Gabriele D'Annunzio
Alcyone

Libro Terzo delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI

Il terzo libro, Alcyone, fu pubblicato assieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del D'Annunzio poeta (La pioggia nel pineto, La sera fiesolana, Stabat nuda Aestas, I pastori, Meriggio, Le stirpi canore, La tenzone e vari "ditirambi").

Esso è un unico e vasto poema solare, che raffigura l'estate trascorsa dal poeta con la compagna Ermione (Eleonora Duse) sulla costa della Versilia.

In essa il superuomo si fonde totalmente con la natura, divenendone parte ("panismo dannunziano").

La tregua

Dèspota, andammo e combattemmo, sempre

fedeli al tuo comandamento. Vedi

che l'armi e i polsi eran di buone tempre.

O magnanimo Dèspota, concedi

al buon combattitor l'ombra del lauro,

ch'ei senta l'erba sotto i nudi piedi,

ch'ei consacri il suo bel cavallo sauro

alla forza dei Fiumi e in su l'aurora

ei conosca la gioia del Centauro.

O Dèspota, ei sarà giovine ancóra!

Dàgli le rive i boschi i prati i monti

i cieli, ed ei sarà giovine ancóra

Deterso d'ogni umano lezzo in fonti

gelidi, ei chiederà per la sua festa

sol l'anello degli ultimi orizzonti

I vènti e i raggi tesseran la vesta

nova, e la carne scevra d'ogni male

éntrovi balzerà leggera e presta.

Tu 'l sai: per t'obbedire, o Trionfale,

sì lungamente fummo a oste, franchi

e duri; né il cor disse mai «Che vale?»

disperato di vincere; né stanchi

mai apparimmo, né mai tristi o incerti,

ché il tuo volere ci fasciava i fianchi.

O Maestro, tu 'l sai: fu per piacerti.

Ma greve era l'umano lezzo ed era

vile talor come di mandre inerti;

e la turba faceva una Chimera

opaca e obesa che putiva forte

sì che stretta era all'afa la gorgiera.

Gli aspetti della Vita e della Morte

invano balenavan sul carname

folto, e gli enimmi dell'oscura sorte.

Non era pane a quella bassa fame

la bellezza terribile; onde il tardo

bruto mugghiava irato sul suo strame.

Pur, lieta maraviglia, se alcun dardo

tutt'oro gli giungea diritto insino

ai precordii, oh il suo fremito gagliardo!

E tu dicevi in noi: «Quel ch'è divino

si sveglierà nel faticoso mostro.

Bàttigli in fronte il novo suo destino».

E noi perseverammo, col cuor nostro

ardente, per piacerti, o Imperatore;

e su noi non potè ugna né rostro.

Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardore

la vena inestinguibile e gioconda

del riso, che sonò come clangore.

E ad ogni ingiuria della bestia immonda

scaturiva più vivido e più schietto

tal cristallo dall'anima profonda.

Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto,

sfamato con le miche del convito,

lungi rauco latrava il suo dispetto;

e l'obliqio lenone, imputridito

nel vizio suo, dal lubrico angiporto

con abominio ci segnava a dito.

O Dèspota, tu dài questo conforto

al cuor possente, cui l'oltraggio è lode

e assillo di virtù ricever torto.

Ei nella solitudine si gode

sentendo sé come inesausto fonte

Dedica l'opre al Tempo; e ciò non ode.

Ammonisti l'alunno: «Se hai man pronte,

non iscegliere i vermini nel fimo

ma strozza i serpi di Laocoonte».

Ed ei seguì l'ammonimento primo;

restò fedele ai tuoi comandamenti;

fiso fu ne' tuoi segni a sommo e ad imo.

Dèspota, or tu concedigli che allenti

il nervo ed abbandoni gli ebri spirti

alle voraci melodìe dei vènti!

Assai si travagliò per obbedirti.

Scorse gli Eroi su i prati d'asfodelo.

Or ode i Fauni ridere tra i mirti.

l'Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo.