanismi automatici del mercato, anzi, finiva per avvolgersi in una spirale negativa.

Una ripresa dell'economia implicava la presenza di soggetto super partes, di una sorta di titolare dell'interesse economico complessivo al di sopra della volontà dei singoli operatori. In sostanza occorreva un "capitalista collettivo", capace di interpretare e realizzare le esigenze complessive del "sistema" contro le istanze particolari dei singoli.

IL NUOVO RUOLO DELLO STATO

Di fronte al tracollo produttivo e alla dilagante disoccupazione di massa, la classe dirigente dei paesi industrializzati avverte l'inadeguatezza dei tradizionali strumenti di controllo politico e trasforma l'apparato statale in un protagonista dello sviluppo economico.

È una vera e propria rivoluzione del sistema liberista: il mercato non è in grado di assicurare autonomamente il benessere di una nazione, occorre che l'interesse pubblico guidi le strategie economiche degli imprenditori privati.

Le ortodosse politiche deflazionistiche, ispirate al principio del pareggio di bilancio, dimostrano scarsa efficacia di fronte alla necessità di risanare il sistema produttivo.

Dovunque lo stato divenne protagonista di primo piano dello sviluppo economico: non più come suo garante esterno, ma con funzione di governo del ciclo economico.

Con il "New Deal" il Presidente americano F. D. Roosvelt inaugura una politica innovativa di investimenti pubblici e riforme sociali. In molto paesi occidentali la ripresa dei consumi diventa la nuova priorità della politica economica.

In Germania la crisi della Repubblica di Weimar lasciò il posto alla stato "totale" nazionalsocialista, mentre in Italia il Fascismo si evolse, seguendo una politica imperiale e autarchica, verso forme di statalismo prima sconosciute.

Nelle principali potenze mondiali quella che si profilò nel periodo che va dalla grande crisi alla seconda guerra mondiale fu una nuova forma della politica, più pervasiva della società civile, più "totale": nacque lo stato interventista.

La centralità della domanda nel sistema economico

Negli ultimi decenni dell'Ottocento ci si era illusi di eliminare l'irrazionalità dello sviluppo industriale e la sua "tendenza alla crisi" attraverso la razionalizzazione della produzione e il controllo del mercato mediante i monopoli.

Tale razionalizzazione aveva infatti aumentato il potenziale produttivo dell'industria, ma non le capacità di consumo di massa.

Negli anni trenta però la nuova crisi riportava in primo piano il fatto che l'economia di mercato non fosse in grado di generare spontaneamente una domanda adeguata alle capacità produttive.

Senza un adeguato sbocco di mercato per le merci prodotte, l'intera macchina economica avrebbe finito per rallentare, per poi fermarsi.

Dall'imperativo ottocentesco "primo: produrre" si passa al nuovo imperativo tipicamente novecentesco, "primo: consumare".