La Flora nei Parchi Nazionali

Acero (Acer campestre, Acer pseudoplatanus)

L'acero, presente in Italia soprattutto nelle varietà campestre e montano, è diffuso in un'area che va dall'Europa centromeridionale al Caucaso, fino a raggiungere il nord dell'Inghilterra e della Scandinavia nel caso dell'acero campestre. L'acero campestre è assai frequente nei boschi di latifoglie e cresce fino ai 1200m di altitudine. Si insedia preferibilmente in posizioni soleggiate e su terreni freschi, evitando sia i terreni troppo umidi che quelli troppo aridi. Il tronco è contorto, spesso con portamento arbustivo, e non supera di norma i 10-15 metri di altezza, la chioma è leggera e poco ombreggiante. Le foglie assumono una splendida colorazione giallo intenso nel periodo autunnale. Essendo una specie che cresce lentamente viene utilizzata come pianta ornamentale per la creazione di siepi. Il legno viene invece impiegato per la costruzione di manici di attrezzi e come combustibile. L'acero montano vive quasi esclusivamente nei boschi settentrionali collinari e montani, fino ai 1800 metri di altitudine. Si tratta di una pianta ad accrescimento rapido che predilige i terreni freschi e umidi e può raggiungere i 25-30 metri di altezza. Si trova di frequente nei boschi di abete bianco e rosso e in quelli di faggio. Il legno, di color bianco avorio venato di bruno, è pregiato e resistente e viene utilizzato per la costruzione di mobili, manici di attrezzi, utensili da cucina e strumenti musicali.

Faggio

Sono grandi alberi dal fusto grigiastro. La loro forma può essere molto diversa: alti e colonnari nelle vecchie fustaie, massicci e nodosi negli esemplari isolati, bassi e fitti nei boschi cedui. L'ambiente d'elezione del faggio è quello dal clima che gli ecologi chiamano "atlantico", con inverni relativamente brevi e estati fresche e piovose. Sulle Alpi il faggio è presente solo in alcune valli, al di sotto della fascia delle conifere. Sugli Appennini si incontra in genere tra i 1000 e i 1800 metri di altitudine, ma dove le condizioni locali lo permettono, anche a quote più basse, come sui Monti Cimini dell'alto Lazio. Un tempo, sui versanti appenninici, il faggio era accompagnato dall'abete bianco. A partire dall'epoca romana, l'abete bianco è stato molto ricercato per le grandi costruzioni edilizie e navali, ed è oggi quasi completamente scomparso dalle nostre montagne, lasciando anche il suo posto al faggio. Secondo i botanici, la storia del faggio ebbe inizio molti milioni di anni fa addirittura in Giappone, da dove raggiunse l'Europa occidentale passando per l'Asia centrale, il Caucaso e l'Asia minore. Qui trovò alberi come il tasso e l'agrifoglio. A ogni glaciazione il faggio scomparve, o quasi, dall'Italia per tornare ogni volta che il clima ridivenne favorevole. Così avvenne anche 10.000 anni fa, al termine dell'ultima glaciazione.

Pino mugo

Oltre i 1800 metri di quota sulla Maiella non c'è più posto per gli alberi. Dove il vento e il gelo non permettono più la sopravvivenza dei faggi, hanno inizio le boscaglie di arbusti prostrati, l'ultima frontiera della vegetazione che sale fino ai 2200 metri circa. Qui si incontrano ginepro comune, rododendro, uva ursina. Ma il vero protagonista è il pino mugo che negli Appennini è sopravvissuto soltanto sulla Maiella e nel parco nazionale d'Abruzzo, dopo la fine dell'era glaciale. Resistentissimo al freddo, si accontenta di poca acqua e di poca terra ed è capace di mettere radici persino sulle pietraie che rimangono coperte di neve per molti mesi all'anno. I rami del pino mugo crescono infatti dapprima in senso orizzontale, poi verso l'alto, ma non superano mai i 2 - 3 metri di altezza. Questo portamento prostrato non è dovuto all'azione del vento o al peso della neve, ma è un carattere proprio della specie. Il risultato è una boscaglia fitta e contorta, quasi impenetrabile all'escursionista ma adattissima a trattenere la neve, e per questo preziosa per la protezione della montagna dalle valanghe. Il pino mugo si riconosce, oltre che per il portamento basso, per gli aghi robusti, leggermente ricurvi e riuniti in fascetti di due, più raramente di tre, e per le pigne, lunghe da 3 a 5 cm e prive di picciolo. Dal suo legno, che per la sua elasticità veniva un tempo impiegato per cerchiare le botti, si ricava il mugolio, una sostanza balsamica impiegata nelle infiammazioni delle vie respiratorie.

Abete rosso

Le più grandi e suggestive abetine delle Alpi, tra gli 800 e i 1800 metri di altitudine, sono costituite quasi esclusivamente da abeti rossi. Conosciuto anche come peccio, l'abete rosso è notissimo anche molto lontano dal suo ambiente abituale perchè altro non è che l'albero di Natale, erede di una tradizione antichissima dei popoli scandinavi, legata al ritorno della luce dopo il solstizio d'inverno. Il portamento di quest'albero può variare a seconda della latitudine e della quota alla quale vive. Gli individui isolati hanno in genere una chioma espansa. Nelle vallate alpine invece, dove forma foreste densissime, è tipicamente colonnare e molti esemplari possono raggiungere i trenta metri di altezza. L'abete rosso deve il suo nome alla corteccia di colore rosso-bruno. Gli aghi invece sono verde scuro, e pendono all'ingiù dai rami sottili che si dipartono dai rami primari. Si riconosce facilmente anche per la pigna (che i botanici chiamano più propriamente "cono"), allungata e pendente anch'essa all'ingiù. Resistente al freddo invernale e ai geli primaverili, l'abete rosso evita invece gli ambienti troppo umidi e quelli in cui le temperature estive sono troppo alte. Per questo, in Italia, è diffuso nelle valli alpine e discende gli Appennini solo fino alla Toscana. Rispetto ad altre conifere, l'abete rosso è sempre stato favorito dall'uomo sia per la qualità del suo legno, che per la sua maggiore produttività. Particolarmente famose sono le abetine del Cadore, nelle Dolomiti, che nei secoli d'oro della Repubblica di Venezia contribuirono non poco alle costruzioni navali e dunque alla fortuna della Serenissima.

Da non confondere con l’ Abete bianco che, nell'aspetto generale, potrebbe ricordare l'abete rosso, ma ad un esame più attento permette di distinguerlo con sicurezza. La corteccia del tronco è grigio bruno chiaro, le gemme sono prive di resina, i rametti che portano gli aghi sono rivestiti di peli corti e radi, e i coni (le "pigne"), lunghi da dieci a diciotto centimetri, anziché essere penduli sono rivolti verso l'alto come candelabri. I coni, inoltre, non cadono, ma restano sul ramo dove si sgretolano squama per squama.

Le grandi foreste pure di abete bianco che si incontrano oggi a Camaldoli o all'Abetone non sono spontanee, ma sono state piantate dall'uomo. Sugli Appennini, infatti, l'abete bianco cresce insieme al faggio, alle quote più basse di diffusione di quest'albero. oggi ne sopravvivono solo pochi esemplari sul monte Cimone, sull'Amiata, sul Gran Sasso, sui monti della Laga e in Calabria sul Pollino e in Aspromonte. Nell'antichità era invece diffusissimo, come ci ricordano molti scrittori latini, tra cui Virgilio. A determinarne la scomparsa è stata la mano dell'uomo. I lunghi tronchi dell'abete bianco sono state ricercati per secoli per le grandi costruzioni edili e per farne alberi per le navi. Le flotte romane e poi delle repubbliche marinare, i palazzi e le cattedrali dell'Italia medioevale e rinascimentale

Stella alpina (Leontopodium alpinum, Leontopodium nivalis)

La nostra stella alpina, forse il più noto tra i fiori di montagna, cresce oltre che sulle Alpi e sul vicino Appennino Ligure, su molte delle catene montuose più elevate d'Europa. E' un fiore tipico delle alte quote, di solito fra i 1700 e i 3400 metri di altitudine, ma può scendere anche più in basso come nelle Prealpi Friulane dove si spinge a soli 350 metri di altezza. Specie molto simili sono diffuse dagli altipiani desertici dell'Asia fino alle steppe siberiane, dalle alte quote himalayane, dove raggiunge i 5400 metri, fino ad altitudini molto inferiori e territori del tutto pianeggianti. Se osserviamo da vicino la stella alpina - in tedesco edelweiss, sinonimo di purezza e nobiltà - vediamo che Þ alta circa trenta centimetri e che Þ dotata in media di 5-8 fiori gialli raccolti a capolino, circondati da una serie di foglie bianche (brattee), comunemente scambiate per petali, ricoperte di un denso strato di peli. Diversamente da quanto si potrebbe credere, il pelo che ricopre le brattee non serve a difendere il fiore dal freddo ma a ridurre la disidratazione e come protezione dalle radiazioni ultraviolette. Una specie affine alla stella alpina propriamente detta (L. alpinum) Þ la stella alpina appenninica (L. nivalis), vero relitto dei tempi della glaciazione, presente sulle cime più alte dell'appennino centrale: Sibillini, Gran Sasso e Monti della Laga, Maiella. Si distingue facilmente per il portamento nano e per le brattee che sono più larghe e corte e coperte da una peluria più abbondante. Entrambe le specie sono minacciate, oltre che dal pascolo eccessivo, dalla eccessiva raccolta per il mercato dei souvenir. Nei secoli scorsi, invece, la stella alpina, vero e proprio simbolo delle Alpi, veniva utilizzata come cura per la rabbia e la dissenteria, e bruciata affinché i fumenti da essa prodotti allontanassero il malocchio.