Vita culturale e materiale nell'antica Roma

La struttura della famiglia romana, che nei secoli rimase sempre la stessa, era molto allargata, e comprendeva non soltanto quella che oggi viene definita «famiglia nucleare» (padre, madre, figli), ma anche i nonni, gli zii, i nipoti, i cugini.

Vivere in famiglia

L'uomo più anziano, il pater familias, esercitava un'autorità indiscussa su tutto il gruppo familiare: sui figli, che gli dovevano obbedienza anche quando erano ormai adulti, sulla moglie e su tutti gli altri parenti.

La legge assegnava al pater familias l'amministrazione del patrimonio comune e degli schiavi, e gli riconosceva un potere assoluto, che comprendeva il diritto di vita e di morte sui familiari, i quali potevano persino essere venduti come schiavi.

Come in tutte le società antiche, anche nel mondo romano, soprattutto in età repubblicana (in seguito la condizione femminile migliorò notevolmente), la donna non aveva il diritto di scegliere il proprio marito, che era invece imposto dal padre; e meno che mai poteva chiedere il divorzio, mentre il marito lo otteneva con facilità sulla base di due accuse: la sterilità (sempre attribuita alla donna) e l'adulterio.

Nei primi tempi di Roma, il marito tradito aveva il diritto di giustiziare lui stesso l'adultera.

Nell'età monarchica i cittadini di Roma erano divisi in 30 curie, ciascuna composta di 10 gentes (plurale di gens, parola latina che indica un complesso di più famiglie le quali hanno in comune l'origine, il nome e le abitudini religiose): ogni gens, a sua volta, comprendeva 10 famiglie.

La gens, che può essere paragonata al clan preistorico, con il trascorrere dei secoli e con la trasformazione delle strutture statali perse d'importanza, mentre crebbe quella della famiglia.

Abitare

A seconda del ceto sociale e dei mezzi economici, i cittadini di Roma vivevano in case molto differenti: in città i ricchi abitavano nella domus, i poveri nell'insula; in campagna, i ricchi nella villa e i poveri nella rus.

La domus, in età repubblicana semplice e austera, raggiunse in età imperiale fasti impensabili: la Domus aurea (Casa d'oro) che Nerone fece costruire per sé (nell'atrio si ergeva una statua dell'imperatore alta 40 metri), conteneva arredi e oggetti esclusivamente d'oro, mentre i soffitti erano decorati in avorio.

La pianta della domus prevedeva un solo piano, al livello di terra: dalla strada si passava, per mezzo di un corridoio, in un atrio, nel quale si svolgevano tutte le attività della famiglia, compresi i riti religiosi davanti a un - altare (il culto era diretto dal pater familias). Quindi si passava in un cortile, al centro del quale una vasca raccoglieva l'acqua piovana. Sul ile si affacciavano tutte le stanze della casa, dalle camere da letto ai saloni di ricevimento ai bagni. Le domus più lussuose abbondavano di marmi, mosaici, affreschi (soprattutto trompe _ l'oeil, cioè riproduzioni di paesaggi così fedeli da sembrare vere).

L' insula era un caseggiato alto sino a 20 metri, di 4 o 5 piani, diviso in appartamenti piccoli e scuri, senz'acqua né gabinetti, dotati però di finestre e in qualche caso di balconi. Le insulae (45.000 per un milione di persone) erano concentrate nella Suburra, la periferia povera di Roma: costruite in legno, quasi senza fondamenta, erano soggette a frequenti incendi e crolli.

La villa era l'abitazione in campagna o al mare dei Romani facoltosi. Giardini con piscina, adorni di aiuole, fontane, piante, statue e animali esotici; portici; biblioteche: tutto contribuiva a sottolineare la ricchezza del proprietario.

La rus era la cascina: abitata da contadini, che potevano essere liberi o schiavi, sorgeva al centro di un terreno coltivato. Povera di arredi, scomoda, spesso ospitava uomini e animali insieme, senza nessuna misura di igiene. Nei tempi più antichi gli unici

materiali da costruzione erano il legno e i mattoni. Quando inventarono il calcestruzzo una mistura di pozzolana (pietra vulcanica che si trova vicino a Napoli), calce e acqua che, una volta solidificata, è durissima, i Romani ebbero a disposizione il materiale ideale per l'arco a volta, una tecnica che essi avevano appreso dagli Etruschi e a cui diedero enorme sviluppo. Da allora molti edifici, come il Pantheon, vennero costruiti in calcestruzzo rivestito di mattoni.

Nell'età di Augusto, per esaltare la potenza di Roma si prese a usare il marmo in abbondanza.

Mangiare e vestire

Grano, olio, vino: questi gli alimenti che una volta al mese venivano distribuiti dal governo alla plebe perché giudicati indispensabili.

Da quando Roma, con la Prima guerra punica, si era impadronita della Sicilia, quest'isola riforniva di grano tutto il territorio; ma poi il numero degli abitanti crebbe tanto che si dovette importare il frumento dalle province d'Egitto e Africa Proconsolare.

Anche l'olio prodotto nell'Italia centrale e meridionale non era più sufficiente, e si prese a importarlo dalla Spagna, come del resto il vino: si è calcolato che ogni cittadino romano consumasse in media 14 litri di vino al mese, sia pur diluito con acqua (anche di mare).

Prima della diffusione del pane (11 secolo a.C.), il grano veniva utilizzato per la preparazione di focacce, unito ad altri cereali come il farro e l'orzo. Con cipolle, aglio e cavolo, il pane costituiva la base dell'alimentazione povera, cui si aggiungeva qualche minestra di fave e di ceci.

I ceti privilegiati disponevano di ben altri cibi: cacciagione (anche rara: pavoni, cicogne), funghi, dolci farciti di frutta secca, crostacei. I banchetti si svolgevano in sale arredate con divani su cui gli ospiti mangiavano sdraiati, secondo l'uso greco.

Era molto comune l'uso di mangiare pesci, formaggi, latte, uova (di gallina, ma anche di piccione e di quaglia). Il condimento preferito, oltre alle erbe aromatiche, era il garum, una salsa ottenuta mescolando pesce fermentato e aromi naturali. Unico dolcificante, il miele, essendo allora sconosciuto lo zucchero.

Quanto agli abiti, gli uomini indossavano nelle occasioni ufficiali la toga, un lungo taglio di lana di colore naturale, che avvolgevano intorno al corpo; in tutte le altre circostanze usavano la tunica, una camicia senza maniche, stretta alla vita da una cintura. D'inverno si riparavano dal freddo con un mantello (spesso fornito di cappuccio), mentre i soldati si accontentavano di una mantellina quadrata. Anche le donne portavano la tunica e, quelle socialmente più elevate, una stola sulle spalle. Quando stavano in casa, uomini e donne calzavano i sandali; fuori, portavano i calzari, allacciati con stringhe sino al ginocchio.

Lavorare

Nell'età monarchica come in quella repubblicana e in quella imperiale rimase in vigore una differenza netta tra le classi sociali: i ceti privilegiati (che di volta in volta abbiamo indicato nei patrizi, nobili, aristocratici, cavalieri) non lavoravano; gli altri, sì.

Per i primi, l'unico impegno ammissibile era la guerra: non si occupavano neppure dell'amministrazione delle loro terre e dei loro beni, che affidavano a persone di fiducia.

Agli altri rimaneva il compito delle attività produttive, in un arco che andava dall'agricoltura alla pastorizia, alla navigazione, all'edilizia, al commercio, alle professioni liberali (avvocato, medico), a mille altre.

Sino alla Pax romana i lavori più pesanti nelle miniere e nei campi furono riservati agli schiavi, ma al termine delle guerre di conquista, quando l'afflusso di schiavi a Roma calò sensibilmente, molti plebei dovettero improvvisarsi minatori e contadini.

Anche l'artigianato risentì della diminuzione di schiavi, così come del fatto che le province, in precedenza del tutto dipendenti da Roma per i beni superflui, incominciarono a produrli per proprio conto.

L'unica attività che per tutta l'età imperiale continuò a prosperare fu il commercio, agevolato dall'uso della moneta. La diffusione della moneta a Roma, benché tardiva rispetto ad altri Paesi (III secolo a.C.), era stata veloce e aveva prodotto una profonda trasformazione nella società: gli scambi divennero più frequenti e più facili, favorendo la costruzione di grandi ricchezze.

Tuttavia in età imperiale la minor disponibilità di metalli preziosi e l'aumento degli scambi causarono l'inflazione della moneta, con riduzione di peso e uso di metalli «poveri».

La moneta più diffusa era quella d'argento, detta denarius e fatta di 4 sesterzi, mentre 25 denarii facevano 1 aureus.

Divertirsi

Nei mille anni della storia di Roma, le abitudini si trasformarono radicalmente: dell'austerità che aveva caratterizzato l'età monarchica e i primi secoli della Repubblica, si perse anche il ricordo.

Inutilmente Augusto tentò di ripristinare le antiche usanze, e il senato emanò leggi che limitavano il lusso: in età imperiale un giorno su due era festivo, in quanto si accumulavano le ricorrenze religiose, gli anniversari delle vittorie romane, i compleanni dei consoli e così via. Si offrivano spettacoli gratuiti al pubblico (composto anche da persone potenzialmente aggressive e violente), per tenerlo tranquillo e in qualche modo occupato.

La giornata festiva trascorreva tra gli spettacoli e le terme.

Anticamente, a dimostrare la scarsa propensione dei Romani al divertimento, non esistevano edifici teatrali: le rappresentazioni si svolgevano su palcoscenici improvvisati e mobili, mentre gli spettatori stavano in piedi. Soltanto nel 55 a.C. Roma ebbe il suo primo teatro in pietra.

Più tardi vennero costruiti gli anfiteatri a pianta circolare: al centro c'era l'arena, intorno le gradinate per gli spettatori (il Colosseo conteneva 45.000 spettatori). A Roma come nelle province, nell'anfiteatro si svolgevano gli spettacoli del circo, che spaziavano dalle battaglie navali (con l'arena trasformata in lago), alle corse delle bighe e delle quadrighe, alla caccia agli animali feroci, alla lotta tra belve, ai combattimenti dei gladiatori.

I gladiatori, che erano per lo più prigionieri di guerra, organizzati militarmente con istruttori e allenatori, lottavano o tra loro o con le belve. Il duello era «all'ultimo sangue», e ben raramente l'imperatore risparmiava la vita al vinto. Si trasformava in spettacolo anche l'esecuzione della pena capitale: i condannati a morte venivano dati in pasto alle belve (così finirono anche molti martiri cristiani).

Gli spettacoli del circo erano offerti gratuitamente ai cittadini poveri dallo Stato, con uno spirito diverso da quello che caratterizzava l'analogo atteggiamento in Grecia: là si pensava che il teatro educasse il pubblico; qui si voleva comprarne il favore o comunque la docilità.

I Romani frequentavano regolarmente le terme, che, nate come bagni pubblici, si erano gradualmente trasformate in giganteschi luoghi di ritrovo (alcune accoglievano sino a 3000 persone). Uomini e donne, ricchi e poveri (l'ingresso era gratuito) vi trascorrevano molte ore: facevano il bagno nella piscina calda per passare poi a quella fredda o a quella tiepida; quindi passeggiavano nel giardino, leggevano in biblioteca, ammiravano le statue, conversavano, trattavano affari.

Imparare

A sei anni i figli dei plebei andavano a imparare un lavoro in una bottega artigiana, se vivevano in città (plebe urbana); nei campi, se abitavano in un villaggio (plebe rustica): essi costituivano più del 90% del numero complessivo dei bambini.

Gli altri, più fortunati, alla stessa età passavano dall'educazione materna a quella paterna. Tra i compiti del pater familias c'era quello di istruire i figli, cui provvedeva personalmente insegnando a leggere, scrivere e contare. Quindi li affidava a un maestro (il grammaticas), da cui i ragazzini apprendevano la lingua e la letteratura latina e greca, l'aritmetica, la geografia e l'astronomia: il metodo era molto severo e prevedeva schiaffi e frustate per i meno diligenti.

Verso i 18 anni gli studenti che volevano perfezionarsi andavano a scuola dal rhetor, un esperto di eloquenza: i più ricchi e ambiziosi frequentavano anche dei corsi superiori in Grecia. Infatti la cultura greca e quella ellenistica rimasero nel mondo romano modelli insuperati. Non solo gli intellettuali parlavano, leggevano e scrive vano con la stessa competenza il latino e il greco, ma anche i funzionari dello Stato erano perfettamente bilingui.

Il latino nell'alfabeto, nelle strutture grammaticali e nel lessico, ricalcava pienamente il greco.

Anche per quanto riguarda l'aritmetica il debito dei Romani nei confronti dei Greci fu molto alto: i numeri romani, che ancora oggi si usano per i numerali ordinali (per esempio nell'indicazione dei secoli) derivano dall'antico sistema di numerazione greco, e consistono in una combinazione di barrette e lettere.

Credere

Nella religiosità dei Romani si possono distinguere diverse fasi.

La più antica è quella in cui si attribuiva un'anima divina ai fenomeni della natura (la pioggia e il vento), agli elementi del paesaggio (la dea Collina proteggeva i colli, Vallonia le valli), alle attività principali come l'agricoltura: Saturno era il dio dei campi seminati.

Ai tempi della monarchia si adoravano divinità che si facevano risalire alla fondazione di Roma, tra cui Quirino, Giano e Vesta.

Quirino era, secondo la leggenda, la divinizzazione di Romolo, che dopo la morte era stato chiamato in cielo: i Romani costruirono un tempio e gli dedicarono il colle su cui sorgeva, il Quirinale.

Giano, detto «bifronte», era rappresentato con due volti opposti, uno che guarda davanti a sé, l'altro che guarda dietro, in quanto esperto nell'arte di vedere tanto il passato quanto il futuro. Dio guerriero, veniva adorato nel tempio sul colle Gianicolo (così detto in suo onore), le cui porte restavano chiuse solo in tempo di pace. Quanto a Vesta, anch'essa era una divinità arcaica, protettrice del focolare domestico e, per estensione, del fuoco simbolo di Roma, custodito da sei Vestali in un tempio rotondo, come le antiche capanne del Lazio. Se una Vestale lasciava spegnere il fuoco, veniva frustata; se contravveniva al divieto di sposarsi, veniva sepolta viva.

In epoca successiva, i Romani accolsero alcune divinità dai popoli con cui erano in contatto, in particolare gli Etruschi e i Greci. Da questi ultimi derivarono la figura di Zeus, che essi chiamavano Giove (in latino Iuppiter, cioè Iovis Pater = Padre Giove): padre di tutti gli dei era il re della luce, che lanciava i lampi e i tuoni. Giunone era l'equivalente di Era, Nettuno di Posidone, Marte di Ares, e così via.

Erano invece proprie dei Romani alcune divinità specifiche: i Lari, protettori della stirpe, i Penati, protettori della dispensa, e i Mani, gli spiriti dei defunti. Il culto di questi dei veniva celebrato in casa, davanti all'altare con le loro immagini, dal pater familias, che faceva le veci del sacerdote, mentre tutti gli altri riti si praticavano nei templi per mezzo dei sacrifici e delle offerte votive, allo scopo di ottenere la pax deorum, la benevolenza degli dei. La celebrazione dei culti pagani era affidata ai sacerdoti, che erano cittadini eletti a vita o per un periodo designato a seconda della carica. Il gruppo di sacerdoti più importante era quello dei pontefici, che controllavano la correttezza delle cerimonie e stabilivano il calendario delle feste religiose.

Ben diversi dai riti pagani, che si risolvevano in un adempimento formale, erano quelli cristiani, i quali rispondevano a un'esigenza spirituale del tutto assente nella religione romana. Si diventava cristiani per mezzo del battesimo, che significava una scelta definitiva, un cambiamento radicale: da quel momento, attraverso un culto prestabilito, il battezzato diveniva testimone di Cristo.