Carlo Magno

L’UOMO

INTRODUZIONE AI FRANCHI

IL NATALE DI HERISTAL

LA DIVISIONE DEL REGNO DI PIPINO

IL SERVIZIO MILITARE

LA GUERRA CONTRO I LONGOBARDI E L’INCORONAZIONE DEL 774

LA CHANSON DE ROLAND

INTRODUZIONE

LA BATTAGLIA E IL DUELLO

L’EROE

ORLANDO

ENEA

LE GUERRE PRIMA DELL’INCORONAZIONE AD IMPERATORE

L’INCORONAZIONE AD IMPERATORE

L’IDEA DEL REGNO

IL VASSALLAGGIO E LE ASSEMBLEE

GLI ULTIMI ANNI DI VITA DI CARLO

ARTE CAROLINGIA

MONETA

CUCINA

POLENTA

RISPETTO PER LE VARIE NAZIONALITA’

LE ABITAZIONI

I COMFORT & L’ARREDAMENTO

L’ABBIGLIAMENTO

I MINISTRI CAROLINGI

LE LEGGI


L’UOMO

La fonte principale che ci permette di fornire una descrizione fisica e caratteriale dell’Imperatore ci proviene dal biografo Eginardo1.

L’apertura del sarcofago di Carlo avvenuta nel 1861 ci ha mostrato la precisione della descrizione redatta dal biografo prima citato (Eginardo): la ricostruzione dello scheletro diede la vistosa altezza di 192 centimetri, confermando che le espressioni spesso usate per descriverlo (“su tutti si innalza il re con spalle potenti”) non sono solo delle “amplificazioni poetiche” del tutto infondate.

Eginardo indica fondamentalmente due difetti di Carlo: il collo grosso e corto ed il ventre prominente.

Sappiamo anche che aveva una “rotonda zucca” ed un aspetto bonario e gioviale; del suo carattere però, Eginardo è costretto a darci una descrizione assolutamente convenzionale.

Difatti fin dall’epoca dei Cesari, gli Imperatori erano identificati da delle virtù senza le quali non “potevano” essere Imperatori: Temperantia, patientia et costantia animi.

Odiava l’ubriachezza e aveva bandito dalle tavole gli alcolici, a parte nel corso di feste solenni o particolari occasioni: era però “cordialmente avverso” al digiuno, tanto che nella vecchiaia sostenne una dura lotta contro i medici che volevano fargli mangiare il bollito al posto dell’arrosto e altre prelibatezze.

Il suo rapporto con la corte era fin troppo confidenziale per un Imperatore, ma lui aveva bisogno di uomini che gli stessero sempre vicino, delle sue figlie, degli amici; non disprezzava nemmeno l’umile gente del seguito.

Adorava il frastuono delle cacce e dei lavori di costruzione di Acquisgrana, adorava essere sempre al centro dell’attenzione e difatti il regno girava tutto intorno a lui. Gli piaceva anche essere adulato per le sue doti spirituali, difatti non era difficile convincerlo che le sue doti spirituali fossero più grandi del corso del Nilo…

Sebbene queste esagerazioni Carlo era un uomo di grande spirito e stimolato da Alcuino2 egli divenne il primo filosofo del suo regno. Alcuino contribuì a fare diventare Carlo un uomo molto consapevole della sua autorità e dei suoi mezzi, tanto che si interessò di questioni lontane dalle sue competenze, ad esempio scrivendo i Libri Carolini, ma sempre apparendo adeguato e apprezzato, tanto che il suo libro si diffuse come “Opera di Carlo, l’illuminatissimo, eccellentissimo, stupefacentissimo”.

Altre “arti” che affascinavano Carlo erano l’astronomia e l’oniromanzia alle quali, particolarmente alla prima, dedicava molto tempo.

Si tramanda che quando lui stava guerreggiando nel paese dei Sassoni inviò un messo ad Alcuino per sapere se l’accelerazione dell’orbita di Marte era un presagio negativo o fosse stato un segno di una imminente vittoria.

Sebbene l’animo “filosofico” dell’Imperatore nessuno può negare la “durezza” di Carlo, che, si legge in POETAE LATINI MEDII AEVI, “rendeva mansueti i cattivi”.

Questo aspetto dell’animo di Carlo, spesso criticato, gli ha però consentito di mantenere in piedi un Impero che nelle mani di altri meno “duri” sarebbe in futuro decaduto.

Questo aspetto caratteriale di Carlo era in contrasto con gli “ideali” di un Principe: nel corso della sua vita Carlo era stato anche incolpato di ingiustizia e crudeltà.

Queste erano accuse gravissime per un Principe, su cui Eginardo non potè sorvolare; ma sebbene queste accuse egli si comportò quasi sempre in modo corretto.

Con l’incoronazione ad Imperatore l’immagine di Carlo divenne leggendaria rendendo questi “particolari” del tutto insignificanti.

INTRODUZIONE AI FRANCHI

I Franchi erano delle popolazioni germaniche che si sono stanziate nel corso del III secolo, lungo il corso del Basso Reno. Nel IV secolo i Franchi erano principalmente divisi in due gruppi: i franchi salii e quelli ripari. Autori di numerose incursioni nei territori romani, vennero assoggettati da un imperatore e convinti ad allearsi con l’impero e a diventarne loro difensori. Agli inizi del V secolo i salii ripresero le campagne di conquista, comandati dal loro re Clodoveo, fondatore della dinastia Merovingia. Nel 486 Clodoveo sconfisse l’ultimo imperatore romano in Gallia, imponendosi su Alemanni, Visigoti, Burgundi e Franchi ripari. Fu a quel punto che Clodoveo, essendosi convertito al Cristianesimo, instaurò il legame. Alla morte di Clodoveo l’impero venne diviso tra i suoi figli, subendo continue divisioni e riunificazioni sotto il dominio di svariati sovrani. Alla morte di Clotario, il potere della parte orientale dell’Impero passò nelle mani della famiglia dei Carolingi che un secolo dopo riunificò il regno. Le vicende della famiglia Carolingia cominciarono con Pipino di Heristal, maggiordomo del re Merovingio. Nel regno franco la figura del maggiordomo racchiudeva tutti i poteri nelle proprie mani tanto da riuscire qualche anno più tardi a far scomparire totalmente la figura del re, assumendone completamente tutte le funzioni. I Pipini furono una famiglia di grandi proprietari terrieri, che riuscì, in una situazione ai limiti dell’anarchia, ad esprimere un maggiordomo unico per le varie regioni della Francia che si contendevano il potere. Alla morte di Pipino di Heristal, nel 714, seppur con qualche opposizione, gli succedette Carlo detto “Martello”. Carlo Martello apportò dei significativi cambiamenti alla forma di governo di quei tempi. Lo spunto per sottomettere i territori della Francia meridionale venne proprio a lui, dalla richiesta da parte dell’aristocrazia locale di un intervento contro il pericolo musulmano: le forze arabe si erano infatti spinte all’interno del territorio iberico e minacciavano la Francia dai Pirenei. Carlo intervenne prontamente con la celebre battaglia di Poitiers (732). Carlo Martello seppe mantenere ottimi rapporti con il papato: se da una parte, infatti, i Franchi avevano confiscato numerosi territori ecclesiastici per ridistribuirli fra le truppe e garantirne la fedeltà, dall’altra aveva protetto la Chiesa contro i musulmani e si accingeva a divenire un alleato anche ei contrasti con gli occupanti longobardi.

Quando egli morì, il 21 ottobre del 741, uno dei suoi figli, Pipino il Breve, gli succedette.

Quest’ultimo divenne maestro di palazzo sotto il regno di Childerico III. Pipino strinse un’alleanza con il papa affinché quest’ultimo riconoscesse la successione dei suoi figli, in cambio il papa Stefano II avrebbe ottenuto protezione dalle aggressioni dei sovrani stranieri. Pipino il Breve compì quella che venne chiamata “Donazione di Pipino”: offrì un lembo di territorio alla Chiesa che costituirà le fondamenta per la nascita dello Stato Pontificio. A questo punto tutto era pronto per l’ascesa di Carlo Magno.

IL NATALE DI HERISTAL

La famiglia di Carlo aveva le sue radici a Heristal, un borgo vallone sulla Mosa a poche miglia da Liegi.

Qui sorgeva un Castello appartenuto agli avi da tempi antichi, che, come tutti i castelli medioevali, consisteva in una grossa torre nuda e rozza: un rettangolo di pietre “murate”.

In questo luogo, dove ora non vi è più traccia del castello e nulla che ricordi Carlo Magno, lui trascorse tutta la sua infanzia fino all’età di 17 anni, quando prese parte alla sua prima campagna militare, dimostrandosi subito guerriero intrepido e valoroso.

Da questo momento Carlo cominciò a capire il sottile legame che c’è fra la vita e la morte, che un colpo di lama poteva troncare di netto un’esistenza...

Viveva l’attesa del regno del padre in modo sereno, una cosa naturale che prima o poi gli sarebbe toccato affrontare; ma un imprevisto gli mise in mano il destino di un Regno a soli 26 anni, quando suo padre morì.

Suo padre si chiamava Pipino detto “Il Breve”, il quale lo aveva accompagnato lungo tutta la sua “formazione”: era il 768 ed era appena tornato da una spedizione vittoriosa.

Dopo 10 anni erano riusciti a piegare la resistenza degli Aquitani, ma la festa per il trionfo organizzata a Saintes ebbe un tragico epilogo.

Pipino venne colpito da un attacco di febbre idropica3: era giugno.

Nonostante le cure dei frati dell’abbazia di Santa Maria e Pipino avesse ancora 54 anni, un’età in cui si possono vincere le malattie, egli morì il 24 settembre.

Le sue spoglie furono tumulate nel Cimitero dell’abbazia, e mentre al tempo venivano celebrate le sue imprese, sperando che i figli sarebbero riusciti a non farlo rimpiangere, oggi sulla sua tomba si legge questo breve epitaffio:

PIPINUS REX PATER CAROLI MAGNI”

Come se il suo solo merito fosse stato di essere il Padre di Carlo Magno.

Carlo, al tempo si chiamava ancora col suo nome naturale, venne incoronato Re nella cattedrale di Noyon due settimane dopo la morte del padre. Lo stesso accadde al fratello Carlomanno al quale venne destinata una egual parte del regno di Pipino.

Carlo aveva allora 26 anni e doveva riuscire a gestire un Regno che era un’aggregazione di diverse popolazioni, culture ed idee, tra i luoghi che per secoli aveva dominato Roma e quelli che avevano conservato in modo marcato le origini nordiche: i Germani ed i Franchi.

LA DIVISIONE DEL REGNO DI PIPINO

Approfondimento sulla divisione operata da Pipino, tramite l’utilizzo di una cartina geografica.

Carlo cominciò a regnare in un quadro delle cose e degli uomini molto diverso dai tempi della visita del Papa Stefano II, colui che aveva valicato il San Bernardo per allearsi con i Franchi, e di Astolfo, al tempo re dei Longobardi.

Ora vi erano Stefano III, un prete siciliano, e Desiderio, un duca bresciano eletto re dei Longobardi, con i quali bisognava continuare la linea politica iniziata da Pipino.

A Quierzy Pipino aveva, tramite la promissio carisiaca, promesso al Papa tutte le terre sotto una linea di demarcazione individuata all’incirca fra le foci della Magra sul Tirreno e le foci del Po, impegnandosi a sottrarle al dominio Longobardo.

Le prime decisioni sulla politica del regno furono dunque orientate a grande cautela, nell’intento di ammorbidire ogni contrasto con iniziative di pace.

E questa linea di condotta ebbe inizio con le prime deliberazioni al castello di Heristal, durante il Natale del 768, pochi mesi dopo la morte di Pipino.

Vennero nel corso di quell’incontro prese tre decisioni:

1- Concedere un margine di autonomia a Tassilone (re della Baviera) in cambio della riconciliazione fra i Franchi e i Bavari e del suo sostegno alla monarchia. Questa decisione aiutava anche le buone relazioni fra i regni dei due fratelli, essendo la Baviera sotto il controllo di Carlomanno.

2- Sedare definitivamente le rivolte in Aquitania, che erano riprese dopo i continui tentativi di repressione attuati da Pipino. Difatti Pipino considerava l’Aquitania un punto importante per il regno, tanto più ora che era divisa fra i due regni. Per portare a termine con successo l’operazione serviva l’appoggio del fratello che si sarebbe mostrato titubante...

3- Cercare di riappacificarsi con i Longobardi, facendo sposare a Carlo Ermengarda, la figlia Desiderio. Per fare ciò avrebbe dovuto divorziare da Imiltrude, una donna della nobiltà che aveva sposato due anni prima e dalla quale aveva avuto un figlio (Pipino il Gobbo), e riuscire ad essere molto diplomatico con il Papa. Stefano III si sarebbe potuto sentire tradito e non accettare più l’alleanza dei Franchi: per evitare ciò bisognava muoversi in modo assai cauto.

Delle tre decisioni prese a Heristal la prima, quella riguardante Tassilone e la Baviera, fu la più rapida ad essere eseguita. Fu confermato a Tassilone il rango di duca, con larghe autonomie per il governo del suo popolo in cambio del giuramento di fedeltà che egli rinnovava alla monarchia franca.

Per il momento quindi egli veniva considerato più come un alleato fedele che come un suddito...

Per il punto riguardante i patti da stringere con i Longobardi la situazione era più complessa e da esaminare con maggiore attenzione.

Lo scopo era togliere vigore alla tracotanza4 longobarda per mezzo di un legame dinastico, che avrebbe impedito azioni offensive contro i Franchi e lo Stato Pontificio. Questo accordo venne condotto abilmente dall’astuta Berta, madre di Carlo, la quale fece un viaggio a Pavia, alla reggia longobarda, per trattare segretamente i termini dell’accordo.

Desiderio sembrava convinto dei vantaggi dell’accordo, coltivando ancora il sogno di un’Italia interamente longobarda, mentre il Papa, cosciente della pericolosità della questione, era sgomento.

Stefano III scrisse al Re una lettera terribile, conosciuta come “quarantacinquesima epistola del Codice Carolino”:

"E’ giunta a nostra notizia, e con grande dolore lo diciamo, che Desiderio Re dei Longobardi cerca di persuadervi a maritare la propria figlia [...].

Come può l’illustre schiatta dei franchi, la quale risplende su tutte le genti, e il nobilissimo sangue della vostra regia potenza andarsi ad imbrattare con la perfida e pestilenziale gente Longobarda?

Quale società può avere mai la luce con le tenebre, e quale parte il fedele con l’infedele?"

Infine nell’epistola si ricordano a Carlo le promesse fatte da suo padre di “essere amico degli amici nostri e nemico dei nostri nemici”, e dicendo che i Longobardi appartengono a questa seconda schiera. E dopo queste argomentazioni la lettera conclude con una terribile minaccia: SCOMUNICA.

Quando la lettera arrivò nelle mani di Carlo il trattato era ormai stipulato ed Ermengarda stava per arrivare a Magonza, luogo prescelto per la celebrazione nuziale.

Oramai non si poteva più fermare la macchina messa in moto dalla madre di Carlo: lui aveva già ripudiato la moglie Imiltrude e i patti erano stati firmati.

Nemmeno la lettera del Papa viene a turbare l’animo di Carlo prima delle nozze, ma il problema era molto scottante ed andava affrontato: la riflessione non dovette essere breve, poiché erano in gioco soluzione decisive per il futuro del regno.

Alla fine l’autorità emergente del Papa riuscì a prevalere sul potere decadente dei Longobardi; la politica di Berta e dei suoi consiglieri era di corte mire, ma Carlo aveva ben altri progetti.

Decise, in contrasto con la madre e cosciente di scatenare un conflitto contro i Longobardi, di ripudiare la moglie Ermengarda.

Intanto Carlo inviava dei messi a Roma per rassicurare il Papa e per riacquistarne i favori e decise di occuparsi con maggiore interesse alla situazione in Aquitania, dalla quale dipendevano i rapporti con il fratello.

La madre tentò di fare incontrare i fratelli per un ultimo tentativo di intesa, nel piccolo borgo di Seltz, sulle rive del Reno. Carlo chiese ancora con insistenza degli aiuti militari per riuscire a sedare le sommosse, e il fratello acconsentì molto tiepidamente all’aiuto.

Nella spedizione che Carlo condusse l’estate del 771 Carlomanno non venne all’appuntamento...

e così al cadere dell’autunno si giunse ad una rottura orchestrata dai consiglieri del giovane e fragile Carlomanno.

Ovviamente fu però Carlo, più deciso e sicuro di sé, a dichiararla, troncando di netto ogni equivoco.

Carlo decise anche di invadere i territori del fratello, spingendosi verso la Borgogna, varcando la frontiera dell’Oise; Carlomanno nel frattempo venne preso da febbri polmonari all’interno del suo campo trincerato, dove poco dopo morì, come suo padre pochi anni prima.

Riuniti d’urgenza tutti i grandi dello stato franco nell’abbazia di San Dionigi, si procedette all’unificazione delle due corone sul capo di Carlo, sullo stesso trono dove era stato incoronato Pipino.

IL SERVIZIO MILITARE

Durante l’impero di Carlo Magno il servizio militare è obbligatorio per tutti; in pratica però solo i proprietari terrieri vengono chiamati alle armi. Il soldato deve giungere nel luogo di raccolta armato ed equipaggiato. Chi è ricco può acquistare una corazza e un cavallo ed essere arruolato nelle armi nobili: la fanteria pesante o la cavalleria. Ai più poveri, invece, non resta che la fanteria leggera, un reparto che aveva il pericoloso compito di appoggiare le manovre dei cavalieri. Solo in occasione delle grandi campagne militari la mobilitazione è generale. Per limitare i danni all’economia, vengono chiamati alle armi quei cittadini che abitano in zone vicine a quelle delle operazioni. Prima della partenza per il fronte, gli ufficiali, controllando l’armamento di tutti i soldati, non mancano di ricordare che è a norma di legge requisire acqua, legna e foraggio, ma è rigorosamente vietato, in territorio neutrale, il saccheggio; al contrario è permesso e consigliato nelle terre nemiche. Molti cercano di evitare il servizio militare, nonostante la prospettiva di un ricco bottino di guerra. Carlo si vede cosi costretto ad emanare delle leggi precise.

Sfuggire alla leva diventa difficoltoso, ma non ancora impossibile. Alcuni, infatti, vendono la terra e si danno ai commerci, altri simulando una vocazione religiosa, si ritirano nelle abbazie per approfittare della legge canonica che vieta al clero di impugnare le armi. Ma l’imperatore non può tollerare queste manovre e interviene con un provvedimento molto severo; se una persona chiamata non si presenta al proprio reparto è immediatamente multata di 160 soldi da pagare immediatamente. Si trattava per quei tempi di una multa rilevante, capace di rovinare anche una persona ricchissima, e di scoraggiare le fasulle vocazioni di alcuni abati.

Un’idea di come funzionasse il reclutamento degli uomini e di come fosse organizzato il servizio militare, ci viene offerta dal Capitulare missorum de exercitu promovendo, dell’808, anch’esso tratto dalla collezione dei “capitolari”, qualcosa che ha insieme della legge e del regolamento. I mansi5 di cui si parla sono terreni di circa 12 iugeri6.

"Ogni uomo libero che possegga quattro mansi occupati da coloni, sia come bene personale, sia come dono di un signore, provveda ad equipaggiarsi e si rechi all’esercito, sia col proprio signore, se questo vi si reca, sia con il suo conte. Chiunque possiede in proprio tre mansi si aggregherà a chi ne abbia uno solo e gli presterà aiuto, in modo da garantire il servizio militare per entrambi. Chi ne possegga in proprio due, di mansi, sarà associato a un altro che ne abbia anche lui due ed entrambi si presenteranno alle armi. Chi abbia di suo un solo manso, si aggregherà a tre possessori come lui d’un manso, i quali gli presteranno aiuto. Egli partirà, mentre i tre che gli avranno dato assistenza rimarranno a casa."

LA GUERRA CONTRO I LONGOBARDI E L’INCORONAZIONE DEL 774

In questo periodo la storia di Carlo prosegue utilizzando come scenario, per una delle più celebri guerre, l’Italia. Intorno alla fine d’agosto del 773 Carlo decise di oltrepassare le alpi dal Moncenisio per poi fermarsi presso Novalesa con l’intento di riordinare le truppe.

La Novalesa, all’imbocco della valle di Susa, era una frontiera tra il regno franco e quello longobardo; questo luogo era rinomato per l’accurata conoscenza dei Longobardi, delle loro mosse e delle loro astuzie. Durante l’attesa, il vecchio abate del monastero era vicino a Carlo Magno: egli era un nobile franco di nome Fredoino. Questo informò il re che da più di una anno i Longobardi avevano fortificato ogni palmo della struttura conosciuta come Clausura Italiae (le chiuse d’Italia). Il problema per Carlo era chiaramente quello di scavalcare le barriere di Susa. Il solo spazio dove non vi erano fortificazioni era sulla destra della Dora, territorio però considerato impraticabile. Questi territori erano descritti in modo poco preciso e sommario ma, a poco a poco, dopo esplorazioni e controlli trovarono una via d’accesso. Desiderio attendeva l’attacco Franco dove il corso della Dora penetra nella valle di Susa piegando verso oriente. Carlo, al contrario, si buttò dritto a sud. Quando i Longobardi si accorsero della manovra dei franchi era troppo tardi e vennero sbaragliati nella Battaglia delle Chiuse. Dopo una serie di battaglie portate a termine con successo, Carlo arrivò con le sue truppe sotto le mura di Pavia, ultimo baluardo della difesa longobarda: era l’inizio di un lungo assedio. Nel frattempo era stata portata a termine la breve occupazione della città di Verona, luogo nel quale si era rifugiato il figlio di Desiderio Adelchi con l’altra parte delle truppe longobarde. L’assedio alla città di Pavia si concluse la cattura di Desiderio. La vittoria sui Longobardi sembrava oramai evidente ma Adelchi, due anni dopo, con l’aiuto di Bisanzio, tentò una rivincita ed fu nuovamente sconfitto.

Durante la Pasqua del 774 il sovrano franco entrò in Roma accolto solennemente dal papa Adriano I; ripeté le promesse di Pipino, ma l’antica alleanza venne rinnovata nella forma più rigorosa di un impegno di protezione del papato. A Pavia Carlo fu incoronato re dei Longobardi, con questo avvenimento, il papato era convinto che ogni pericolo si fosse allontanato definitivamente ma il giovane sovrano vegliava costantemente sui suoi possedimenti.

Nel 778 Carlo organizzò una spedizione contro gli Arabi, in Spagna, che minacciavano li mondo cristiano. Questa spedizione si può considerare una delle più fallimentari imprese di Carlo: l’assedio di Saragozza fallì e durante la ritirata orde di Baschi massacrano, nella gola di Roncisvalle, la retroguardia franca comandata da Rolando. La guerra però continuò fino alla formazione della Marca Spagnola nel territorio compreso tra l’Ebro e i Pirenei.

LA CHANSON DE ROLAND

INTRODUZIONE

La “Chanson de Roland” è un poema epico progenitore del genere letterario “Chanson de Geste”, una raccolta di circa ottanta componimenti epici francesi, perlopiù anonimi, composti fra l'XI e il XV secolo. Le loro origini, tuttora incerte, vengono fatte risalire a canti epici successivamente influenzati dal folclore germanico, o alla rielaborazione dei racconti che i monaci facevano ai pellegrini in visita alle tombe degli eroi. Le “Chansons de Geste” costituirono un patrimonio che fu introdotto, a partire dal Trecento, nella letteratura europea. L’autore del poema è ignoto, ma alcuni sostengono che sia quel Turoldo, un monaco normanno, che viene nominato nell’ultimo verso del libro. Lo spunto per la narrazione è dato dalla spedizione di Carlo in Spagna del 778 per combattere gli Infedeli. Per quanto riguarda la data di redazione della “Chanson de Roland”, si pensa che il poema sia stato scritto nell’XII secolo, anche se i temi trattati sono anteriori di almeno un secolo, com’è provato da elementi interni, come la lingua, lo stile, la metrica, ed esterni, come riferimenti di fatti o personaggi della Chanson de Roland in altre opere letterarie, che attestano la diffusione dei nomi Orlando ed Oliviero – il compagno più fidato di Orlando. Anche l’acceso spirito anti-islamico è caratteristico di questo periodo - XI secolo – che è di transizione tra l’alto e il basso medioevo e di preparazione per la prima grande crociata (1097).

L’importanza della Chanson de Roland ai nostri giorni è data da due fatti importanti:

- Celebra un fatto reale e storico

- È un inno guerresco all’onore e al dovere, un’epopea temperate da un forte sentimento nazionale e religioso

Queste due motivazioni sono state a lungo contrastate da numerosi storici e letterati che ribattevano colpo su colpo con le seguenti affermazioni:

- Gli elementi storici sono minimi, trasformati, poemizzati. È impossibile discernere il vero dall’immaginario, la verità dalla leggenda

I- l dovere e l’onore sono valori ancora attuali ai nostri giorni?

Si è giunti quindi alla conclusione che l’importanza della “Chanson de Roland” è data dal fatto che è stata la progenitrice del genere “Chanson de Geste”. Copiata ed imitata, la “Chanson de Roland” è infatti, ai nostri giorni, il poema medioevale più famoso. Si sono infatti ispirati a questo poema Ludovico Ariosto e Matteo Maria Boiardo per scrivere, rispettivamente, “L’Orlando Furioso” e “L’Orlando Innamorato”.

CONFRONTO TRA LA “CHANSON DE ROLAND” E “L’ENEIDE”

Invece della solita lettura e analisi dei brani, ho voluto proporre un qualcosa di innovativo, che potesse interessare e che allo stesso tempo possa essere compreso senza difficoltà perché interessa argomenti appena trattati durante le lezioni di Italiano. Ho pensato quindi di paragonare alcuni brani della Chanson de Roland con altri tratti dall’Eneide, che trattassero la battaglia e il duello e la figura dell’eroe

LA BATTAGLIA E IL DUELLO

Il primo brano della chanson de Roland è tratto dall’imboscata degli Arabi nella gola di Roncisvalle

“Rolando il conte è ritornato in campo. Con Durendal colpisce bravamente: Faldrun de Pui per mezzo l’ha tagliato, e ventiquattro poi dei più famosi. Non sarà mai chi più voglia vendetta. Come davanti ai cani fugge il cervo, fuggono innanzi a Rolando i pagani. L’arcivescovo dice: “ben lo fate! Tanto deve valere un cavaliere che porti l’armi ed abbia buon cavallo; forte e fiero dev’essere in battaglia, altrimenti non val quattro denari; che sia piuttosto monaco in convento, preghi ogni giorno per le nostre colpe”

Il brano dell’Eneide è invece tratto dal libro XII vv. 710 – 714 e vv. 739 - 741

“Quelli, appena il terreno si liberò in un’ampia distesa, scagliate da lontano le aste, cominciano il duello con gli scudi di bronzo sonoro. Geme la terra, e con le spade raddoppiano i colpi frequenti: il caso e il valore si mischiano insieme.[…] ma poi che si venne alle armi divine di Vulcano, la lama mortale, al pari di fragile ghiaccio, si spezzò al colpo; i frammenti risplendono sul fulvo suolo”.

Le differenze tra i due brani sono principalmente basate sull’utilizzo della lancia come primo strumento d’offesa, che veniva lanciato contro l’avversario, che si riparava con uno scudo e con una corazza solitamente di cuoio rinforzato con ben poche parti in ferro. I duellanti, nell’epoca di Enea, erano accompagnati da un auriga che sorreggeva le armi, lo consigliava e lo sosteneva psicologicamente.

Le analogie riguardavano invece sostanzialmente l’uso delle stesse armi (spade e scudi) e il rimorso di coscienza che emergeva dopo l’uccisione di un uomo

L’EROE

Il primo brano della Chanson de Roland è tratto dall’agonia di Orlando, mentre il secondo narra i momento esatto della sua morte.

"Rolando sente la morte vicina, gli esce fuori il cervello dagli orecchi. Prega Dio ch’egli accolga i suoi compagni e per sé prega l’angelo Gabriele. Prese il corno, che biasimo non abbia, con l’altra mano Durendal, la spada. Per poco più di un tratto di balestra cammina verso Spagna in mezzo a un prato; sale su un colle; sotto due begli alberi quattro massi vi sono, duro marmo. Sull’erba verde è caduto riverso: e sviene, che la morte gli è vicina."

"Sente Rolando che il tempo è compiuto. Volto alla Spagna, su un colle scosceso, con una mano s’è battuto il petto: “Mia colpa, Dio, di fronte alle tue grazie, dei miei peccati, i piccoli ed i grandi, che ho commesso dall’ora in cui son nato a questo giorno in cui sono abbattuto!”. Ha teso il guanto destro verso Dio. A lui scendono gli angeli dal cielo. "

Il brano dell’Eneide è invece tratto dal libro XII vv. 919 – 921 vv. 923 – 928 vv. 931 – 936 vv. 947 – 948 vv. 950 – 952

Mentre esitava, Enea brandisce l’asta fatale, calcolando la sorte con gli occhi, e la vibra da lontano con lo slancio di tutto il corpo.[…] L’asta vola a guisa di nero turbine, portando sinistra rovina, e squarcia l’orlo della corazza, e l’ultimo cerchio del settemplice scudo. Trapassa stridendo la coscia. Il grande Turno cadde in terra, colpito, con le ginocchia piegate.[…] “L’ho meritato”disse”e non me ne dolgo; profitta della tua fortuna; tuttavia, se il pensiero d’un padre infelice ti tocchi, prego, pietà della vecchiaia di Dauno, e rendi me, o se vuoi le membra prive di vita, ai miei.[…] “Tu, vestito delle spoglie dei miei, vorresti sfuggirmi?” Dicendo così gli affonda furioso il ferro in pieno petto; a quello le membra si sciolgono nel gelo, e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombra.

Confrontando i brani, ho potuto rilevare le seguenti caratteristiche:

ORLANDO ENEA

•È fortemente religioso

•Difende il cristianesimo dagli ”infedeli”

•In punto di morte chiede all’arcangelo Gabriele di intercedere per lui

•È un paladino valoroso perché offre la sua vita a Dio e a Carlo

•Uccide il nemico non per il gusto di ucciderlo ma perché il nemico attenta alla vita, che è un dono di Dio, e in quanto tale non da sprecare

•È generoso perché anche in punto di morte chiede perdono per i peccati commessi dai suoi valorosi compagni e relega la sua figura in secondo piano

•Non ha mai un momento di debolezza e con l’aiuto di Dio supera ogni difficoltà

•Possiede un dono divino, la sua spada, chiamata Durlindana

•Pur essendo un eroe buono, muore, lasciando trionfare il male

•È un semidio (nato da una relazione tra il pastore Anchise e la dea Venere), e in quanto tale rispetta e onora le divinità dell’Olimpo

•È un eroe valoroso perché è al servizio del suo popolo che si fida ciecamente di lui

•Sconfigge il nemico perché è un pericolo per lui, per i suoi cari, per i suoi alleati e in particolar modo perché gli è stata affidata da Zeus un’importantissima missione: fondare un nuovo popolo di origine troiana

È generoso perché rischia la sua vita pur di riuscire a fondare la nuova stirpe

•Non potendo contare sull’appoggio di un vero Dio, talvolta ha dei momenti di smarrimento (gli anni a Cartagine), che vengono però poi superati

•Possiede armi divine, forgiate da Efesto

•A differenza di Orlando, non muore, ma uccide il suo antagonista, Turno

LE GUERRE PRIMA DELL’INCORONAZIONE AD IMPERATORE

Con l’espansione del regno crebbe anche la sua potenza militare e si fece sempre più forte l’idea che fosse giusto sottomettere anche altre popolazioni dei confini, soprattutto perché si ostinavano a rinnegare la religione cristiana. Si pensava soprattutto ai Sassoni, che già tante volte i Merovingi avevano tentato di incorporare nei loro territori pur senza molto successo. Durante la guerra contro i Longobardi gruppi di scorridori sassoni erano penetrati nei territori asiatici per devastare le sedi franche e le chiese cristiane. Contro di loro si mossero tutte le forze militari del regno (772) mentre Carlo cercava di trarre profitto dalle discordie interne del nemico. Gli eserciti Franchi tentarono spesso di congedarsi pensando che il paese fosse domato, ma i Sassoni si risollevarono riprendendo le loro sanguinose scorrerie: la guerra condotta sin dal principio da ambo le parti con durezza divenne alla fine spietata e sanguinosa. Ci viene data testimonianza delle incredibili crudeltà compiute durante il corso di questa guerra dal “tribunale del sangue” del Verden, tristemente famoso anche se forse il numero delle vittime non fu tramandato con assoluta esattezza. Al termine della guerra, nell’804, ci fu una deportazione dei Sassoni nei territori franchi affinché, i figli dei nobili insorti, venissero rinchiusi nei conventi del regno franco per ricevere un’educazione adeguata.

Alla luce di questi fatti, è lecito stupirsi che la Chiesa non sia intervenuta per fermare questa smisurata crudeltà. Purtroppo in quel periodo ci si era ormai abituati all’idea che l’opera missionaria dovesse essere svolta, il più delle volte, con la “mazza ferrata” che con il Vangelo. Per i primi tempi il successo sembrò arridere con questi metodi: solo le età successive avrebbero mostrato i pericoli che si celavano dietro questi metodi così brutali.

Ma ora ritorniamo alla storia di Carlo. A sud vi era la popolazione dei Bavari già alleati dei Longobardi che assediavano i territori Franchi. Le campagne di conquista di Carlo si rivolsero anche contro di loro, ora alleati degli Avari. Il capo dei Bavari, Tassilione, vinto e fatto prigioniero (795), fu rinchiuso in un convento dove più tardi abdicò a favore del re franco, il quale diviene il legittimo sovrano dei Bavari. Nel 791 rivolge le armi contro gli Avari che sono costretti a ritirarsi dalle fortificazioni del Danubio senza combattere.

Qualche anno più tardi nel 795 Pipino, figlio di Carlo e re d’Italia, si impadronì delle fortificazioni bavaresi disperdendo i superstiti, che nuovamente raccoltisi, vennero sconfitti definitivamente l’anno successivo. Anche la minaccia dei Normanni che veniva dal mare del Nord e dal golfo di Guascogna venne affrontata in varie riprese e nell’811 venne firmata la pace con il re normanno. Le coste mediterranee esigevano un assiduo controllo a causa delle continue scorrerie degli Arabi, a questo scopo furono organizzate delle spedizioni in Corsica e Sardegna.

L’INCORONAZIONE AD IMPERATORE

Il secolo era ormai al suo volgere. La vigilia dell’anno 800 batteva alle porte del mondo.

Carlo Magno toccava ormai i sessant’anni, un arco di tempo immenso per chi aveva fatto tante guerre, tante assedi alle città più sperdute, tante marce fra monti e foreste.

Poco prima dell’avvento del nuovo secolo erano spirati il pontefice Adriano e la moglie Liutgarda, le persone più amate da Carlo nel corso della sua vita…

Lui e il pontefice avevano avuto in mano il potere per 23 lunghi anni, duranti i quali erano cresciuti insieme nel prestigio e nel potere, diventando i due uomini più importanti della loro epoca.

Alla morte del Pontefice, Carlo aveva celebrato la memoria di quel grande amico perduto con messe di suffragio ed elemosine in tutte le province del regno.

Per meglio ricordare questo avvenimento fece incidere su una lastra di marmo nero di Tours una elagia, scritta interamente con lettere d’oro.

Questa lastra è tuttora conservata nella basilica di San Pietro, e vi si possono ancora leggere i versi che Carlo aveva ordinato di incidere:

Io Carlo scrissi questi versi lacrimando per la tua morte, Adriano.

Tu fosti per me un legame di affetto molto grande e dolce, un padre venerato.

Ed ora voglio che siano qui per sempre congiunti i nostri nomi: Adriano e Carlo, io Re e tu Padre.”

Era invece il 799 quando venne a mancare Liutgarda, lasciando un altro immenso vuoto nella vita di Carlo e ad Acquisgrana…

Tutto si era svolto rapidamente e il successore del Papa Adriano era Leone III, scelto dal clero romano di origini assai umili per contrastare i giochi di potere fra la chiesa ed i nobili della zona.

I nobili di Roma non accettarono questa scelta del clero e ben presto Papa Leone III fu vittima di una congiura capeggiata da due nipoti del defunto Pontefice Adriano.

Lo scopo era infamare il Papa e costringerlo ad abbandonare il suo incarico, eleggendo immediatamente un successore: Carlo Magno venne avvisato dei fatti ed egli ordinò al figlio Pipino, in virtù di Re d’Italia, di occuparsi della questione.

Pipino mandò degli uomini a prendere Leone III, affinché lo scortassero fino a Padeborn, al cospetto di Carlo Magno, dove egli avrebbe chiesto al Re dei Franchi aiuto.

Era la seconda volta in breve tempo che un Pontefice attraversasse le Alpi per chiedere un disperato aiuto ai Franchi, e come la prima volta non venne negato un aiuto.

Carlo, dopo che il Papa si fu rimesso in forma grazie alle cure ricevute a Padeborn, lo fece scortare fino a Roma da un’armata di 10.000 uomini.

Erano uomini dell’armata d’Italia agli ordini di Pipino; era la metà del 799 quando Leone III riuscì a rimpossessarsi del palazzo in Laterano…

Non vennero però ritirate le accuse di indegnità a suo carico, anzi vennero inviate a Carlo, come per legalizzare la loro posizione e appellarsi al suo giudizio.

Subito dopo avere scortato fino a Roma Carlo mandò a Roma dieci dei suoi legati per vagliare attentamente le accuse dei nobili e per aprire un’inchiesta istruttoria, che prese avvio alla fine d’ottobre del 799.

Non ci è pervenuto nessun atto dell’istruttoria, ma da quanto riferiscono gli annalisti non risulta che i nipoti di Adriano riuscissero a dar prova dei crimini che attribuivano al Papa (Leone III), come della sua condotta immorale, di sacrilegio e di spergiuro.

Carlo considerato il garante della giustizia del mondo cristiano, non sapeva come comportarsi: alla fin fina decise di appoggiare il Papa per non mettere in crisi una figura così importante all’epoca…

L’inchiesta fu chiusa nel giugno dell’800; il Papa appariva senza colpa e chi lo aveva accusato aveva commesso un’ingiustizia.

Per questo motivo Carlo andò a Roma il 23 novembre del 800 per decidere cosa si dovesse sentenziare nei loro confronti.

Il primo Dicembre convocò in San Pietro una assemblea generale di religiosi e laici, alla fine della quale si decise che la questione sarebbe stata risolta tramite la purgatio per sacramentum7che venne pronunciata da Leone III il 23 dicembre:

Io Leone, pontefice di Santa Romana Chiesa, non giudicato mai da chicchessia, non costretto, ma di mia spontanea volontà purifico me in presenza vostra, innanzi a Dio che fruga in ogni angolo della coscienza.

E affermo che non ho commesso i delitti che mi si rimproverano, né ho comandato che si commettessero.

Invoco a testimonio Iddio, al cui giudizio dovremo un giorno comparire e sotto i cui occhi sempre stiamo.”

Due giorni dopo questi fatti, Carlo Magno veniva incoronato Imperatore in quella medesima basilica, su quello stesso altare, dallo stesso Papa che aveva fatto processare e che per sua sola decisione era tornato privo di ogni macchia.

Carlo fu colto di sorpresa dalla decisione del Papa, tanto che Eginardo scrisse "Dimostrò tanta avversione a ciò da affermare che sebbene ricorresse una festività importante come il Natale, non sarebbe entrato in Chiesa se avesse saputo l’intenzione del Pontefice".

A distanza di secoli si può però dire che la cerimonia di Incoronazione è così complessa nei suoi rituali, così studiata nei gesti e nelle parole che non si può supporre il caso di una improvvisazione, né tantomeno di una cerimonia preparata nei due giorni precedenti.

Era un atto conclusivo di una serie di avvenimenti che avevano visto al centro Carlo, come giudice e salvatore del Papa, un atto di riconoscenza dovuto.

Se la cerimonia di Natale di quell’anno non significava per Carlo nessun mutamento nell’area dei possedimenti e del potere, l’immagine che da quel momento si proiettava di lui nel mondo era immensamente ingrandita, quella di un uomo, come si fece ben intendere, coronato da Dio.

L’IDEA DEL REGNO

“Uno è colui che signoreggia sul tetto del cielo, il Tornante; questo vuol dire che sulla terra, solo Uno deve regnare, e tutti gli uomini devono guardare Lui come al giusto modello”. Queste parole di un irlandese vissuto alla corte di Carlo sono qualcosa di più che una espressione poetica: in breve sono racchiusi i motivi essenziali che tutti i paladini della monarchia, da quelli dell’antico Oriente sino a quelli della Spagna di Doloso Coertès, addussero per giustificare il potere regio. L’armonia del cosmo si esprimeva in due sfere isolate: quella divina e quella delle cose umane create. Quest’ultima costituiva, nella sua struttura, l’esatto riflesso della prima. Come nel cristianesimo si era creato un rapporto di gerarchia tra l’Eterno Padre e il suo Figlio, nell’età Carolingia questo rapporto di gerarchia venne emulato.

Con la formazione del Sacro Romano Impero si ponevano delle serie questioni sui rapporti fra Stato e Chiesa. I rapporti fra i due poteri, temporale e spirituale, non avevano per ora confini e competenze specifiche ma si basavano su una sorta di compromesso. L’imperatore, infatti, si faceva garante con i suoi eserciti della difesa e della diffusione del cristianesimo, il papa in cambio offriva una protezione divina e legittimava l’operato in nome della cristianità interna. Essendo Carlo consapevole del ruolo che aveva assunto in seguito all’incoronazione di imperatore e conseguentemente dei suoi incarichi, si mostrò un fedele servitore degli ideali cristiani e strenuo difensore della Chiesa. Per garantire la diffusione del cristianesimo egli usò ampiamente la forza delle armi compiendo anche stragi di feroce crudeltà, ma si appoggiò anche all’opera evangelizzatrice del clero missionario; fu suo compito, inoltre, occuparsi attivamente della preparazione e dell’istruzione di questo categoria. Gli uomini di Chiesa costituivano la parte colta della popolazione e, con la loro esperienza, i più alti monsignori assolvevano anche le più importanti cariche amministrative del regno.

Carlo Magno con il passare del tempo si rese conto che l’amministrazione dei suoi territori non poteva essere più gestita da sedi itineranti ma, era oramai necessario dargli una “dimora” fissa. A questo scopo fu scelta la città di Aquisgrana dove furono posti i principali organi burocratici. Il palazzo che Carlo fece costruire ad Aquisgrana aveva un aspetto simile a quello di Bisanzio, capitale dell’Impero d’Oriente. Strettamente legato al palazzo vi erano gli incarichi di corte.

IL VASSALLAGGIO E LE ASSEMBLEE

Nei domini di Carlo Magno l’autorità imperiale giungeva ai singoli cittadini attraverso due diversi canali: l'aristocrazia (marchesi, conti, vescovi e abati) e la classe dei vassi dominici (persone legate al sovrano da un particolare vincolo di fedeltà). Il marchese (o duca) amministrava, militarmente ed economicamente le zone di frontiera, dette marche. Le principali erano: a occidente, quella di Spagna (comprendente pressappoco le attuali province di Navarra, Catalogna orientale e Aragona); a nord-est ed a est quelle di Sassonia, di Boemia, di Baviera e di Pannonia (l’odierna regione ungherese), che garantivano i confini nei confronti delle popolazioni danesi e degli slavi barbari, assicurando inoltre il controllo delle strade provenienti dalle regioni orientali. A sud quella del Friuli, che si opponeva ai possedimenti bizantini (parte dell’Istria e Venezia); nella parte nord-occidentale dell’impero quella di Bretagna, a diretto contatto con i Bretoni, un popolo particolarmente bellicoso. I conti invece, generalmente amici del re, governavano piccole porzioni del regno, le contee (230 in tutto l’impero di Carlo). Erano formate da un centro abitato e da un territorio circostante. Nelle zone di sua competenza il conte era un vero e proprio sovrano; dirigeva le forze di polizia, controllava le tasse, amministrava la giustizia (un terzo dell’ammontare delle multe rivolte ai cittadini spettava a lui), promulgava i bandi8 di leva e comandava le truppe imperiali situate nella zona. Spesso, per svolgere meglio i compiti affidatigli, era costretto a suddividere la contea in piccoli distretti (le vicarie), governati da un uomo di sua fiducia, il vicario. La nomina di questo funzionario, affiancato a sua volta da un luogotenente (visconte), era però soggetta all’approvazione popolare. Tuttavia per amministrare con efficacia il vastissimo impero di Carlo, marchesi, conti, vicari e visconti ricorrevano a una schiera di funzionari subalterni9 efficienti e onesti. L’imperatore, per risolvere questo delicato problema, creò dei nuovi personaggi: i vassi dominici, cioè i vassalli del re. Costoro, derivando direttamente dal sovrano la propria posizione sociale, si impegnavano a servire l’impero con dedizione assoluta. Tale rapporto di stretta subordinazione era sottolineato anche dal significato della parola vassus, latinizzazione del termine celtico gwas, che significa “uomo di qualcuno”. I vassi, affiancandosi nell’amministrazione dello stato agli aristocratici, rappresentarono il centro della burocrazia carolingia, particolarmente attiva e potente nei Paesi conquistati.

All’interno della società carolingia ricoprivano un ruolo di primaria importanza anche i missi dominici. Essi avevano il compito di reprimere gli eccessi nella gestione del potere da parte dei signori locali e plasmare l’operato dei conti e dei marchesi alla volontà del sovrano. I missi durante le lori missioni potevano ricoprire anche incarichi di carattere giudiziario. Generalmente si trattava di una coppia di funzionari itineranti: un laico e un ecclesiastico.

Il tentativo di impostare una politica unitaria si manifestò anche nell’organizzazione del placito generale: un’assemblea annuale alla quale partecipavano laici, ecclesiastici e militari. Durante questa assemblea si raccoglievano le linee della politica generale dello stato e raccoglieva le indicazioni dell’aristocrazia a proposito. Al placito generale si aggiungeva la dieta: un’altra assemblea cha aveva carattere più formale alla quale partecipavano i più importanti notabili laici ed ecclesiastici che avevano il compito di stabilire il programma politico del regno.

GLI ULTIMI ANNI DI VITA DI CARLO

La proclamazione del Sacro Romano Impero provocò le più alte proteste di Bisanzio che, si considerava l’unico “erede” dell’Impero Romano. Solo nel 812, dopo molti anni di lotta anche aperta, l’imperatore Niceforo decise di riconoscere il nuovo impero.

Carlo ormai vecchio cominciò ad affidare le sue imprese militari ai figli e ai generali. Oltre a quelle già citate sono da ricordare le guerre contro i Boemi e i Sorbi (805-806). L’ultima spedizione di guerra Carlo la condusse contro i Danesi; i soliti Normanni, tremendi e inafferrabili che non era mai riuscito a sconfiggere. Mosse subito verso settentrione con un forte esercito per intercettare la discesa dei Danesi tra Brena e Amburgo. Mandò dei reparti di avanguardia in esplorazione verso tutte le direzioni di possibile movimento, quindi attese che Godfredo osasse mettere in atto la sua minaccia. (Egli aveva annunciato che avrebbe marciato su Aquisgrana per annientare l’imperatore “nel suo nido di talpa”). Ma Godfredo non venne. Era stato ucciso in una rivolta scoppiata tra i suoi luogotenenti. L’anno successivo con gli animi più placati fra Franchi e Danesi si stipulò un accordo di pace.

Gli ultimi anni di vita di Carlo furono rattristati dalle rivalità dei suoi figli: Carlo e Pipino e della loro successiva morte. Nel settembre dell’813 Carlo Magno decise di incoronare imperatore l’unico discendente superstite: Ludovico.

Carlo fu colpito da una grave infermità nel gennaio del 814 ma le sue condizioni peggiorano e morì nel breve volgere di una settimana.

ARTE CAROLINGIA

Tra la metà dell’VIII e la fine del X secolo, si sviluppa nell’Europa occidentale un nuovo stile artistico ed architettonico, promosso dalla volontà di cultura di CARLO MAGNO, che concepisce la renovatio Romani Imperi (Rinnovamento dell’impero Romano). L’arte rinasce quindi dopo un periodo buio con l’intento di recuperare i valori ed i canoni artistici della tarda civiltà romana, in contrasto alle incursioni arabe e alla “decadenza barbarica”. La rinascita del classico, realizzata anche attraverso una introduzione dei modelli bizantini, si sviluppò nella capitale dell’impero, Aquisgrana, in Renania e nelle grandi abbazie Benedettine dell’Italia sett. e della Francia occ., dove i contatti con i maggiori centri culturali dell’epoca erano più forti.

L’arte trovò la sua massima espansione nella costruzione di grandi edifici sacri, nei quali la riaffermazione di molti elementi tipici della basilica latina (pianta a 3 navate, abside10 e cripta anulare11), si unisce alla struttura della facciata di tipo occidentale, caratterizzata da due torri laterali che permettevano alla corte l’accesso ad una balconata interna durante le cerimonie religiose. Caratterizzata invece dalla pianta centrale di tipo bizantino, una seconda tipologia di chiese che comprende la Cappella Palatina di Aquisgrana (790-805).

Per quanto riguarda la pittura carolingia, su tavola o su parete, si hanno pochissimi esempi. Nell’incorniciare i dipinti con finte colonne, capitelli, ghirlande12, nastri e cornicioni, la struttura della composizione della pittura ha come modello quella romana. La pittura è invece molto semplice e ha come riferimento i mosaici bizantini nella realizzazione di figure piatte, dai volti tratteggiati e dai grandi occhi.

MONETA

CARLO alza il peso della moneta fino a 2 grammi, anche se il massimo arrivato ai giorni nostri è di 1,7 grammi. Questa moneta è detta anche “biglione”, perché la lega dell’argento contiene meno di 500/1000 di argento puro. L’introduzione della moneta franca viene preceduta da un periodo di transizione, durante il quale si coniano monete d’oro di tipo longobardo con il nome di CARLO MAGNO. Egli impone la sua volontà a tutto il regno, compresa Benevento, dove però sopravvive la moneta d’oro con l’immagine dei sovrani locali. L’orientamento di CARLO verso la moneta d’argento è dettata da due importanti fattori:

- La proprietà delle miniere d’argento

- La necessità di evitare lo scontro con il mondo bizantino che coniava monete d’oro da molto tempo.

Prova importante, dell’alto valore che CARLO MAGNO intende dare alle monete d’argento è nel “Capitulare Mantuanum” del marzo 781, dove egli detta disposizioni con lo scopo di togliere dalla circolazione certi denari: sarà considerato reato darne o riceverne dopo le calende13 d’agosto e sarà punibile colui che infrangerà la volontà del sovrano. A Lucca fu coniato il “Denaro d’argento”, moneta che oltre ad avere tutti i requisiti della riforma carolingia, ha lo stile e la forma simile alla moneta di re Offa, un monarca inglese che aveva coniato delle monete d’oro di tipo arabo che erano state rese legali dall’imperatore. Così la zecca di Lucca coniò questo denaro d’argento; grazie a questi privilegi imperiali il Denaro d’argento Lucchese diventò una moneta utilizzata in tutta Europa (precursore dell’Euro).

CUCINA

Nel 773 CARLO MAGNO, dopo aver sconfitto l’ultimo re longobardo, Desiderio, inizia ad essere influenzato dalla cucina italica ed in particolare da quella piemontese e lombarda.

Per quanto riguarda la carne, questa è l’epoca dell’arrosto, molto apprezzato dai Franchi. Secondo quanto ci racconta il biografo di CARLO MAGNO, Eginardo, il re non riesce a fare a meno di arrosti e carne allo spiedo nemmeno quando gli viene consigliato dai medici perché vecchio e malato di gotta14.

Viene risvegliato inoltre il gusto dell’agrodolce, apprezzato già al tempo dei romani: ai cibi vengono aggiunti aceto, miele e, solo per i ricchi le spezie orientali.

Tra i cereali l’orzo sostituisce il frumento, soprattutto per l’alta richiesta d birra, e si introducono nuovi cereali prima considerati solo erbacce come segale, avena, miglio, orzo. Data la superiore resa di cereali e la loro migliore coltivabilità rispetto al frumento, il pane viene gradualmente sostituito dalla polenta e dalla zuppa.

POLENTA

La polenta è forse il piatto più conosciuto nel nord Italia e molto probabilmente quello cucinato in più modi diversi che, nonostante la povertà di ingredienti, sono fantasiosi e succulenti. La diffusione della polenta si deve, storicamente, non tanto ai gusti culinari delle famiglie settentrionali, quanto alle loro facoltà economiche: essa era, infatti, il cibo dei poveri, preparata semplicemente nella sua versione più antica, con acqua e farina. Bollente o fredda, informe o affettata e scaldata sul camino, la polenta è economica e, se pur povera di elementi nutritivi, ha la capacità di saziare anche gli stomaci più esigenti. Ai giorni nostri la polenta non è più il necessario ed unico cibo quotidiano; essa si è tramutata in un succulento piatto tipico da assaporare come accompagnamento a selvaggina e carni in genere o come piatto unico in tutte le sue varianti, tradizionalmente preparata su di un camino, nelle fredde sere d’inverno.

Varianti della polenta tradizionale

Polente condita (conscia)

Polenta fritta

Polenta e latte nel paiolo

Polenta semiliquida (scioet)

Palle di polenta

RISPETTO PER LE VARIE NAZIONALITA’

CARLO era l’imperatore romano, e mai ci fu dubbio sulla continuità del suo governo da quello dei Cesari. Ma come poteva un uomo solo rispondere alle necessità di un regno così vasto? Come affrontare i problemi che avevano portato alla fine dell’Impero romano d’Occidente? CARLO governava con il consiglio del sacrum palatium, ministri che si occupavano dei problemi delle varie nazionalità, suddivise, secondo il costume dei franchi, in contee e in marche. I collegamenti tra le varie popolazioni erano mantenuti dai missi dominici, veri e propri inviati del sovrano, che amministravano localmente la giustizia, ricevevano gli eventuali reclami e riferivano tutto a corte. In ciascun paese era in vigore il diritto di quel paese: nessuno poteva venire condannato in base a principi che non fossero accettati dalla comunità. Tuttavia, una volta all’anno, i rappresentanti delle assemblee nazionali venivano convocati dall’imperatore, che li metteva al corrente delle nuove disposizioni. Tra il 769 e l’814, CARLO MAGNO promulgò 65 “capitolari” (erano chiamati capitularia, perché divisi in capituli), cioè ordinanze, che costituirono la legislazione imperiale, che affiancò il diritto barbarico. I capitolari furono divisi in “ecclesiastici”, “mondani” e “misti” a seconda della materia trattata. I missi dominici, ebbero a disposizione, per far valere la legge, i capitolari missorum.

LE ABITAZIONI

Ai tempi di CARLO MAGNO, le abitazioni di solito erano in legno, sia le povere baracche dei contadini che i palazzi dei principi. Quando si dovevano costruire grossi complessi, come per esempio ville principesche o abbazie, non si costruiva un solo edificio (a parte il caso delle chiese), ma si preferiva erigere diverse piccole case con granai e stalle. D’altra parte, non c’era l’occasione per lo sviluppo di una architettura urbana, dato che le più grandi città dell’epoca avevano soltanto poche migliaia di abitanti. Quando CARLO MAGNO volle costruire grandi e sontuose residenze, i suoi architetti dovettero ispirarsi ai monumenti romani, di cui restavano allora rovine più imponenti di quelle attuali. Inoltre, diversi palazzi e terme romane, ristrutturate, erano ancora in funzione. Gli architetti Carolingi crearono un misto, che teneva conto sia della classicità che della funzionalità tipicamente franca.

I COMFORT & L’ARREDAMENTO

Ad Aquisgrana la stanza riservata all’imperatore era dotata di un impianto di riscaldamento, e preceduta da un’anticamera.

I mobili erano molto semplici: cassapanche, cofanetti scolpiti, tavole, panche, sedie e divani (lusso di origine orientale). I letti erano bassi, dotati di cuscini e di drappi in cui ci si avvolgeva per dormire. D’inverno ci si difendeva dal freddo con coperte di lana, prodotte in loco oppure - se di maggior pregio - importate dalle Fiandre.

L’ABBIGLIAMENTO

L’eleganza, nel IX secolo, tornava lentamente ad essere protagonista sia per la cura del corpo che per il vestiario. La lunga capigliatura dei franchi, nelle classi elevate, cedette ad un’acconciatura con i capelli tagliati sulla nuca e raccolti alla sommità della testa; solo i contadini continuavano a farsi le trecce e a lasciarsi crescere la barba. Spostandosi poi a nord il centro della vita europea, il clima più freddo e le abitudini guerriere di quelle popolazioni, imposero, in modo sempre più determinante, l’uso dei pantaloni aderenti e delle blusa o tunica corta spesso di cuoio e con cintura rigida, nonché l’uso della mantellina, delle calze e del cappello, in lana o in feltro o in pelle d’animale. I ricchi adornavano questi elementi con centinaia di varianti: orli, scollature, ori e gioielli di tutti i tipi e per ambo i sessi, pellicce, berretti di velluto, colori sgargianti e fine lino bianco per gli indumenti intimi.

I MINISTRI CAROLINGI

Ai tempi di CARLO MAGNO, il governo si chiamava palazzo, anche se con questo termine non si indicava un edificio fisso, ma piuttosto l’insieme di tutti gli uffici mobili al seguito dell’imperatore, che avevano un’organizzazione molto efficiente. Abbiamo delle notizie precise grazie a Incmaro, vescovo di Reims, il quale scrisse un libro, il De ordine palatini (l’organizzazione del palazzo), che è giunto fino a noi come una preziosa miniera di notizie sul governo carolingio. I ministri erano allora sei, e avevano il seguente ordine gerarchico: arcicappellano, conte di Palazzo, cameriere, siniscalco, coppiere e conestabile ( « conte della stalla »).

Curiosamente le più alte cariche dello Stato si identificavano spesso con delle umili funzioni di servizio alla persona dell’imperatore. Inoltre la scarsità di personale fidato obbligava i funzionari statali ad interessarsi anche delle faccende personali del monarca.

Queste erano le competenze specifiche dei sei ministri:

Arcicappellano — cappellano15 di casa CARLO MAGNO, ministro degli affari ecclesiastici, preside della Scuola palatina e Gran cancelliere16. Da lui dipendevano notai e altri impiegati, il cui compito era quello di mettere per iscritto gli atti dell’amministrazione.

Conte di Palazzo — amministratore - maggiordomo della residenza del re e giudice di tutto il personale di servizio. Egli ricopriva una carica di alta responsabilità; infatti, doveva organizzare i frequentissimi traslochi di tutta la corte carolingia.

Cameriere (capo cameriere) — addetto all’ordine e alla pulizia dell’appartamento imperiale. Poiché CARLO MAGNO teneva, nei cassettoni della sua camera da letto, il denaro dello stato, il cameriere era contemporaneamente ministro delle finanze, e tale incarico gli rimase anche quando il tesoro venne deposto in un’apposita stanza. Siccome l’imperatore riceveva gli ambasciatori in casa sua, il cameriere finì per diventare una specie di ministro degli esteri.

Siniscalco, coppiere — erano addetti ai rifornimenti di viveri, vino e birra.

Conestabile - si occupa dei cavalli; era destinato a diventare, in caso di guerra, capo di stato maggiore dell’esercito, che allora aveva il suo punto di forza nella cavalleria. I suoi aiutanti, cioè i marescialli (maniscalchi), saranno invece i comandanti delle varie truppe.

Attorno a questi sei « grandi dignitari » c’era poi un vasto gruppo di impiegati minori, detti palatini: la solerte burocrazia del tempo.

LE LEGGI

Il buon cittadino carolingio aveva tre principali doveri: prestare servizio militare, pagare le imposte e obbedire al « bando ». Con questa parola si intendevano indicare in via generale le leggi, i decreti e tutte le disposizioni emanate dall’autorità politica.

La legge aveva però a quei tempi delle caratteristiche che la rendevano molto diversa da quella di oggi. Innanzitutto non era « territoriale », ossia applicabile a tutti coloro che si trovano in un determinato territorio, bensì « personale ». In altre parole, un franco — ovunque si trovasse — veniva giudicato secondo le leggi dei franchi, un longobardo secondo quelle dei longobardi, un latino secondo i principi del diritto romano. I giudici dovevano avere una vasta competenza riguardo alle leggi di tutti i diversi popoli che abitavano nell’impero. Quando le parti in causa erano di origine diversa, ci si affidava a un complesso di abitudini che regolavano questi casi particolarmente complessi.

CARLO MAGNO non pensò mai di far scrivere un codice comune, cosa inaccettabile ai suoi tempi. Infatti, il diritto veniva allora considerato una specie di sacra eredità di ogni popolo. Rinunciare alle proprie leggi nazionali sarebbe stato come rinunciare alla propria lingua natale. Si pensava inoltre che le leggi, in quanto sacre, fossero immutabili. Ed effettivamente erano rimaste identiche per molti secoli. Ma in un periodo di grandi trasformazioni socio - politiche, come quello del regno di CARLO MAGNO, molte leggi nazionali erano superate e inadeguate ai tempi. Non potendo annullarle, l’imperatore emanò via via delle leggi aggiuntive, per mezzo delle quali potevano essere sempre aggiornati i vari codici in uso nell’impero.

1 Cronista franco e biografo di Carlo Magno. Studiò in un monastero in Germania e nel 796 venne mandato ad Acquisgrana alla corte di Carlo. Di lui si ricordano varie epistole e la “Vita Karoli”, strumenti fondamentali per lo studio della vita dell’Imperatore.

2 Monaco ed erudito anglosassone. Studiò nella scuola di York e nel 781 a Parma incontrò Carlo, che ne fece uno dei suoi maggiori collaboratori.

3 Qualcosa di simile alla pleurite, causata dalla pioggia e dal freddo rimediato nelle notti all’addiaccio.

4 Prepotenza – arroganza – insolenza

5 Podere

6 Misura di terreno pari a 2500 mq

7 Giuramento spontaneo sui Vangeli dell’accusato, finalizzato alla dichiarazione della sua innocenza al cospetto di Dio.

8 Pubblico annuncio, in questo periodo dato verbalmente a suon di tromba o tamburello

9 Individuo che è posto sotto altri, di minore importanza

10 Parte a pianta semicircolare o poligonale della chiesa, coperta da una volta; è posta in fondo alla navata centrale

11 Detto di volta emisferica impostata su due muri circolari e concentrici

12 Corona di fiori, fronde, erbe o altro materiale che viene usata come ornamento.

13 Primo giorno del mese secondo il calendario antico

14 Malattia dovuta al deposito di acido urico nei tessuti, particolarmente in quelli articolari.

15 In generale sacerdote addetto ad un servizio religioso.

16 Pubblico ufficiale che svolge attività che consistono nel preparare, redire, autenticare, registrare e spedire atti e documenti di pubbliche autorità.