Viterbo


Viterbo si adagia su un'altitudine media di 350 metri, dove il declivio settentrionale dei Monti Cimini scende dolcemente verso la vasta pianura che lentamente digrada, ad occidente, verso il mare e lentamente risale, a nord, verso i monti Volsinii e, ad oriente, verso i monti della Sabina al di là della valle del Tevere.

Tutta la zona, che fu, un tempo, il centro meridionale dell'Etruria e ne conservò per lungo tempo il nome di Tuscia, è disseminata di resti delle civiltà etrusca e romana che si sono succedute e sovrapposte lasciando nelle necropoli e nelle strade, nei ponti e nelle rovine delle terme (Aquae Passeris), dei teatri(Sutri, Ferento), delle ville(Calvisiana,Varroniana), le loro tracce indelebili e basta, per rendersene conto, ricordare i nomi di Tarquinia e Vulci e Cerveteri e Veio e Faleri e Sutri e Norchia e Musarna e Castel d'Asso e Ferento e tante altre località minori in cui ogni colpo di vanga e ogni scasso d'aratro restituiscono al sole suppellettili funebri delle tombe non ancora violate dagli esploratori ed esportatori clandestini.

Per quel che riguarda l'origine della città nonsi può affermare con certezza una data precisa. Certo sul colle del Duomo, che ne è stato il primo nucleo, restano tracce evidenti di un ponte e di un'acropoli etrusca su cui sorge poi un castrum romano con un tempio di Ercole che, quando il luogo diventò una cittadella di Desiderio, l'ultimo re dei Longobardi, fu trasformato in chiesa cristiana dedicata a S.Lorenzo.

Ma tutto il territorio era, sin dai tempi più antichi, sparso di vichi etruschi e di pagi romani, piccoli aggruppamenti di case coloniche attorno a qualche fortilizio che poi, in epoca feudale, i signori, grandi e piccoli, trasormarono in castelli, quasi tutti distrutti nelle loro continue contese.

Le memorie antiche risalgono al VII e VIII secolo ma accennano solo a località isolate; tra il X e l'XI secolo sorgono già quasi tutte le principali chiese che danno il nome ai borghi che oggi corrispondono ai vari quartieri della città.

Finalmente, nel XII secolo, si compi la saldatura tra quei borghi e il colle del Duomo, e il nuovo centro urbano, erettosi a Comune tra il 1090 e il 1095, ottiene, con un diploma di Federico I Barbarossa, nel 1167, il titolo di città col diritto di fregiare il suo stemma (il leone) dell'asta sormontata dall'aquila imperiale, e nel 1192 il papa Celestino III eleva la città a diocesi comprendente Tuscania, Bieda e Civitavecchia.

Compiuta la sua ascesa, nei promi anni del 1200, la città si chiude nella cerchia merlata e turrita delle sue mura che ancora la cingono di un anello ininterrotto.

Il secolo XIII vede Viterbo già signora di un vasto territorio che va dal lago di Bolsena a quello di Vico, dal mare di Montalto e di Corneto alla Valle del Tevere. È il secolo della sua più fervida vita in cui si può dire che, all'infuori del ventennio 1264-1282 in cui fu ininterrottamente sede del Papato, non conobbe mai pace sia per le lotte interne tra il

partito guelfo, capeggiato dai Gatti e dagli Alessandri, e il partito ghibellino, capeggiato dai Tignosi e dai Cocco, sia per le lotte esterne contro la sua eterna rivale Roma.

Quel secolo, in cui la città sostenne, tra vittorie e sconfitte, le prove più dure, è certamente, per Viterbo, il secolo eroico della sua storia perchè, fino al 1266, finchè durò la suprema lotta tra il Papato e l'impero; cioè fino a che non cadde definitivamente, con la morte di Manfredi, la potenza della Casa di Svevia, la città si trovò coinvolta in quella lotta subendone tutte le alternative e, contesa da una parte e dall'altra, tra sottomissioni forzate (ma compensate co larghi privilegi da Federico I, da Arrigo VI e da Federico II ) ed eroiche rivolte, riuscì a salvare ed accrescere la sua libertà infliggendo, nel 1243, una memorabile sconfitta a Federico II e, dal 1264 al 1282, finchè fu stabile dimora dei Papi, conobbe uno splendore e una prosperità che non doveva raggiungere mai più.

Però, col trasferimento, nel 1305, della Curia Papale ad Avignone, non solo declina e a poco a poco si eclissa quello splendore, ma rialzano la testa i baroni romani non più frenati dall'autorità della Chiesa e impuniti nelle loro ruberie e nelle loro prepotenze.

Viterbo dura sempre più fatica a difendere il suo territorio e i suoi possedimenti dalle loro incursioni, a cui si aggiungono, per tutto il 1300 e parte del 1400, le continue scorrerie delle milizie mercenarie al servizio di chiunque le ingaggi, città e signori, a sostegno della Chiesa o del Regno di Napoli, al comando di Braccio da Montone e di Attendolo Sforza, di Tartaglia, degli Orsini e di Ladislao, e, se cambiano padrone esse non cambiano metodo di requisizioni e di saccheggi, con quale vantaggio per la sicurezza, la pace, l'agricoltura e l'economia che è facile immaginare.

Infine, quando la Chiesa riesce a ristabilire il suo effettivo dominio su tutto quello che era il suo Stato, Viterbo rimane, sì, il capoluogo della provincia chiamata il Patrimonio di S.Pietro ma non conosce più che una vita provinciale, senza grandi scosse ma senza ampio respiro, e gli avvenimenti più importanti saranno i passaggi, sempre frequenti, di sovrani, di imperatori, di papi, che per qualche giorno galvanizzeranno la sua quiete, la sua tranquilla e modesta vita di agricoltori tenaci e di industri artigiani.

Tuttavia la città rimase il centro di tutti gli interessi economici e di tutte le attività commerciali della vasta regione che va dalla maremma ai Cimini e venne gradatamente acquistando importanza fino al 1927 quando finalmente riassunse il perduto rango di capoluogo di una delle più vaste province.

Il rapido sviluppo che da quell'anno contrassegnò la sua vita parve per un momento annientato dall'indiscriminato bombardamento che la ridusse un cumulo di macerie ma da quella rovina è rapidamente risorta con una rinata e quasi insospettata vitalità, che l'ha raddoppiata nella sua estenzione edilizia e potenziata nelle sue iniziative commerciali e industriali.

Visita della città

La Rocca fu eretta nel 1354 dal Card. Egidio d'Albornoz, mandato in Italia da Clemente VI a risottomettere lo Stato della Chiesa che si era quasi tutto sottratto al dominio papale durante la cattività avignonese. Nel 1357, in una delle tante ribellioni di quell'epoca, la rocca fu distrutta ma fu riedificata nel 1395 ad opera di Bonifacio IX.

I numerosi stemmi papali ancora esistenti testimoniano le vicende dell'edificio che fu, durante i secoli, temporanea dimora di Urbano V, di Pio II, di Giulio II, di Leone X, di Clemente VII nelle loro soste a Viterbo. Nel 1523 Clemente VII concesse la Rocca ai Cavalieri Gerosolimitani che da Solimano erano stati cacciati da Rodi e che rimasero a Viterbo fino al 1527, quando Carlo V concesse loro l'isola di Malta. Nel 1738 la Rocca fu destinata ad ospitare il primo brefotrofio istituito nello Stato della Chiesa e finalmente, nel 1860, divenne quartiere delle milizie pontificie e, dieci anni dopo, di quelle italiane. Tutte queste vicende hanno assai alterato la primitiva fortezza, colmato i fossati, distrutto il ponte levatoio, ecc..

I bombardamenti aerei del 1944 l'hanno ancora più rovinata si che della costruzione originaria si può dire che resti poco più del corpo centrale e della torre d'angolo a fianco della porta Fiorentina.

La basilica di S.Francesco sorge sul posto, che fu, in origine, un colle isolato fuori della prima cerchia di mura urbiche, dove sin dai primi del Mille sorgeva un fortilizio longobardo detto Castello di Sonza. Verso la metà del secolo XII, insieme con il terreno circostante, fu acquistato dai canonici di S.Angelo e si chiamò Castel S.Angelo, demolito poi nel 1208 per costruirvi un palazzo che fu detto degli Alemanni, forse perchè destinato ad uso degli imperatori tedeschi che talvolta vi furono ospitati. Vi soggiornarono anche papi, come Alessandro IV , e perfino un antipapa, quel Nicolò V creato da Ludovico il Bavaro nel 1328.

Il palazzo doveva sorgere, probabilmente, dov'è ora la caserma Bazzichelli, sede del Comando del presidio e del Distretto militare. La restante area fu acquistata, nel 1236, da Gregorio IX (Il canonizzatore, come papa, di S.Francesco) e donata ai frati minori perchè vi costruissero la chiesa dedicata al Santo.

La chiesa è una delle più grandi e delle più belle, la prima in cui lo stile gotico si sostituisce a quello lombardo, di cui resta un ricordo nel portale che del nuovo stile segue già la linea e il gusto ma non ancora la finezza dell'esecuzione. L'interno è ad una sola navata, un largo transetto e una grande abside quadrata come le chiese coeve, fiorentine e senesi, specialmente dell'Ordine francescano, e ai quattro angoli del transetto dai fasci polistili di alte ed esili colonnine si innalzano a sesto acuto i costoloni a congiungersi, al centro della croci&egravera, nella volta. Lungo le pareti della navata, a distanza regolare, sottili semicolonne ne interrompono la lunghezza e prendono da esse lo slancio le alte ogive che sorregono il tetto.

La chiesa di S.Rosa si presenta con una facciata non bella, troppo severa e tetra e disarmonica, più larga che alta, tutta in pietra a taglio, ornata solo da sei piatte lesene a capitello ionico e con un timpano pesante che l'appiattisce ancora più.

Era, in origine, una chiesuola francescana dedicata a S.Damiano, delle suore Clarisse, e fu intitolata a S.Rosa dopo che il papa Alessandro IV, il 4 settembre 1258, vi trasportò solennemente il corpo della Santa che da sei anni riposava nella chiesa di S.Maria in poggio. Nel 1843 il card. Gaspare Bernardo Pianetti vescovo di Viterbo, a sue spese, demolita la chiesa, la ricostruì a croce greca con quella infelice facciata che ora stona ancora di più con l'agile cupola che sormonta la chiesa da quando, tra la prima e la seconda guerra mondiale, un comitato cittadino, promosso e presieduto dall'allora vicario vescovile mons. Enrico Salvadori, si propose di ingrandirla e trasformarla.

Ma nonostante il bel progetto dell'arch. Arnaldo Foschini, vincitore del concorso, inpreviste difficoltà dovute alla necessità di dover eseguire radicali lavori di rafforzamento dei piloni per sorreggere la cupola, assorbì tutto il capitale per l'intero restauro il quale così rimase interrotto e limitato alla sola cupola.

La prima cosa che attira gli sguardi è la fontana nel centro della piazza. Fu costruita, in sostituzione di un'altra più antica, nel 1621 su disegno del viterbese Filippo Caparozzi, ma subì ulteriori restauri nel 1877, l'anno in cui lo scultore viterbese Pio Fedi (l'autore del bellissimo gruppo statuario del ratto di Polissena, che è sotto la Loggia dei Lanzi, in piazza della Signoria a Firenze) l'arricchì dei quattro leoni marmorei che, insieme al fusto di palma che sorregge la vasca più alta, rappresentano lo stemma della città.

Piazza del Plebiscito fu creata nel 1264, demolendo un palazzo dei Tignosi e altre case appartenenti alla vicina chiesa di S.Angelo per ospitare degnamente le massime autorità del Comune (i Priori e il Podestà). Originariamente il Palazzo dei Priori era quello attualmente occupato dalla Prefettura, che ha perso l'aspetto medievale perchè ricostruito nel 1779.

Ai primi del sec. XVI i Priori furono costretti ad abbandonarlo per dare degna sede al governatore della Provincia del Patrimonio di S.Pietro. Risale,infatti, soltanto alla fine del quattrocento l'attuale Palazzo dei Priori, sotto i cui portici si aprivano il Monte di Pietà e altri uffici comunali. Un imponente stemma di papa Sisto IV Della Rovere campeggia sulla facciata.

Piazza Fontana Grande prende il nome appunto dalla caratteristica fontana che ne è il principale ornamento. È l'ultima, in ordine di tempo, delle fontane viterbesi del Duecento, creata nel 1279 al posto di una più antica, e ha abbandonato completamente il tipo di fontana a fuso, che è quello di tutte le altre, per sostituirlo con una forma interamente nuova.
Dal centro della vasca cruciforme si leva una colonna il cui capitello sorregge un pulvino ottagonale sul quale s'innesta una seconda vasca quadrilobata, dal centro di questa una seconda colonna leva piÙ in alto una terza vasca più piccola simile alla seconda, e da questa s'innalza un pinnacolo gotico. Sul fusto della colonna centrale, da quattro teste di leone partono quattro docce sormontate da quattro castelletti a forma piramidale.

Al posto dell'antica porta a fianco del campanile nel 1653 fu aperta l'attuale per l'ingresso solenne di Innocenzo X giunto a Viterbo per visitare donna Olimpia Maidalchini, vedova Nini, che aveva sposato il fratello del papa. Nel 1705 la porta fu decorata dell'attuale fronte sormontato dalla statua di S.Rosa, fronte che mostra ancora le contusioni degli obici di Kellerman che nel 1798 venne a punire la ribellione dei viterbesi contro le soperchierie giacobine.

Santa Maria Nuova, In puro stile romanico, con le pareti in pietra a faccia vista, come quelle di S.Sisto e di S.Giovanni in Zoccoli, divisa in tre navate da dodici colonne monolitiche con bellissimi capitelli, con una piccola cripta. Il tetto è a capriate.

Sopra la porta di ingresso è incassata una testa, che ha tutta l'apparenza di un Giove ribattezzato in Cristo, sull'angolo vi è un pulpito, sempre in pietra peperino, da cui, nell'anno 1266, predicò S.Tommaso d'Aquino.

Il Palazzo Papale fu fatto costruire nel 1266 da Raniero Gatti, capitano del popolo, ed ha, nella possanza della sua mole merlata, la maestà d'una reggia, e, insieme, d'una fortezza, anche per il profondo fossato che lo circonda e sul quale, come su di un ponte levatoio, s'incurva il grande arco che sostiene la scalea.
L'austerità delle nude pareti s'addolcisce con la grazzia leggiadra delle bellissime bifore che mettono come un sorriso su quel volto severo.
A fianco la Loggia Papale, costruita l'anno successivo affinchè i Pontefici potessero di lì benedire la folla nelle cerimonie solenni.
È la prima ardita affermazione di un gotico ancora romanamente frenato perchè l'intreccio delle ogive, che si leva sugli esili steli delle colonnine binate come una fioritura di gigli, risulta dall'intreccio dell'arco a tutto sesto che abbraccia a due a due le coppie di colonnine, e il poderoso arco, che sorregge la loggia e la pesante cornice che la corona, mantengono immutato il carattere duecentesco della costruzione.
Il Palazzo Papale è stato testimone di molti coclavi con l'elezione di papa Gregorio X, Adriano V, Giovanni XXI, il francese Martino IV appoggiato da Carlo d'Angiò del quale Dante dice di lui, nel Purgatorio, che purga per digiuno - le anguille di Bolsena e la vernaccia.
Termina così nel 1282 la dimora dei Papi in Viterbo, e termina con il definitivo abbandono di Viterbo come sede e col trasferimento del Papato ad Avignone.

La cattedrale, dedicata a S.Lorenzo, si presenta con una facciata completamente in contrasto con l'interno. Fu sostituita all'antica, di cui resta soltanto un rosone a destra, dal Card. Giovanni Francesco Gambara, vescovo di Viterbo, nel 1570.

È una facciata insignificante, il cui unico carattere è il tono caldo assunto dal peperino.
L'interno ha subito nei secoli profonde trasformazioni. Nel 1560 fu demolita l'abside centrale e raddoppiata la lunghezza del tempio con la costruzione del coro dei canonici, e poco dopo si aprirono le dieci cappelle laterali (richiuse nel restauro di questultimo dopoguerra).
Nel 1681 il vescovo Stefano Brancaccio coprì il tetto a capriata con una volta, fatta affrescare dal viterbese Urbano Romanelli, figlio del più famoso Giovan Francesco, con il Martirio di S.Lorenzo. L'interno è diviso in tre navate, scandite da venti colonne monolitiche con armoniosi capitelli.

La Macchina di Santa Rosa

Secoli di storia e di tradizione. Il passaggio della Macchina di Santa Rosa che, anno dopo anno si rinnova, trasporta il passato nel presente e viceversa.
La città si impregna di viterbesità e il sacro si miscela al profano, la venerazione per la Santa patrona con la tradizione della Macchina e dei Facchini, in un'atmosfera irripetibile.

Ogni anno il 3 settembre, Viterbo si sveglia diversa da tutti gli altri giorni dell'anno: prevalgono il sapore di questa terra, la consapevolezza d'essere non spettatori ma protagonisti di un evento che si rinnova.

Il primo trasporto del corpo della Santa si presume sia avvenuto nel XIII° secolo, trasporto al quale partecipò il papa Alessandro IV, che seguiva il baldacchino con il feretro portato a spalla da quattro cardinali.

Questa manifestazione segnò per la prima volta il passagio della Santa per le vie della sua Viterbo, e ciò si ripete ogni anno, con qualche rara eccezione. Il corpo della Santa è tutt'ora miracolosamente incorrotto ed è custodito in un'urna, all'interno della Chiesa a lei dedicata.

Negli anni che seguirono il primo trasporto, non fu più portato in processione il corpo della Santa, ma una sua immagine disposta su un baldacchino ornato di fiori e di luci che andò via via aumentando d'imponenza fino a raggiungere le attuali dimensioni della macchina.

Il passaggio attraverso le strade della città, venne assumendo nel tempo una connotazione eminentemente religiosa, preceduto com'era da una processione a cui partecipava il popolo e tutto il Clero viterbese.

Questo fino al 1801 quando le autorità pontificie soppressero la manifestazione a causa di un incidente nel quale persero la vita diverse persone. Era avvenuto che la fuga e l'inseguimento rumoroso di un ladruncolo, scoperto nelle sue malefatte, facesse imbizzarrire i cavalli dei gendarmi di scorta alla processione coinvolgendo i fedeli più vicini nel parapiglia venutosi a creare.
Per preciso volere del popolo viterbese la tradizione fu però ben presto ripresa, anche se anticipata di un giorno rispetto al giorno dedicato alla Santa, assumendo forse un tono meno religioso e più folcloristico, ma mantenendo tuttavia tutto intero il significato originale della testimonianza di fede.

I Facchini di Santa Rosa

Per un giorno all'anno, Viterbo subisce una vera e propria metamorfosi trasformandosi, da quella cittadina calma e sonnolenta qual'è, in uno sconvolgente polo attrattivo per il rinnovarsi del Patto d'Amore tra la città e la sua Patrona che culmina con il passaggio attraverso le vie del centro della Macchina di S. Rosa.

L'imponente struttura, che attraversa le strette vie cittadine, rese buie ed illuminate solo dalla luce che emana la macchina, è portata a spalla da circa cento uomini che si qualificano Facchini.

Per un viterbese, l'essere Facchino è motivo di orgoglio e testimonianza di diretta partecipazione alle tradizioni ed alle radici storiche della sua terra.

È difficilmente separabile la componente religiosa, in senso stretto, dalla specifica devozione alla Santa patrona della città alla quale il Facchino rende omaggio con sofferente testimonianza di fatica e di fede.

Molto spesso si è Facchini per tradizione familiare, tramandata attraverso legami di parentela, spesso da padre in figlio, tutti uniti da un invisibile filo di amore, di forza, di risolutezza, di disciplina, che supera le condizioni sociali e culturali di ciascuno. E sono queste le condizioni per partecipare al trasporto e quindi al Sodalizio.

La ritualità dell'ammissione si ripete secondo regole ben precise. Nel mese di giugno -luglio di ogni anno, i numerosi aspiranti, vecchi e nuovi, vengono sottoposti alla prova di portata che consiste nel percorrere per tre volte un tratto di circa 80 metri portando sulle spalle un peso complessivo di 150 Kg.
A seconda dell'esito della prova, eseguita sotto il controllo di una commissione di Facchini, l'aspirante viene inserito o meno nella formazione del trasporto del settembre successivo.

Portare a spasso un peso di 150 Kg. non è cosa di tutti i giorni, ma il rilevante sforzo a cui si sottopone l'aspirante Facchino nel corso della prova, è imposto da condizioni di carico che potrebbero verificarsi durante il trasportodella macchina. Il rigore e la cura nella scelta dei Facchini sono quanto mai necessari se si tiene conto che un leggero squilibrio, una variazione di pendenza della strada di cui non si sia tenuto conto, un attimo di incertezza nell'incedere, possono provocare repentini spostamenti del peso da un punto all'altro della base della macchina provocando led cosiddette accollate che, anche se per pochi passi, raggiungono tranquillamente i valori della prova.

Non tutti quelli che hanno superato la prova partecipano però la trasporto della macchina. La formazione viene decisa dal Direttivo del Sodalizio dopo un attento della prestazione nel corso della prova ed anche in relazione dell'altezza del soggetto.

L'altezza dei Facchini è un fattore molto importante per l'equilibrio della macchina perchè, a seconda del tratto di percorso, deve compensare i dislivelli e assicurarne, con la verticalità, la costante distribuzione dei pesi.

Come già accennato, la macchina è una struttura composta di vari materiali che assume di volta in volta forme ed ornamenti differenti.

Ogni cinque anni l'Amministrazione comunale bandisce un concorso aperto a tutti per la scelta della nuova macchina. Il bozzetto prescelto viene premiato con un compenso tale da consentire al vincitore, che da quel momento diventa appaltatore, la realizzazione della struttura proposta.