Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

I discorsi si dividono in tre libri di complessivi 142 capitoli: 60 il primo libro, 33 il secondo e 49 il terzo; i primi due libri sono introdotti da un proemio che ne illustra il tema.

L’opera è dedicata a Zanobi Buondelmonte e Cosimo Rucellai.

Tre sono i grandi argomenti affrontati dal Machiavelli nell’opera, corrispondenti a ciascun libro: la nascita e l’ordinamento dello stato, le sue espansioni territoriali, la conservazione del potere.

Postillando puntualmente la Storia di Roma di Tito Livio, in particolare, come si desume dal titolo stesso, i primi dieci libri, ma attingendo anche da altri superstiti, il Machiavelli espone le proprie convinzioni storiche e politiche, ispirate dall’ammirazione e fondate sull’imitazione degli antichi, al cui vertice assoluto si situa l’esperienza di Roma repubblicana.

Lo scrittore esamina i passi più significativi della storia liviana e li rende funzionali allo svolgimento del proprio pensiero, confrontandoli frequentemente con fatti della storia contemporanea.

Roma repubblicana è l’esempio concreto e ideale cui deve tendere l’ordinamento civile di ogni stato, sia esso principato, governo di ottimati o governo popolare, forma per la quale il segretario fiorentino nutre la maggiore simpatia.

Ogni stato deve riservare la giusta parte di potere ad ognuna delle componenti di cui è costituito: è quindi preferibile la legislazione spartana di Licurgo, che divide equamente il potere tra re, ottimati e popolo, a quella ateniese di Solone, che privilegiando il popolo aprì la strada alla tirannide di Pisistrato; a Roma, i contrasti tra patrizi e plebei, pervenuti alla spartizione del potere, sancita dall’elezione dei tribuni della plebe, hanno conferito solidità alla repubblica, rendendola più libera e potente.

Lo stato, e quindi la legge che ne garantisce la vita e la giustizia, è il bene principale degli uomini; per il bene dello stato Manlio Torquato uccise il figlio che aveva trasgredito la disciplina militare; per la difesa e la salvezza della patria è consentito persino l’uso della frode.

Nerbo della costituzione statale è la religione, che insegna il rispetto della virtù e della disciplina; e come pura considerazione strumentale e di efficacia per il mantenimento dello stato, la religione romana è da ritenersi più utile della cristiana; in particolare, per l’Italia, egli giudica rovinosa la politica storica della Chiesa romana.

Non mancano, soprattutto nel secondo libro, le considerazioni militari care allo scrittore: sono preferibili le milizie nazionali a quelle mercenarie, perché è l’amore della patria e non il denaro che fa i buoni soldati; la fanteria è migliore della cavalleria, sull’esempio delle antiche legioni romane e contrariamente ai moderni ordini di guerra; non bisogna fare troppo affidamento né sulle artiglierie né sulla tenuta difensiva delle fortezze; la solidità di un esercito come quella di uno stato, la stima di un comandante come quella di un principe si misurano dalla virtù e dalla moralità che è in essi.

Tra i capitoli più belli e interessanti è da ricordare quello sulle congiure; con precisione quasi scientifica lo scrittore analizza i più disparati casi e gli accidenti che possono succedere «prima, in su’l fatto, e poi», spaziando dalle congiure antiche a quelle moderne, da quelle contro il tiranno a quelle contro la patria e condotte sia con il ferro che con il veleno: l’insuccesso delle congiure pisoniana contro Nerone e dei Pazzi contro i Medici, il felice esito delle congiure di Pelopida contro i tiranni Tebani e di Iacopo di Appiano contro Piero Giambacorti principe di Pisa.

Critica al Machiavelli

Durante la sua vita, Machiavelli pubblicò personalmente poche opere: il Decennale (1506), la Mandragola (1518) e l’Arte della guerra (1521); tuttavia le sue opere politiche maggiori, il Principe e i Discorsi, circolavano già manoscritte, per lo meno in una cerchia ristretta.
Per i contemporanei le sue idee, destinate ben presto a suscitare infinite polemiche, non avevano nulla di scandaloso, poiché apparivano come la rielaborazione teorica di esperienze politiche vissute comunemente. Dopo la pubblicazione dei Discorsi (1531) e soprattutto del Principe (1532), il pensiero di Machiavelli ebbe una grandissima risonanza, anche a livello europeo, suscitando aspre reazioni in particolare negli ambienti ecclesiastici, dove andava maturando il clima controriformista. Si condannavano i suoi concetti in quanto ispirati ad una visione pagana, atea e blasfema, nella loro critica alla religione cristiana e alla Chiesa; in essi si ravvisava l’incitamento scandaloso ad usare mezzi immorali, la violenza e la frode, nell’operare politica. Tra i primi a scagliarsi contro il Machiavelli fu il cardinale inglese Reginald Pole in una Apologia indirizzata all’Imperatore Carlo V e composta tra il 1535 e il 1545, in cui si ravvisava nel pensatore fiorentino l’ispiratore della Riforma Protestante e dello scisma anglicano del re Enrico VIII, e si sosteneva che il Principe era stato scritto “col dito di Satana”.

Nell’età della Controriforma la polemica antimachiavellica diede origine alla riflessione sulla cosiddetta “ragion di Stato”: si condannava la subordinazione della morale agli interessi dello Stato proposta da Machiavelli e si affermava che il sovrano doveva essere ossequioso verso i principi della morale e della religione, e che solo così, grazie alla benevolenza divina, avrebbe potuto conseguire il successo della sua politica. Tuttavia il realismo di Machiavelli, condannato in linea di principio, veniva tacitamente recuperato: quelle pratiche di governo che erano condannabili nell’agire politico del sovrano potevano essere giustificate ove lo richiedessero gli interessi della Chiesa. E’ in questa fase che viene elaborato il principio “il fine giustifica i mezzi”, che è sostanzialmente estraneo al pensiero di Machiavelli. Questo machiavellismo dissimulato fu proprio soprattutto della pubblicista gesuitica: lo troviamo nella Ragion di stato del gesuita piemontese Giovanni Botero (1589).

Nell’età della Controriforma il gesuitismo politico della “ragion di stato” dà origine al cosiddetto “tacitismo”.