Erasmo da Rotterdam

EUGENIO GARIN: ERASMO E LA GUERRA

Per una gran parte del pubblico Erasmo è l'autore dell'Elogio della follia.

Per un'altra notevole parte di studiosi Erasmo è il rinnovatore degli studi sul testo dell'Antico e del Nuovo Testamento.

E' un grande filologo.

Per coloro i quali hanno presente soprattutto la penetrazione più profonda, più sottile, più duratura, più lunga, Erasmo è il compilatore di un'opera che ancora, a mio parere, appare straordinaria, come gli Adagia.

Io vorrei soffermarmi, in modo particolare su alcuni degli scritti di Erasmo, che poi accompagnano tutta quanta la sua attività: sugli scritti sulla pace.

Erasmo, in un'Europa sconvolta dalle guerre, un'Europa che si andava sempre più profondamente dividendo sul piano religioso, ha difeso, ha combattuto per la pace fra i popoli, pace politica e ancor prima pace religiosa.

Questo tema è costante in Erasmo sin dai primi scritti. In fondo, nonostante lo sviluppo del suo pensiero, c'è un punto che quasi l'ossessiona: l'eliminazione della guerra, allontanare i conflitti, "non vedere più la gente ammazzata, non vedere più le città bruciate, non vedere più i saccheggi, non vedere più dominate le pacifiche convivenze dai mercenari, dai soldati, non vedere più le armi".

C'è, nel suo pensiero, una sorta di crescendo: su questo crescendo, io sono convinto, ha pesato moltissimo la diffusione delle armi da fuoco. Ho pensato tante volte, leggendo certi testi erasmiani, all'animus che si è diffuso nel mondo con l'apparizione della bomba atomica. Non voglio dire che le bombarde e i cannoni, che utilizzavano nel '400, siano paragonabili alla bomba atomica, ma certo c'è una pagina, nel Lamento della pace, in cui Erasmo dice:

"pensare che oggi i morti nei campi di battaglia si contano a migliaia e a decine di migliaia, mentre prima c'era il duello, c'era l'osservanza delle norme, c'erano persino delle regole per ammazzarsi. Di fronte a queste stragi, cambia tutto".

Erasmo ha manifestato questa sorta di ossessione molto presto. Ho portato - ma non lo leggo perchè porterebbe via troppo tempo - una sua esercitazione retorica, scritta probabilmente quando aveva una ventina d'anni, che colpisce già, soprattutto per certe battute:

"Nelle città muove i suoi passi la carestia. La giustizia è sepolta, le leggi rovesciate, oppressa la libertà. E' il regime della guerra. La concordia stringe in un dolce vincolo, ma la discordia strappa l'uno all'altro, anche coloro che il sangue dovrebbe unire. Gli uni costruiscono le città, gli altri le distruggono. Uno crea ricchezza, l'altro la annulla. La guerra cambia gli uomini in bestie feroci. La pace dopo la morte unisce le anime a Dio. Io non esorto e non prego, imploro: cercate la pace"

Naturalmente è semplicemente un lontano preludio dei grandi scritti, però dimostra la costanza di questa preoccupazione. Vorrei arrivare a quello che mi sembra che sia stata l'esperienza scatenante, dopo la quale Erasmo scrive in modo diverso, proprio su questi problemi: l'esperienza italiana. Tra il 1506 e il 1507 Erasmo scende in Italia. A Torino ha la laurea in teologia. Arriva fino a Bologna e, non subito, ma in un secondo momento, vede a Bologna uno spettacolo, che ha descritto e che non ha dimenticato più, che per lui è stato proprio un'esperienza cruciale: il Papa armato che entra nella città da trionfatore. Il papa.

L'esperienza italiana gli fa toccare con mano come sia proprio il papa stesso ad esortare alla guerra, il papa stesso a voler cacciare i barbari, a voler ammazzare quelli o quegli altri ecc... Potrei citare passi di lettere e altri brani: ad esempio quando descrive le campagne della Romagna con la gente che muore di fame, a causa dei danni della guerra. Quello che lo disgusta profondamente - e questo viene fuori continuamente - sono anche i mezzi, i pretesti per dichiarare la guerra. La falsificazione dei documenti, l'invocazione di diritti che sono degli assurdi (perchè la nonna aveva sposato il principe tale..., perchè quello si era imparentato con quell'altro..., e via discorrendo).

C'è tutto quanto questo quadro dell'accompagnamento giuridico-diplomatico delle guerre di conquista e di rapina, che effettivamente colpisce. Alla fine di questo soggiorno Erasmo parte dall'Italia. Non credo sia un caso che, proprio mentre se ne andava dall'Italia a cavallo, gli sia venuto in mente di scrivere L'elogio della follia.

Non mi soffermo sull'Elogio della follia. Anche lì c'è un pezzo contro la guerra. Credo che sia un testo di grande importanza. Io sono tra quelli che danno una grande importanza alla parte finale, cioè a questa - diciamo così - trasformazione del mondo di vedere la politica.

Penso invece a un testo, lo Iulius exclusus (Giulio escluso dal cielo), probabilmente scritto subito dopo la morte di Giulio II, che circolò in Europa immediatamente e venne stampato soltanto nel 1518, anonimo. Si tratta di un testo di cui, nei secoli, si è discussa la paternità: è o non è di Erasmo? È stato attribuito a Erasmo e io credo che sia fondamentalmente di Erasmo; ed è un testo secondo me singolare. Mi stupisce che nessuno abbia pensato a tradurlo e a farlo conoscere.

Siamo davanti alla porta del Paradiso, anzi alle porte, perchè vi sono molte porte di diamante, e a una finestrella con l'inferriata, a una "fenestella cancellata". Dietro c'è S.Pietro. Davanti alle porte chiuse arriva Giulio II, armato, insieme al suo Genio, che commenta anche le sue parole.

Ha luogo un dialogo tra l'ombra del Papa e S. Pietro. Fin qui tutto va bene. Il guaio è nel contenuto, che è veramente atroce, perchè mentre il Papa sbeffeggia in tutti i modi S. Pietro, S. Pietro dice al Papa: "Ma come, tu vai dietro ai soldi, vai dietro alle donne, fai tutte quante cose, non sei un papa, sei un bandito". E l'altro gli risponde: "Povero disgraziato, tu sei fuori del tempo! Ma ti credi sempre di vivere ai tempi di Gesù, e subito dopo, quando la chiesa era povera, piccola, cercava di imporsi con le virtù e via discorrendo. Ma dovevi venire a qualcuno dei miei trionfi!". C'è la descrizione dei trionfi, con gli stuoli di ragazzi, di ragazze, la traccia dei bottini di guerra, le armi. E il confronto, che è molto abile, rispecchia le vicende delle guerre di Giulio II, con i commenti di ingenuo di S. Pietro. Naturalmente, ripeto, il dialogo è molto vivo, perchè non c'è solo il Papa e S. Pietro, ma c'è un coro silenzioso di cui parla il Papa e di cui parla S. Pietro, che è quello dei soldati morti, che costituiscono l'esercito, di cui il Papa intende valersi, nel caso che sia necessario, per entrare in Paradiso assaltandolo.

C'è la descrizione di alcuni di questi poveri disperati, fatti a pezzi. Quindi, non ci sono neanche i cadaveri interi alle volte, ma dentro le armature si vedono questi soldati colpiti, piagati.

Il finale è veramente degno di tutto il resto, perchè è appunto una minaccia. Quando S. Pietro dice: "Qui dentro tu non metterai mai piede, né tu né i tuoi. E' chiuso e voi non entrerete", dopo avergli ripetuto tutto quello che pensa della guerra, dei Papi che fanno le guerre, eccetera, la risposta di Giulio II, su cui poi finisce il dialogo è:

"Sto aspettando, in terra stanno combattendo, sto aspettando circa un centinaio di migliaia di soldati che moriranno di certo nelle guerre che stanno facendo; quando saremo tanti, allora cominceremo a sparare sopra il Paradiso e entreremo con la forza anche nel Paradiso".

Passiamo ora a considerare gli Adagia. Tra questi adagi lunghi (ce ne sono alcuni brevi, altri brevissimi e altri molto più ampli) ce n'è uno che a me piace moltissimo, che mi pare importantissimo, che mi pare una delle chiavi per leggere non solo gli Adagi, ma per leggere tutto Erasmo. Questo adagio è intitolato: I Sileni di Alcibiade.

Credo che sappiate cosa sono i sileni di Alcibiade: statuette cave dentro, che fuori appaiono ridicole e brutte, mentre dentro vi sono immagini bellissime. Che cosa significa? Significa che la realtà ha due aspetti: un aspetto, nella fattispecie, esteriore, e un aspetto interiore.

Arrivare a leggere la realtà significa rendersi conto di che cosa è Sileno, cioè vedere la bellezza straordinaria che c'è dentro, cioè la necessità di capire che la realtà va sempre capovolta, perchè - ed è questo l'importanza del testo di Erasmo - i Sileni vanno intesi in due modi: nel ricordo platonico i sileni rappresentano sono la bellezza interiore rispetto al ridicolo, al brutto esterno. Ma c'è l'altra possibilità, cioè il bello esterno, il potente esterno, quello che si presenta con tutti quanti i titoli apparenti di grandezza: lo apri, e che cosa trovi? Trovi i vizi.

Ecco a che cosa serve l'esempio dei Sileni a Erasmo. Lui li applica senz'altro ai sovrani e ai pontefici, ai vescovi, ecc., del suo tempo.

Perchè ho ricordato i Sileni? Perchè proprio alla fine dei Sileni c'è un violentissimo attacco alle guerre: alle guerre che vengono scatenate dai sovrani e dai grandi della Chiesa.

Un altro degli "adagi" contro la guerra è quello in cui Erasmo parla dell'aquila, vinta dallo scarafaggio, dallo scarabeo. E quando dipinge l'aquila - e rimpiange di non avere la penna del fisionomista - con questa cattiveria stampata in tutti quanti i suoi lineamenti e, a un certo punto, animale veramente regale. Perché così sono i re: hanno quest'aspetto imponente e sono cattivi, come l'aquila, che si diverte a massacrare.

La potenza nel mondo, in fondo, è questo. Uno degli adagi lunghi è appunto il dulce bellum: la guerra è dolce per chi non la conosce. Insistendo, l'aquila è il potente, il potente laico o ecclesiastico che sia. Poniamo il caso che un fisionomista di una certa competenza sottoponga ad analisi accurata, la fisionomia dell'aquila:

"... l'occhio torvo e rapace, il ghigno truculento, la mandibola spiegata, la fronte bieca e finalmente il rostro adunco. Puoi star sicuro che il nostro fisionomista riconoscerà immediatamente l'immagine della regalità maestosa e altera. L'identificazione aquila-sovrano-sovranità-potenza-regalità è rafforzata dal colore funereo, tetro e di malaugurio, quel nero opaco e smorto, che è proprio dell'aquila. E a questi tratti bisogna aggiungere la voce chioccia e agghiacciante, quell'atroce singulto, capace di incutere i brividi a ogni essere vivente...".

Ho letto questo brano anche perchè, secondo me, Erasmo, quando vuole, è un grande scrittore. Ci sono delle pagine che difficilmente si dimenticano. Ecco la lettera in cui Erasmo dice quello che è la sostanza del Dulce Bellum:

"...Sono solito domandarmi, spesso meravigliato, cosa mai spinga, non dico i Cristiani, ma gli uomini tutti, a tale punto di follia da adoperarsi, con tanto zelo, con tante spese, con tanti sforzi, alla reciproca rovina generale della guerra. Che altro infatti facciamo nella vita se non la guerra o prepararci alla guerra? Neppure tutte le bestie combattono tanto, ma solo le belve, le bestie cattive. E neppure queste combattono fra loro, ma solo se sono di specie diverse. Combattono con mezzi naturali. Non come noi con macchine escogitate da un'arte diabolica".

Quando si parla, così, in modo indiscriminato, dell'età del rinascimento si dicono spesso tante cose giuste, ma spesso anche tante bestialità. Ci si dimentica tutto quanto l'aspetto di perfezionamento tecnico, che in quel momento prende potentissimo l'avvio e che non sempre è a beneficio dell'umanità.

Dietro tutta quanta la retorica di un periodo di civiltà che vuole rendere più umana la vita dell'uomo spesse volte si nasconde l'avvio a una tecnica, la quale - non dirò che è disumana - è neutrale dal punto di vista morale. Se ne infischia altamente se la macchina che sta costruendo serve a aiutare gli uomini o a ammazzarli.