La letteratura del primo Novecento e la città

Forse mai nella storia la distanza tra città e campagne è stata tanto forte quanto negli ultimi decenni dell'ottocento.

Gli effetti della seconda rivoluzione industriale si riversano direttamente sulla grande città, la trasformano e la proiettano nel futuro.

Alla fine del secolo Londra e Parigi hanno già la struttura della nuova metropoli: sono un intreccio compatto di reti di comunicazione, di servizi e di trasporti.

Le campagne invece sono ferme a una condizione preindustriale: ripetono tecniche, rapporti economici e ruoli sociali vecchi di millenni.

Lo squilibrio è troppo stridente: le "luci della città", cioè l'immagine di una condizione di vita meno disperata, agiscono come una calamita, attirano, a milioni, le popolazioni rurali.

L'inurbamento e l'emigrazione (che ha quasi sempre come meta i grandi centri urbani) gonfiano a loro volta le città, le trasformano in agglomerati immensi, fanno nascere nuovi problemi.

Nonostante la crescita rapida e disordinata porti al deteriorarsi della qualità della vita, il trasferimento in una città avviene solamente in funzione della possibilità di lavoro.

Le città economicamente più vivaci attraggono sempre più gente, indifferente agli altri caratteri della vita urbana, quali l'ambiente fisico, il tessuto sociale, la componente culturale, che raramente si coniugano con le esigenze di una città in pieno sviluppo commerciale.

Già Leopardi agli inizi dell'ottocento, notava come il problema della salubrità della città sembrasse non influenzare la scelta di una rispetto ad un'altra.

Lui, causa la sua debolezza fisica, era continuamente alla ricerca di un ambiente sano e per questo si meravigliava che la gente invece fosse attratta solamente dal miraggio del guadagno e preferisse ad esempio la ricca Livorno alla salutare Pisa.

 Giacomo Leopardi, dallo Zibaldone dei pensieri, VII, 4333, 2

"La salute è considerata generalmente dalla società come il minimo dei beni umani, seppur ne è fatto conto in modo veruno.

Fra le mille prove (e non parlo qui d'individui, ma di corporazioni) osservate che non troverete mai un luogo, una città che sia cominciata ad abitarsi, che cresca giornalmente di popolazione, per rispetto della salubrità del sito, e neanche della clemenza dell'aria.

Opportunità di commercio, vicinanza di mare, centralità, presenza della corte, mille cose fanno e che si scelga a principio un luogo per popolarlo, per fondarvi una città, e che una città cresca via via d'abitanti: ma la salubrità non mai. Non v'è città che debba la sua nascita a questa causa, nessuna che le debba il suo accrescimento.

Troverete spesso un sito saluberrimo, con aria comodissima, affatto deserto, in vicinanza d'una o di più città, pessimamente situate e popolatissime. Tra Livorno e Firenze (di scellerata situazione) vedete un sito che è Pisa; una città che fu anche popolatissima.

Livorno pel suo mare, Firenze per cento altri vantaggi, si accrescono ogni giorno prodigiosamente di popolo; e sulle loro porte Pisa, che da che ha perduto la sua potenza, il commercio, i vantaggi estranei alla salubrità, si spopola, divien sensibilmente deserta ogni giorno di più."

Alla fine del diciannovesimo secolo a Trieste, città cresciuta in modo impetuoso e scomposto come porto commerciale,  appariva malata. La malattia che descrive Svevo non è però di carattere fisico ma spirituale, è la malattia di tutti i suoi personaggi.

Alfonso Nitti, il protagonista di "Una vita", arriva a Trieste da un paesino di campagna, ed avverte istantaneamente la diversità: nelle lettere alla madre il villaggio appare un paradiso in confronto alla città, la sua nuova stanza nella pensione è piccola ed ancor più piccola appare quella di un suo collega costretto ad adoperare un marchingegno costruito da lui per tenere nella camera una sedia che altrimenti gli impedirebbe di entrare.

Non è però solamente lo spazio che manca ad Alfonso: il lavoro in ufficio è meccanico, i suoi colleghi vanno tutti di fretta e la vita nella città si rivela difficile per lui, un inetto.

La condizione di inetto, propria in generale del''uomo moderno, fa si che lui si accorga della tristezza, del grigiore di Trieste, città cresciuta rapidamente per i commerci ed agitata dalla corsa nella ricerca del denaro.

Italo Svevo, da "Una Vita", cap XV

"Si fece allo sportello. La città con le sue bianche case alla riva in largo semicerchio abbracciava il mare e sembrava che l'avesse respinta al centro. Era grigia e triste, una nube sempre più densa sul capo sembrava da essa prodotta perché a lei unita dalle sue nebbie, l'unica traccia della sua vitalità. Era là dentro, in quell'alveare, che la gente si affannava per l'oro, e Alfonso, che là aveva conosciuto la vita e che credeva che così non fosse che là, respirò liberandosi con la fuga da quella cappa di nebbia."

Trieste, città "giovane" ricca di contraddizioni per la sua crescita improvvisa, era perciò campo di osservazioni e di approfondimento dal vivo di processi di sviluppo tipici della modernità. Essa offriva ai giovani intellettuali - proprio per l'assenza di filtri di una tradizione passata - la possibilità di osservazione "dal vero": essa è così presente in Svevo da essere stata considerata da Montale "il più singolare personaggio Sveviano [...] il personaggio città". Non esiste in effetti un angolo di Trieste che i suoi romanzi non abbiano ritratto: A. Sorz ha descritto una visita nei luoghi più importanti di Trieste tramite citazioni dalle opere Sveviane. Nonostante Svevo la descriva in diversi luoghi e momenti, egli dà di essa una connotazione precisa, come quando in "Senilità" la definisce "la città del lavoro", nonostante la osservi nell'ora "morta" ed in circostanze estranee a questo tipo di considerazione.

Italo Svevo, da "Senilità", cap IV

"Ella sedette sul muricciolo che fiancheggiava la via ed egli rimase in piedi dominandola tutta. Vedeva proiettarsi quella testa, illuminata da una parte dalla luce di un fanale, sul fondo oscuro: l'Arsenale che giaceva sulla riva, tutta una città, in quell'ora, morta. - la città del lavoro! - disse egli sorpreso d'essere venuto là ad amare.
Il mare, chiuso dalla penisola di faccia, nascosto dalle case, nella notte era sparito dal panorama. Restavano le case sparse alla riva come su una scacchiera, poi, più in là, un vascello in costruzione. La città del lavoro pareva anche maggiore che non fosse."

Agli inizi del Novecento Pirandello, esprimendo il suo grande scetticismo di fronte al progresso, metteva in bocca al suo personaggio Mattia Pascal alcune riflessioni sulla vita moderna e sulla civiltà delle macchine.

Nella sua condizione di morto-vivo, Mattia-Adriano si trova nella condizione disperata ma per certi versi privilegiata di estraneo nei confronti della vita; andando per la vie di Milano quello che lo colpisce è la completa inutilità di tutti gli sforzi che compongono la vita quotidiana, vita che si svolge nel rumore e nella frenesia senza scopo.

Quello che però fa più riflettere il protagonista è l'accanimento dell'uomo nella ricerca del progresso: tutto lo sforzo umano, pensava Pirandello, è indirizzato al raggiungimento del progresso tecnologico, nell'illusione che questo porti la felicità: il pover'uomo che spende il suo stipendio per andare sul tram è il simbolo dell'umanità che si adopera per raggiungere il progresso, mentre questo porta via la sua vita.

La scienza appare come ciò che, rendendo meccanico e facile un lavoro senza scopo come quello umano, rende l'esistenza più facile ma più dolorosa.

Luigi Pirandello, da "Il fu Mattia Pascal", cap IX, "Un po' di Nebbia"

"Ora, se questo Adriano Meis non aveva il coraggio di dir bugie, di cacciarsi in mezzo alla vita, e se si appartava e rientrava in albergo, stanco di vedersi solo, in quelle tristi giornate d'inverno, per le vie di Milano, e si chiudeva nella compagnia del morto Mattia Pascal, prevedevo che i fatti miei, eh, avrebbero cominciato a camminar male; che insomma non mi s'apparecchiava un divertimento, e che la mia bella fortuna, allora...
Ma la verità forse era questa: che nella mia libertà sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo. Sul punto di prendere una risoluzione, mi sentivo come trattenuto, mi pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e ostacoli.
Ed ecco, mi cacciavo, di nuovo, fuori, per le strade, osservavo tutto, mi fermavo ad ogni nonnulla, riflettevo a lungo sulle minime cose; stanco, entravo in un caffè, leggevo qualche giornale, guardavo la gente che entrava e usciva; alla fine, uscivo anch'io. Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolio di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m'intronavano.
< Oh perché gli uomini,> domandavo a me stesso, smaniosamente, < si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il cosiddetto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente di arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioia in fondo proviamo noi, anche ammirandole?>
In un tram elettrico, il giorno avanti, m'ero imbattuto in un pover'uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare agli altri tutto ciò che passa loro per la mente.
 - Che bell'invenzione! - mi aveva detto. - Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza Milano.-
Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover'uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n'andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc.,ecc.
Eppure la scienza, pensavo, ha l'illusione di rendere più facile e più comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: < E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?>  

Introducendo un'altra immagine di città, quella di Roma, Pirandello contrapponeva la mediocrità della vita moderna alla storia gloriosa della città antica. Roma è "morta" perché il suo antico prestigio non si concilia con l'uniformità tipica delle città moderne, efficenti, frenetiche, anonime. La civiltà moderna non ha più tempo per riconoscere la grandezza di Roma, ne ha perso coscienza, come Mattia che usa l'acquasantiera come portacenere. La vita moderna, con il suo formicolio, non è capace che di mediocrità.

Luigi Pirandello, da "Il fu Mattia Pascal", cap X, "Acquasantiera e portacenere"

"Una sola volta mi rivolse, d'improvviso, una domanda particolare:
- Perché sta a Roma lei, signor Meis? -
Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:
- Perché mi piace starci... -
- Eppure è una città triste, - osservò egli, scotendo il capo. - Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. -
- Morta anche Roma? - esclamai, costernato.
- Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un'altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? Guardi, signor Meis. Mia figlia Adriana mi ha detto dell'acquasantiera, che stava in camera sua, si ricorda? Adriana gliela tolse dalla camera, quell'acquasantiera; ma, l'altro giorno, le cadde di mano e si ruppe: ne rimase soltanto la conchetta, e questa, ora, è in camera mia, sulla mia scrivania, adibita all'uso che lei per primo, distrattamente, ne aveva fatto. Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l'identico. I Papi ne avevano fatto - a modo loro, s'intende, un'acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D'ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci dà."