Fahrenheit 9/11
di Michael Moore

Da quando un documentario ha vinto per l’ultima volta la Palma d’Oro al festival di Cannes sono passati molti anni.

Era il 1955 e allora spettò a Jacques Cousteau, ex ufficiale della marina e celebre oceanografo, sollevare il prestigioso trofeo guadagnato col suo “Il mondo del silenzio”, cronaca di un viaggio lungo due anni tra Mediterraneo e Oceano Indiano a bordo del panfilo “Calypso”, comandato dallo stesso Cousteau, alla ricerca delle bellezze sottomarine riprese da un allora giovanissimo Louis Malle, che poi divenne uno dei più grandi maestri del cinema francese.

Nell’edizione del 2004 è stata la volta di Michael Moore il quale, dopo aver guadagnato l'anno precedente l’Oscar per il suo precedente “Bowling a Columbine”, mette a segno un colpo per i più impensabile e sbaraglia la concorrenza aggiudicandosi la Palma d’Oro col documentario “Fahrenheit 9/11”, irriverente pamphlet anti-Bush.

Il film racconta, dopo un prologo in cui l’autore ci spiega come George W. Bush ha messo piede alla Casa Bianca (tra i fischi) grazie a un broglio elettorale in Florida, in che modo la tragedia dell’11 settembre è stata strumentalizzata dal Presidente e dai suoi collaboratori, col benestare dei media, al fine di ottenere l’appoggio incondizionato degli americani alla guerra in Iraq, ma anche per limitare i diritti dei cittadini ad esempio attraverso il Patriot Act, oltretutto votato dal Senato senza che nessuno dei membri si sia preso la briga di leggerlo.

Secondo la lucida, seppur imparziale, analisi di Moor le ragioni dell’attacco all’Iraq vanno ben oltre i motivi sbandierati dall’Amministrazione Bush, che professa l’attacco preventivo come unica difesa contro il terrorismo, ma devono essere ricercati in tutta una serie di interessi personali anteposti alla sicurezza mondiale e alla salvaguardia dei diritti umani.

L’industria bellica che risolleva le sorti dell’economia nazionale, i pozzi petroliferi su cui mettere le mani, un paese intero (l’Iraq) da ricostruire, non sono secondo Moor la diretta conseguenza di una guerra nobile combattuta al fine di far prevalere nel mondo giustizia e democrazia, ma le cause principali che hanno messo in moto una guerra ipocrita studiata a tavolino.

Il regista non si ferma alle ipotesi e alle illazioni, ma esibisce prove, il più delle volte inconfutabili, sui rapporti d’affari tra i membri dell’Amministrazione USA, primi fra tutti i petrolieri Bush, e le società che traggono profitto dalla costruzione di armi, dalla gestione dei pozzi petroliferi iracheni, dalle imprese che hanno in appalto gran parte della ricostruzione di scuole, ospedali, acquedotti, che prima di essere ricostruiti si necessitava distruggere.

Moor, col suo consueto sarcasmo, ci porta a conoscenza anche dei strettissimi rapporti tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden, ossia i parenti più stretti di Osama per intenderci, ora nemico numero uno di George W. e leader dell’organizzazione terroristica Al Quaeda, ritenuta responsabile dell’attacco alle Twin Towers e di numerosi altri attentati nel mondo, e di come a questi ultimi sia stata agevolata la partenza dagli Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, quando praticamente era impossibile vedere un aereo levarsi in volo da qualsiasi aeroporto yankee. Come se non bastasse a nessun membro della famiglia è stata posta una sola domanda da parte delle autorità competenti, che riguardasse ad esempio i loro rapporti con Osama.

L’autore ci informa inoltre che un imminente attentato da parte di Al Quaeda agli Stati Uniti era oggetto di un dossier stilato dalla Cia e consegnato a Bush ben prima dell’11 settembre, però il Presidente non si è preso la seccatura di leggere tale importantissimo documento poiché troppo impegnato in gite con la barca a vela o in partite a golf.
Poi la visita negli Stati Uniti dei Talebani, accolti con tutti gli onori e solo dopo l’attacco dell’11 settembre ritenuti nemici della democrazia (forse prima ne erano i paladini?) e cacciati dal potere in Afganistan a suon di bombe (ma da quanto tempo occupavano quella posizione ottenuta con le armi?), la famiglia reale saudita in stetti rapporti commerciali con la famiglia Bush e a capo di una grossa fetta dell’economia statunitense tra cui quella legata alla costruzione di armi, i soldati reclutati tra i quartieri più poveri, molti dei quali sono tornati in patria dentro una bara avvolta dalla bandiera a stelle e strisce e sono stati chiamati eroi, i membri del Congresso che sponsorizzano l’arruolamento dei giovani, mentre solo uno di loro ha un figlio tra i plotoni spediti a combattere in Iraq, contribuiscono a smascherare l’ipocrisia e la retorica di un Governo capace solamente di salvaguardare gli interessi dei singoli a scapito della collettività considerata solo come una massa di potenziali elettori.

“Fahrenheit 9/11”, nome ottenuto parafrasando il titolo del celebre romanzo fantascientifico di Ray BradburyFahrenheit 451”, da cui François Truffaut ha tratto una convincente versione cinematografica, risulta meno sarcastico e graffiante del precedente “Bowling a Columbine”, poiché la presenza dell’istrionico Moor è limitata ad alcune scene e l’ esposizione è affidata per la stragrande maggioranza del film al montaggio di immagini di repertorio, spesso accompagnate da una voce narrante (nella versione originale quella dell’autore stesso) che appesantisce e rallenta il racconto, ancor più nella versione italiana, su cui grava una voce troppo fredda e impersonale.
Non mancano comunque sprazzi di vero cinema, per la verità pochi all’interno di un linguaggio prettamente televisivo, come la sequenza dell’attacco alle due torri raccontata esclusivamente attraverso i volti terrorizzati e increduli dei passanti e la scena in cui una madre afro-americana di un soldato ucciso in Iraq si avvicina in una blindatissima e gelida Casa Bianca, simbolo dell’incolmabile distanza fra chi comanda e chi subisce ogni decisione presa dall’alto, fra chi decide le guerre e chi piange i propri figli caduti per “servire la patria”.

L’autore, coraggiosamente, non si sottrae inoltre alla responsabilità di mostrarci il vero volto della guerra, proponendoci immagini molto crude come quelle dei corpi dei militari carbonizzati su cui infierisce la popolazione irachena e interviste inedite in cui soldati di stanza in Iraq esprimono liberamente la propria opinione sulla guerra e spiegano che si preparano ad entrare in azione caricandosi nell’ascoltare musica a tutto volume.
Efficace in alcune parti il montaggio alla Blob, in cui l’autore associa delle frasi pronunciate dalle stesse autorità statunitensi prima e dopo l’11 settembre che stanno agli antipodi e alterna alcune brevi sequenze di film western e immagini di Bush, dove gli attori dei film e il Presidente utilizzano lo stesso linguaggio.

Il film, nonostante le carenze strutturali da ricercarsi nello squilibrio fra austerità e ironia, risulta comunque un efficace strumento di controinformazione e raggiunge il suo scopo di smascherare Bush che da instancabile paladino della giustizia, figura attorno alla quale si è costruito il consenso degli elettori americani, diventa nel ritratto di Moor uno spietato affarista e per di più poco avvezzo al lavoro e neanche tanto intelligente.
Appropriata e illuminante la frase che compare sul finale del film tratta dal capolavoro di George Orwell “1984”: “La guerra non è fatta per essere vinta, ma per continuare”, che ci illustra come sia più facile rendere un popolo accondiscendente verso tutte le decisioni, anche le più estreme, prese da qualsiasi governo con una guerra in atto.
Il merito di Michael Moore è anche quello di aver contribuito alla riabilitazione del cinema documentario con le sue opere, precedute da successi come l’indimenticabile “Buena Vista Social Club” di Wim Wenders o dal più recente “Essere e avere” del francese Nicolas Philibert e apripista per altre opere di imminente uscita come “Super size me” del giovane regista statunitense Morgan Spurlock, j’accuse lanciata contro la catena di fast food Mc Donald’s. Un genere tanto bistrattato nel nostro Paese, per lo più realizzato con piccoli budget e confinato all’interno dei vari festival e rassegne, ma purtroppo incapace di raggiungere il grande pubblico.

Un altro merito (o demerito?) dell’autore è quello di aver portato la politica sul grande schermo e va bene se ciò significa avvicinare gli spettatori ai problemi della società moderna, a patto però che il cinema non si trasformi in una enorme (e proficua) tribuna elettorale.