Michelangelo Merisi
Caravaggio

NASCITA E PRIME ESPERIENZE 1571-1592

ROMA 1592 - 1606

DA NAPOLI A PORTO ERCOLE 1606 - 1610


NASCITA E PRIME ESPERIENZE 1571-1592

«Deve molto questa nostra età a Michelangelo da Caravaggio, per il colorir che ha introdotto, seguito adesso assai comunemente».

Quando Giulio Mancini, stimato medico di papa Urbano VIII ed esperto conoscitore d’arte, scrive verso il 1620 questo lusinghiero giudizio sul pittore, Caravaggio è morto da appena dieci anni e sul suo particolarissimo stile si fonda ormai una vera e propria «schola» che fa proseliti soprattutto fra i giovani artisti.

Eppure, accanto alle lodi, gli stessi sostenitori di Merisi non possono fare a meno di manifestare spesso imbarazzo o riprovazione nei confronti di questo artista ribelle e scomodo che, come afferma lo stesso Mancini, «non si può negare che fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto qualche dicina d’anni di vita et minuitasi in parte la gloria acquisita».

Non è possibile infatti parlare di Caravaggio ignorando la sua vita movimentata e avventurosa che si conclude, dopo anni passati a sfuggire dal mandato di cattura per omicidio spiccato nei suoi confronti dal tribunale pontificio, in modo drammatico a Porto Ercole nel 1610, quando l’artista non ha ancora quarant’anni.

La breve e straordinaria vita di Michelangelo Merisi ha dunque inizio a Milano nel 1571, probabilmente il 29 settembre, festa di san Michele Arcangelo. Figlio primogenito nato dalle seconde nozze di Fermo Merisi con Lucia Aratori, Michelangelo trascorre la sua adolescenza insieme ai fratelli Giovan Battista e Caterina e i due fratellastri, tra Milano e il piccolo borgo nel bergamasco da cui provengono entrambi i genitori e dove la famiglia si trasferisce per sfuggire probabilmente alla terribile pestilenza che devasta Milano nel 1577.

Fermo, definito nei documenti “magister” - qualifica che al tempo designava tanto gli artigiani quanto gli architetti o i pittori -, era maestro di casa dei signori di Caravaggio. A conferma dei rapporti di stima e protezione che legavano la famiglia Merisi agli Sforza, i documenti informano che il marchese Francesco I - marito di Costanza Colonna, figlia del celebre Marcantonio, l’eroe della battaglia di Lepanto - partecipa alle nozze di Fermo e Lucia in qualità di testimone.

Questi legami avranno grande importanza in seguito, quando a Roma Caravaggio potrà contare in più occasioni sull’aiuto e l’appoggio della potente famiglia Colonna.

Nel 1578 Fermo muore, forse di peste, e qualche anno dopo il tredicenne Michelangelo viene mandato a studiar pittura a Milano nella bottega di Simone Peterzano, il quale nel contratto datato 6 aprile 1584 si impegna a tenere per quattro anni presso di sé il giovane. Questa è l’unica notizia certa riguardo la formazione di Caravaggio.

La frequentazione della bottega di Peterzano, un tardo manierista che si firmava «Titiani alumnus», potrebbe giustificare l’influsso del tonalismo veneto che si avverte nelle opere giovanili di Merisi, tuttavia è probabile che il giovane apprendista abbia visto e meditato anche le opere sparse nelle chiese di Bergamo, Brescia e Cremona, città vicine a Caravaggio.

Gli scorci paesaggistici, gli atteggiamenti dei personaggi, l’attenzione per la rappresentazione puntigliosa e verosimile della realtà, così come la tavolozza ricca di morbidi accordi cromatici che caratterizzano le opere di Moretto, Savoldo, Romanino o dei Campi, si ritrovano anche nelle prime opere di Caravaggio realizzate in seguito a Roma.

Terminato il periodo di apprendistato, Michelangelo torna forse a Caravaggio - dove nel 1589 vende la metà di un terreno ricevuto in eredità dal padre -, ma non si può escludere che facesse la spola tra il piccolo borgo e Milano, dove risiedeva lo zio prete, Ludovico Merisi.

Questi nel 1590, alla morte della madre di Merisi, diviene il tutore dei ragazzi.

Secondo alcuni biografi, ormai diciannovenne, Michelangelo avrebbe già dato le prime avvisaglie del suo carattere inquieto e violento. Scrive infatti Mancini che durante il suo soggiorno milanese Caravaggio «di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calor e spirito così grande», e l’abate Bellori aggiunge che «essendo egli d’ingegno torbido, e contentioso, per alcune discordie» è costretto a fuggire da Milano.

Sempre Bellori, in una postilla alla vita di Caravaggio scritta da Giovanni Baglione, afferma che l’artista si sarebbe macchiato dell’omicidio di un compagno e dopo aver passato un anno in carcere, avrebbe deciso di cambiar città

. Non sappiamo quanto ci sia di vero in questa notizia, frutto forse della fantasia dei biografi influenzati dalla fama di artista ribelle e maledetto che si andava affermando, tuttavia, comunque siano andati i fatti, i documenti informano che nel maggio del 1592 Michelangelo torna a Caravaggio.

Da qui, incassato quanto ancora gli spetta dell’eredità materna, parte alla volta di Roma, dove nel frattempo si è trasferito lo zio prete.

ROMA 1592 - 1606

La Roma in cui Caravaggio arriva verso la fine del 1592 è una città che da poco tempo ha assunto l’aspetto di capitale europea grazie ai grandiosi interventi urbanistici voluti da Sisto V, morto nel 1590, e realizzati dal suo architetto di fiducia Domenico Fontana. Seguendo la consuetudine del tempo, Merisi frequenta probabilmente la comunità lombarda che si riuniva attorno alla confraternita di Sant’Ambrogio al Corso e quella sorta di colonia di artigiani, scalpellini e architetti originari di Brescia e Bergamo che si era insediata nei pressi di palazzo Colonna, tra piazza Santi Apostoli e il quartiere dei Pantani. Le prime notizie documentarie indicano che nell’estate del 1593 Caravaggio conosce e frequenta Onorio Longhi, figlio dell’architetto Martino originario del varesotto e architetto lui stesso al servizio dei Colonna. Grazie forse ai buoni uffici dello zio prete, il giovane Merisi trova ospitalità presso monsignor Pandolfo Pucci, beneficiario di San Pietro e maestro di casa della sorella di Sisto V, Camilla Peretti.

Per monsignor Pucci Caravaggio dipinge copie di quadri devozionali in cambio dell’alloggio e del misero vitto consistente, come narra Mancini, in «un insalata quale li serviva per antipasto, pasto e pospasto». Dopo qualche mese, stanco del trattamento riservatogli dal prelato - a cui in seguito affibbierà il soprannome di «monsignor Insalata» - Caravaggio va a stare presso un certo Tarquinio, un oste milanese proprietario di due osterie nel quartiere del bordello agli “ortacci”, a cui fa un ritratto oggi perduto. Qui inizia a dipingere quadri «per vendere», ovvero quadri di medie dimensioni facili da smerciare, soggetti “di genere” tra cui, stando a quanto riporta Mancini, «un putto che piange per essere stato morso da un racano [ramarro] [...] e dopo pur un putto che mondava una pera con il cortello». Sull’identificazione di queste prime prove dell’artista gli studiosi sono ancora discordi, ma in genere si propende per il Giovane che monda un frutto, oggi in collezione privata e datato al 1592-1593, e nelle due versioni del Giovane morso da un ramarro della Fondazione Longhi e della National Gallery di Londra, generalmente datate però al 1594 per ragioni stilistiche.

Dall’osteria di Tarquinio, secondo quanto afferma Baglione, Caravaggio passa alla bottega di un pittore siciliano di nome Lorenzo, «che di opere grossolane tenea bottega».

Questi viene variamente identificato con un certo «Lorenzo pittore» al servizio del cardinale Federico Borromeo, oppure con tale Lorenzo di Marco, mediocre artista siciliano che aveva bottega insieme a uno spadaro ai Condotti. Qui Merisi avrebbe conosciuto il quindicenne Mario Minniti, pittore anch’egli e compagno di bravate, che Michelangelo ritroverà poi a Malta e in Sicilia.

Nella bottega di Lorenzo, Caravaggio «faceva le teste per un grosso l’una e ne faceva tre al giorno». La scelta di dedicarsi ai ritratti testimonia già sia l’abilità del giovane artista nel dipingere “dal naturale” quanto l’esigenza di avere davanti sempre un modello da ritrarre sulla tela, caratteristica questa che ai detrattori apparirà sempre come il maggior limite del naturalismo caravaggesco. Caravaggio intanto frequenta la bottega del pittore senese Antiveduto Gramatica, ritrattista già di un certo nome al punto da essere definito «gran capocciante», dove, secondo l’abate Bellori, Merisi avrebbe dipinto le sue prime composizioni a mezze figure, sperimentando per la prima volta l’uso di forti contrasti di luce e di ombra.

Proseguendo nella sua ascesa nell’ambiente artistico romano, Caravaggio riesce quindi a entrare nella bottega di uno dei più affermati pittori del tempo: Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino. Tra gli artisti preferiti da papa Clemente VIII Aldobrandini, pur essendo maggiore di Caravaggio di soli tre anni, Cesari domina la scena romana insieme a Federico Zuccari e Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio. Raggiunta già la fama con gli affreschi nei cantieri vaticani e nella chiesa di San Lorenzo in Damaso, nel periodo in cui Caravaggio entra nella sua bottega, il Cavalier d’Arpino aveva appena terminati gli affreschi sulla volta della cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi - il saldo è datato giugno 1593 - e andava affrescando la cappella Olgiati in Santa Prassede. La scelta di Merisi di presentarsi alla bottega che Cesari aveva alla “Torretta” in Campo Marzio appare oggi il frutto di una attenta ponderazione.

Scartato tanto il manierismo retorico di Zuccari - nel 1593 nominato principe della rinata Accademia di San Luca dal protettore del sodalizio, il cardinale Federico Borromeo -, quanto il classicismo compunto del Pomarancio, prediletto dagli Oratoriani di san Filippo Neri, l’attenzione di Caravaggio si appunta sul Cavalier d’Arpino, artista artificioso e manierato ma che è titolare di una ben avviata bottega gestita con piglio imprenditoriale. Caravaggio entra così a far parte dei collaboratori che hanno il compito di realizzare i progetti e i disegni elaborati dal Cavalier d’Arpino, il quale lo toglie «alle figure» e lo mette a «dipinger fiori e frutti», con grande rammarico di Merisi, come afferma Bellori.

Durante gli otto mesi della sua permanenza nella bottega del Cavalier d’Arpino, non sappiamo se Caravaggio abbia realizzato opere diverse dai quadri decorativi raffiguranti festoni o composizioni di fiori e frutta, molto richiesti in quegli anni in seguito al successo riscosso tra i collezionisti romani dalle opere di pittori olandesi e fiamminghi come Jan Brueghel, documentato a Roma nel 1593 e molto amato dal futuro possessore del celebre Canestro di frutta, il cardinale Federico Borromeo. La notizia tramandata dai biografi di un intervento di Caravaggio nell’esecuzione della Morte di san Giovanni del Cavalier d’Arpino, oggi nella sagrestia di San Giovanni in Laterano, è priva di fondamento, essendo stata realizzata l’opera tra il 1598 e il 1599.

Sembra sia anche frutto di fantasia l’aneddoto raccontato dal viaggiatore olandese van Mander riguardo un mostruoso nano inserito da Caravaggio per beffa negli affreschi realizzati dal Cavalier d’Arpino a San Lorenzo in Damaso, affreschi oggi distrutti e comunque dipinti tra il 1588 e il 1589. Cesari sembra non usasse eccessivi riguardi nei confronti dell’allievo, al quale avrebbe dato solo un misero pagliericcio come ricovero, e sebbene forse ingigantita dalla leggenda, non è improbabile che durante il periodo di discepolato presso la sua bottega sia nata una certa inimicizia e rivalità tra i due. Durante il processo promosso da Baglione nel 1603 Michelangelo avrà tuttavia parole di apprezzamento nei confronti di Cesari, definendolo un «valent’huomo».

La collaborazione ha comunque termine dopo il ricovero di Caravaggio nell’Ospedale della Consolazione per un misterioso incidente, forse il calcio di un cavallo che gli fa gonfiare una gamba. Uscito dall’ospedale Merisi non farà più ritorno alla bottega del Cavalier d’Arpino, mantenendo comunque i rapporti con Prospero Orsi, fratello del poeta Aurelio Orsi e noto col soprannome di Prosperin delle Grottesche, collaboratore e intimo amico di Cesari.

Trovata ospitalità nel palazzo di monsignor Fantin Petrignani in Campo Marzio, Caravaggio quindi «provò a stare da se stesso» - come scrive Baglione - dedicandosi nuovamente a dipingere quadri “per vendere”, tele da cavalletto che affida a un certo «Maestro Valentino a San Luigi de’ Francesi», uno dei numerosi mercanti d’arte presenti a Roma il cui nome non è stato però rintracciato in nessun documento del tempo. Tra le opere di Caravaggio forse affidate dal pittore al mercante Valentino, si è soliti annoverare il Ragazzo con canestro di frutta e il cosiddetto Bacchino malato, che rappresenta con ogni probabilità il primo degli autoritratti di Merisi. I magri guadagni, infatti, non gli permettono il lusso di far posare dei modelli per le sue composizioni e Caravaggio si affida quindi allo specchio, ritraendosi come un giovane Bacco coronato d’edera, con un grappolo d’uva in mano, mentre sorride malinconico allo spettatore. A conferma della notizia fornita da Baglione, gli studiosi affermano che il colorito terreo e le labbra livide del giovane ritratto potrebbero essere i sintomi della convalescenza del pittore da poco uscito dall’ospedale.

Incuriosito dal gran parlare che Prospero Orsi fa del suo amico Caravaggio - Bellori definisce Prospero addirittura suo «turcimanno» -, o forse capitato nella bottega del mercante Valentino nei pressi di palazzo Madama dove abita, il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte rimane favorevolmente impressionato dai quadri di Merisi e non si limita ad acquistarne alcuni ma gli offre ospitalità nella sua casa e lo iscrive a “rolo”, garantendogli cioè uno stipendio mensile.

L’incontro con il cardinale - personaggio di spicco della curia, fiduciario del granduca di Toscana ed esponente della fazione filofrancese - risulta decisivo per l’affermazione sulla scena artistica romana di Caravaggio, permettendogli finalmente di farsi conoscere dai facoltosi e raffinati collezionisti dell’epoca. Per Del Monte il pittore realizza alcuni tra i suoi capolavori e l’inventario della collezione, redatto nel 1626 dopo la morte del cardinale, comprenderà La buona ventura capitolina, I bari, il Suonatore di liuto oggi in collezione privata, il Concerto di giovani, la Santa Caterina d'Alessandria, il San Giovanni Battista capitolino, un San Francesco in estasi, e una «caraffa di fiori di mano del Caravaggio di palmi due», mai rintracciata.

A queste opere vanno aggiunte il dipinto murale che decora la volta di una stanza nel casino presso Porta Pinciana, oggi Boncompagni Ludovisi e le due opere conservate nella Galleria degli Uffizi: lo scudo da parata con la Medusa, donata dal cardinale al granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici, come forse anche il Bacco.

La permanenza fino al 1600 presso il colto cardinale Del Monte - raffinato appassionato di musica, scienza e arte - permette a Caravaggio di ampliare i suoi interessi e di applicarsi allo studio della rappresentazione dei corpi plasmati dalla luce e all’approfondimento delle regole della prospettiva. In questo può essergli stato di sicuro giovamento anche la frequentazione del fratello del cardinale, quel Guidubaldo Del Monte, esperto matematico, fisico e astronomo, amico di Galileo Galilei e autore di un trattato intitolato Perspectivae Libri Sex. Dall’analisi delle opere realizzate in questo periodo emerge lo sforzo di Caravaggio di mettere a punto un suo stile personale, dimostrandosi sempre più insofferente nei confronti delle convenzioni accademiche.

Il suo interesse per la rappresentazione della realtà viva lo spinge ad accogliere la lezione dei pittori nordici, introducendo nelle sue composizioni delle nature morte con vasi, fiori e frutta, raffigurati con la stessa precisione con cui ritrae le figure umane. Come ricorderà in seguito il marchese Vincenzo Giustiniani, suo appassionato collezionista, sembra l’artista affermasse infatti «che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure». Sebbene non sia infatti corretto affermare che il Canestro di frutta sia la prima natura morta della pittura italiana, è certo comunque che con Caravaggio questo genere relegato fino ad allora tra la pittura decorativa acquista la stessa dignità del ritratto o della pittura di storia.

Il nome di Caravaggio è ormai ben conosciuto nella cerchia degli intenditori d’arte e le commissioni si moltiplicano. Tra il 1594 e il 1599 Merisi realizza il Riposo nella fuga in Egitto e la Maddalena penitente, probabilmente commissionati dal cardinale Pietro Aldobrandini e da questi pervenuti alla collezione Doria Pamphilj. Il banchiere Costa commissiona la Giuditta che decapita Oloferne, il San Francesco in estasi e il quadro che raffigura Marta che rimprovera Maddalena per la sua vanità; mentre il nobile Ciriaco Mattei richiede a Caravaggio un San Giovanni Battista. Con queste opere l’artista, come dice Bellori, comincia «ad ingagliardire gli oscuri», sostituendo gradualmente i colori chiari e luminosi dei primi quadri con partiti di luce e di ombre sempre più violenti e drammatici.

Nel 1597 Caravaggio ha consolidato la sua fama al punto che il reverendo Ruggero Tritonio da Udine, nel testamento redatto in quell’anno, menziona il San Francesco avuto in dono da Ottavio Costa, defininendolo «celeberrimo pictore». La prima commissione pubblica importante arriva però nel luglio del 1599, grazie ai buoni uffici del cardinal Del Monte. Questi, forse facendo leva sui suoi stretti legami con la nazione francese, ottiene che il completamento della decorazione della cappella acquistata da Matteo Contarelli in San Luigi dei Francesi nel 1565 venga affidata a Caravaggio. Commissionate dapprima al manierista Girolamo Muziano e poi al Cavalier d’Arpino, le storie tratte dalla vita di san Matteo offrono al pittore il primo impegnativo banco di prova e le radiografie eseguite sulle tele rivelano il tormento con cui Merisi affronta il compito assegnatogli.

La prima idea per la composizione del Martirio di san Matteo sembra ricalcare infatti la tradizione, e ambienta l’evento davanti a una imponente architettura, tra una folla di personaggi vestiti all’antica. È chiara l’intenzione di Caravaggio di confrontarsi con la grande tradizione della pittura di storia allora ancora in voga, genere in cui eccellevano il Cavalier d’Arpino e lo stesso Muziano, ma la tentazione di uniformarsi ai desideri dei committenti è di breve durata. Abbandonata temporaneamente l’esecuzione del Martirio, Caravaggio affronta quindi la Vocazione di san Matteo, trovando nella semplicità del racconto evangelico lo spunto per una idea totalmente nuova.

La chiamata di Cristo si svolge infatti in uno spazio quasi totalmente immerso nella penombra, tanto che risulta difficile dire se l’azione si svolga all’esterno o all’interno di una stanza. Il fiotto di luce che piove dall’alto a destra illumina come un faro il gruppo di uomini riuniti a un tavolo attorno a Levi d’Alfeo, il gabelliere che prenderà poi il nome di Matteo, mentre dal buio emergono le figure di Cristo e di Pietro, che con i loro gesti chiamano Matteo a unirsi ai discepoli. Sulla grande tela affiora il ricordo del tonalismo veneto - specie nelle vesti degli uomini al tavolo -, ma il rigore della rappresentazione, la naturalezza del racconto e l’uso sapiente dei contrasti di luce e di ombre sono del tutto nuovi. Risolta in questo modo la Vocazione, Caravaggio riprende il Martirio stravolgendo l’idea iniziale e riducendo drasticamente il ruolo dell’architettura nell’economia della composizione. L’evento cruento si svolge ora di fronte a un altare, tra un groviglio di corpi in fuga, mentre il santo è riverso a terra, solo di fronte alla spada dello scherano che sta per vibrare il colpo di grazia. Sullo sfondo della scena Caravaggio si è ritratto tra la folla, mentre volge il suo sguardo mesto verso il primo piano, raffigurandosi come un testimone partecipe ma impotente della violenza. Per l’altare della cappella, Merisi realizzerà poi nel 1602 una prima versione del San Matteo e l’angelo, respinta dal clero della chiesa per una pretesa mancanza di decoro, sostituendola poi con un’altra tuttora in loco. È questo il primo dei rifiuti a cui andrà incontro il pittore nel corso della sua carriera, ma sulle reali motivazioni di questi rifiuti gli studiosi sono ancora divisi, imputandoli di volta in volta al mancato rispetto delle regole dettate dalla Controriforma, all’adesione a una visione laica e potenzialmente eretica della scienza e della natura, o all’adesione alle istanze pauperistiche di alcuni ambienti religiosi, visti con sospetto dalle autorità ecclesiastiche.

Il «romore» suscitato dall’apertura al pubblico della cappella Contarelli crea scompiglio anche nella comunità degli artisti e il Principe dell’Accademia di San Luca, Federico Zuccari, cerca di liquidare sbrigativamente il nuovo astro nascente definendolo un semplice epigono di Giorgione. D’altra parte lo stile di Caravaggio non potrebbe essere più lontano dall’idea di pittura di Zuccari, fondata sullo studio dei maestri del passato e sull’esercizio del disegno, espressione più alta e compiuta - a suo modo di vedere - dell’intelletto umano. Intanto i giovani pittori celebrano Caravaggio «come unico imitatore della natura», affascinati dal suo stile «tutto risentito di oscuri gagliardi» - come scrive Bellori -, e si danno ad imitare i suoi quadri e i suoi soggetti preferiti, ritraendo dal vero nello studio i modelli e «alzando i lumi», ovvero accentuando i contrasti di luce e di ombra.

A qualche mese di distanza dal completamento del ciclo in San Luigi dei Francesi, monsignor Tiberio Cerasi commissiona a Caravaggio due quadri su tavole di cipresso per la sua cappella in Santa Maria del Popolo, raffiguranti la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro. La prima versione consegnata dall’artista viene rifiutata - anche in questo caso forse per espresso volere del clero della chiesa - e sostituite da altre due tele consegnate da Merisi nel novembre del 1601.

Con il successo sembrano arrivare anche i primi seri guai con la giustizia. A partire dal 1601, infatti, il nome di Merisi compare spesso nei rapporti di polizia con l’accuse più diverse: risse, ferimenti, schiamazzi e porto abusivo d’armi. Fiero evidentemente della posizione raggiunta, sfoggia a passeggio la spada portata da un paggio e, come riporta il pittore olandese van Mander, «non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare».

Che il pittore avesse un carattere rissoso e violento è un fatto conclamato, va detto però che a quei tempi pochi erano quelli che nel corso dell’esistenza riuscivano a tenersi alla larga dalla giustizia, e anche tra gli artisti gli esempi non mancano. Il Cavalier d’Arpino viene prima imprigionato per debiti, poi condannato a morte e in seguito graziato; suo fratello, Bernardino Cesari, anche lui pittore e “socio” della bottega, esce nel 1593 dalla galera dove era stato rinchiuso a vita per ricatto; il poeta Murtola - che alla Buona ventura dedica un sonetto - ferisce a colpi di pistola il collega Giovan Battista Marino, anch’egli grande estimatore di Caravaggio.

Nel frattempo, pur criticate dai committenti o dal clero, le opere rifiutate trovano immediatamente degli acquirenti. È il caso della prima versione della Conversione di san Paolo per la cappella Cerasi, ritirata dal cardinal Sannesio; o del primo San Matteo e l’angelo per la cappella Contarelli, che il marchese Vincenzo Giustiniani acquista prontamente e colloca in bella vista nella ricca collezione che esibisce orgogliosamente nel suo palazzo, situato proprio di fronte a San Luigi dei Francesi.

Per lo stesso marchese, inoltre, Merisi realizza nel 1603 anche l'Amor vittorioso in gara con Giovanni Baglione. Questi è un mediocre pittore che tenta dapprima di aggiornare il suo stile imitando i modi di Caravaggio, per poi rientrare nell’orbita della pittura accademica facendosi paladino delle idee di Zuccari. Per ironia della sorte Baglione, acerrimo nemico di Caravaggio, è anche l’autore de Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti pubblicate verso il 1625, tuttora tra le fonti più importanti per ricostruire le vicende umane e artistiche del pittore. Giudicato inferiore al quadro di Caravaggio, l'Amor divino che sottomette l’amor profano dipinto da Baglione viene comunque ricompensato dal marchese con una ricca collana d’oro, che il pittore sfoggia con orgoglio.

Questa gara è probabilmente all’origine degli eventi che portano nel 1603 al processo per diffamazione intentato da Baglione nei confronti dei pittori Merisi, Orazio Gentileschi, Filippo Trisegni e dell’architetto Onorio Longhi. Il processo, di cui è rimasta una completa documentazione negli archivi, sempre più appare oggi come una sorta di resa di conti tra fazioni rivali. Nella querela Baglione accusa i quattro di aver scritto e diffuso un libello scurrile e ingiurioso ai suoi danni, ma quando Caravaggio - dopo due giorni di detenzione nelle carceri di Tor di Nona - compare di fronte al governatore di Roma afferma di non dilettarsi «de compor versi né volgari né latini», di non saper nulla dei sonetti incriminati anche se non «ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione». Nel corso della deposizione Caravaggio dichiara inoltre di stimare per «valent’huomini» il Cavalier d’Arpino, Annibale Carracci, Federico Zuccari e il Pomarancio. Interrogato dal governatore su cosa intenda per «valent’huomini», l’artista espone in maniera chiara e concisa la sua idea del mestiere dell’artista: «quella parola valent’huomo appresso di me vuol dire che sappi fare bene, cioè sappi fare bene dell’arte sua, cos“ in pittura valent’huomo che sappi depingere bene et imitar bene le cose naturali».

Tornato in libertà grazie all’interessamento dell’ambasciatore di Spagna, Caravaggio prende in affitto una casa a vicolo San Biagio in Campo Marzio e continua ad allargare la cerchia dei suoi committenti. Tra il 1600 e il 1603 aveva eseguito un Ritratto del cardinale Maffeo Barberini e probabilmente anche il Sacrificio di Isacco per la sua collezione; per Ciriaco Mattei aveva dipinto invece la Cattura di Cristo e per il marchese Giustiniani l'Incredulità di Tommaso. Nello studio di vicolo San Biagio - con le pareti dipinte di nero per creare una sorta di “camera oscura”, illuminata unicamente da una apertura sul soffitto -, Merisi porta a termine alcuni dei suoi più celebrati capolavori: la Sepoltura di Cristo per la cappella Vittrice in Santa Maria in Vallicella, consegnata nel settembre del 1604, e La Madonna dei pellegrini, installata sull’altare della cappella Cavalletti nella chiesa di Sant’Agostino nel 1605. Quest’ultima opera suscita grande «schiamazzo» e scandalo, per la mancanza di decoro con cui sono raffigurati i «due pellegrini uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita, e sudicia», inginocchiati davanti a una Madonna di Loreto «ritratta dal naturale». Sembra infatti che Caravaggio abbia preso a modella per la Vergine del quadro Lena, una bella cortigiana da lui amata e per la quale ferisce un notaio suo amante e rischia la prigione.

Dopo un breve soggiorno a Genova, dove era fuggito per scampare al carcere, Caravaggio esegue tra la fine del 1605 e l’inizio del 1606 la Madonna dei Palafrenieri, una grande pala - detta anche la “Madonna del serpe” - comissionata dalla potente confraternita dei Palafrenieri, che rimane però sull’altare a cui era destinata in San Pietro per soli due giorni e viene rimossa perché poco rispettosa dell’iconografia tradizionale dell’Immacolata Concezione. Il quadro, dopo essere stato temporaneamente sistemato nella chiesa di Santa Maria dei Palafrenieri, viene poi acquistato per una cifra irrisoria dal cardinale Scipione Borghese, protettore della confraternita e spregiudicato collezionista.

Apparentemente sempre più inviso alle gerarchie ecclesiastiche ma ancora supportato da un nutrito gruppo di estimatori altolocati, Caravaggio si vede rifiutare anche la monumentale pala che raffigura la Morte della Madonna, commissionata da Laerzio Cherubini per adornare l’altare della cappella di famiglia nella chiesa di Santa Maria della Scala. Ignorando le direttive impartitegli nel contratto di commissione dell’opera, firmato da Caravaggio nel 1601 quando ancora risiedeva nel palazzo di Ciriaco Mattei, l’artista raffigura infatti sulla tela solo l’episodio della morte della Vergine, senza illustrare anche la sua ascensione al cielo con l’anima e il corpo, particolare fondamentale per evitare qualsiasi sospetto di collusione con l’eresia luterana. Inoltre, anche in questo caso il pubblico rimane colpito sfavorevolmente dalla mancanza di decoro con cui viene raffigurata la Madonna, «gonfia, e con gambe scoperte» come fosse una morta affogata - nota Baglione -, per la quale l’artista avrebbe preso forse a modella una cortigiana da lui amata. La tela, venduta nel 1607 da Cherubini al duca Vincenzo I Gonzaga grazie alla mediazione di Rubens, prima di essere spedita a Mantova viene esposta per una settimana al pubblico su richiesta dei pittori, suscitando lodi ed entusiamo generali. Nel frattempo però gli eventi erano precipitati e Caravaggio non poteva più godere di questa rivincita nei confronti dei suoi detrattori.

Il 29 maggio 1606, durante una lite sorta in seguito a una partita di pallacorda - l’antenato dell’odierno tennis - Merisi uccide Ranuccio Tomassoni, un compagno di bravate conosciuto da tempo, e nella mischia rimane lui stesso ferito alla testa. Per sfuggire al mandato di cattura Caravaggio si dà alla fuga, trovando riparo nei feudi laziali dei Colonna tra Paliano, Zagarolo e Palestrina. Per tutta l’estate rimane nascosto nella speranza che i suoi protettori, Filippo Colonna e il cardinale Ascanio, riescano a ottenere la grazia che gli consentirebbe di tornare a Roma.

Nel frattempo continua a dipingere, realizzando una Maddalena e, secondo alcuni, anche la Cena in Emmaus ora a Brera. L’esperienza dell’omicidio - il secondo se si vuole prestar fede ai biografi - lascia una traccia indelebile sull’arte di Caravaggio, che da questo momento nelle sue opere tornerà in maniera sempre più ossessiva e angosciosa sul tema della morte violenta dipingendo martirii di santi e teste mozze.

DA NAPOLI A PORTO ERCOLE 1606 - 1610

Alla fine dell’estate, perdute le speranze di risolvere in tempi brevi la sua situazione, Merisi lascia il suo nascondiglio e parte alla volta di Napoli, dove la fama della sua pittura era già arrivata da tempo. A Napoli l’artista è documentato già nell’ottobre 1606, quando riceve il pagamento per una pala d’altare, commissionata dal mercante Niccolò Radolovich e un tempo identificata nella Madonna del Rosario, oggi a Vienna. In realtà il quadro viene forse commissionato dai Carafa, imparentati con i Colonna, e destinata all’altare della cappella che la famiglia possiede nella chiesa di San Domenico Maggiore.

Il primo soggiorno partenopeo di Caravaggio è di pochi mesi, nemmeno un anno, eppure le opere che lascia in città sono destinate a influire profondamente sugli sviluppi della scuola barocca napoletana. Tele come le Sette opere di misericordia, la grandiosa e concitata pala commissionata dal Pio Monte della Misericordia per l’altar maggiore della chiesa dell’istituto, o la Flagellazione, che Merisi esegue per la cappella di Tommaso de Franchis in San Domenico Maggiore, divengono i testi presi a modello dagli esponenti locali della pittura naturalista: dal Battistello a Massimo Stanzione, a Carlo Sellitto, rappresentanti di una stagione tra le più felici della pittura napoletana.

Nemmeno a Napoli sembra che Caravaggio riesca a trovar pace. Narra Bellori che a spingere Merisi a imbarcarsi per Malta sia stato il desiderio «di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù», ed è probabile che l’artista sperasse di potersi mettere al sicuro dal “bando capitale” emesso dal tribunale pontificio entrando a far parte del Sacro Ordine Gerosolimitano.

A condurlo sull’isola potrebbe essere stato un altro esponente della famiglia che lo protegge, quel Fabrizio Sforza Colonna - figlio della marchesa di Caravaggio e generale della flotta maltese - che proprio nell’estate del 1607 fa scalo a Napoli proveniente da Marsiglia. Sull’isola Merisi si guadagna presto il favore del Gran Maestro dell’Ordine, Alof de Wignacourt, che gli commissiona dei ritratti e alcuni straordinari capolavori: il San Girolamo scrivente e soprattutto la terribile Decollazione del Battista per la co cattedrale di San Giovanni, opera firmata dall’artista con il sangue che sprizza dal collo del santo. Come ricompensa il 14 luglio 1608 Wignacourt nomina Caravaggio cavaliere “di Grazia”, unica carica a cui potevano aspirare i non nobili. Evidentemente la notizia del suo delitto non è ancora giunta fino a Malta, ma qualche mese più tardi Michelangelo viene rinchiuso nella fortezza di Sant’Angelo con l’accusa di essere venuto a contesa con un cavaliere di nobili natali, forse un magistrato venuto a sapere del mandato di cattura che insegue il pittore.

Dopo una romanzesca evasione dal carcere, a Caravaggio non rimane quindi che prendere il largo, grazie all’aiuto forse ancora di Fabrizio Sforza Colonna, e cercare scampo in Sicilia. Intanto, in una seduta dei cavalieri convocata da Wignacourt, Merisi viene espulso dal Sacro Ordine e con la bolla del primo dicembre 1608 dichiarato «membrum putridum et foetidum».

Sbarcato a Siracusa, Caravaggio vi ritrova il pittore Mario Minniti, conosciuto a Roma ai tempi dei suoi primi difficili inizi, e poi ancora a Malta, dove Michelangelo aveva deposto in favore dell’amico in un processo intentatogli per bigamia. Minniti lo presenta al senato di Siracusa, procurandogli la commissione della pala raffigurante la Sepoltura di santa Lucia per l’altar maggiore della chiesa di Santa Lucia al Sepolcro.

Da Siracusa, l’artista risale verso Messina, dove il ricco commerciante genovese Giovan Battista de Lazzaris gli affida l’esecuzione della Resurrezione di Lazzaro da sistemare nella chiesa dei Padri Crociferi. Quando la pala viene consegnata il 10 giugno 1609, nel documento Caravaggio viene indicato come «cavaliere gerosolimitano», segno che la notizia della sua espulsione dall’ordine non è ancora giunta sull’isola. Entrambe le opere eseguite a Siracusa e a Messina, sebbene molto rovinate, mostrano uno stile sempre più scarno e drammatico, in cui Caravaggio rinuncia consapevolmente a ogni sfoggio di virtuosismo.

Accanto a queste angosciate meditazioni sul tema della morte, Merisi realizza anche l'Adorazione dei pastori per la chiesa dei Cappuccini di Messina e la Natività coi santi Francesco e Lorenzo - trafugata nel 1969 e mai più ritrovata - per l’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo a Palermo, dove Caravaggio si era nel frattempo trasferito. Non sappiamo quando l’artista decide di lasciare l’isola per fare ritorno a Napoli. Di sicuro dopo l’agosto del 1609, data in cui consegna la Natività palermitana.

È un Caravaggio sempre più angosciato quello che fa ritorno nella città partenopea. Già durante il soggiorno in Sicilia, stando a quanto afferma il biografo settecentesco Susinno, Merisi si comporta in modo strano, girando perennemente armato e dormendo vestito, come uno «scimunito e pazzo che non può dirsi di più». Forse è ossessionato dal costante pericolo di essere raggiunto e ucciso dagli emissari dei cavalieri di Malta, di certo si sente braccato. In effetti sembra che i suoi inseguitori lo abbiano raggiunto proprio a Napoli, dove nell’ottobre del 1609 viene assalito e sfregiato sulla soglia della locanda del Cerriglio dove ha preso alloggio.

Nonostante tutto, Caravaggio trova comunque modo di realizzare i suoi ultimi capolavori: una Salomè con la testa del Battista, destinata a essere inviata quale dono riparatorio ad Alof de Wignacourt; il tremendo David con la testa di Golia in cui l’artista ha dato i suoi tratti al volto del gigante, quadro forse inviato da Merisi al cardinale Scipione Borghese che deve decidere sull’esito della sua domanda di grazia; un piccolo San Giovanni Battista, entrato a far parte anch’esso in seguito della collezione Borghese, e il Martirio di sant’Orsola, l’ultimo, lancinante, quadro dipinto da Caravaggio prima di imbarcarsi alla volta di Porto Ercole.

L’ultima tappa della tormentata vita di Caravaggio è ancora per molti aspetti avvolta dal mistero.

Per chiarire le notizie contraddittorie che già al tempo circolavano a Roma, il 24 luglio 1610 il nunzio Deodato Gentile scrive al cardinale Scipione Borghese un dettagliato rapporto sugli ultimi giorni di vita del pittore, rendendo noto che «il povero Caravaggio non è morto in Procida, ma a Port’hercole, perché essendo capitato con la felluca, in quale andava a Palo, ivi da quel Capitano fu carcerato, e la felluca in quel romore tirandosi in alto mare se ne ritornò a Napoli.

Il Caravaggio restato prigione, si liberò con uno sborso grosso di denari, e per terra, e forsi a piedi si ridusse sino a Port’hercole, ove ammalatosi ha lasciato la vita». Fermata dunque a Palo la feluca su cui si era imbarcato, Michelangelo sarebbe stato arrestato dai gendarmi della guarnigione spagnola, forse scambiato per un altro ricercato. Quando riesce a liberarsi, la nave è ormai ripartita con tutti suoi bagagli e le tele che ancora doveva ultimare. Solo, disperato e senza un soldo, costretto forse a procedere a piedi, giunge a Porto Ercole dove si ammala di malaria e il 18 luglio del 1610 «senza aiuto humano», come narra Baglione, muore «malamente, come appunto malamente avea vivuto». A Roma, intanto, dopo anni di perorazioni da parte dei suoi potenti amici, la revoca del bando capitale era stata finalmente firmata, ma era troppo tardi.

Si conclude così, amaramente, l’intensa parabola di Michelangelo Merisi da Caravaggio, pittore il cui genio è riconosciuto dagli stessi contemporanei, al punto che lo stesso Baglione non può fare a meno di scrivere: se «non fusse morto sì presto, haveria fatto gran profitto nell’arte per la buona maniera, che presa havea nel colorire del naturale».