QUINTO ORAZIO FLACCO


Venosa, 8 dicembre 65 a.C.
Roma, 27 novembre 8 a.C. 0

Quinto Orazio Flacco nacque a Venusia (oggi Venosa).
Di suo padre, uno schiavo poi liberato, il poeta parla più volte, ricordandone la figura con accenti di profonda gratitudine: nulla invece ci dice della madre, che forse, perdette nella prima fanciullezza.
Anche il motivo della umiltà delle origini ricorre frequentemente, in contrasto con quello della virtù e dell’ingegno a lui concesso dalla natura e dall’educazione.
Suo padre, benché povero, volendo dargli una nobile educazione, non si contentò del maestro di scuola di Venosa, ma osò venire a Roma, dove si adattò all’umile mestiere di coactor, e lo accompagnava egli stesso dai maestri.

A 20 anni si recò ad Atene per un viaggio d’istruzione, preso dal desiderio di imparare il giusto dall’ingiusto. Si schierò tra le fila di Giunio Bruto, sognando la repubblica: ma il sogno svanì nella battaglia di Filippi, quando Bruto si uccise e Orazio si salvò con la fuga. Le disgrazie non erano finite: il padre era morto e i beni del poeta confiscati.

La povertà lo spinse a far versi. Ma la fortuna gli venne incontro, facendogli stringere amicizia con Virgilio, che lo presentò a Mecenate. Dinanzi all’illustre personaggio, il poeta rimase impacciato e confuso,balbettando qualche parola, come fanciullo che si vergogna. Quella semplicità non dispiacque a Mecenate, divenne suo familiare: pieno di orgoglio che a ciò fosse giunto non per titoli di nobiltà ma per le virtù del suo animo.
Qualche anno più tardi, ebbe in dono da Mecenate la celebre villa Sabina, di cui si compiace di scrivere in vari punti delle sue opere: qui è racchiusa tutta la felicità del poeta.
A Roma, abitava in una casa non sua: s’alzava tardi, leggiucchiava e scribacchiva quel che gli piaceva, o usciva un po’, ma egli alla vita romana preferiva quella di campagna che lasciava più spazio al desiderio di libertà. Accanto all’amicizia affettuosa con Mecenate, va ricordata quella più riservata con Augusto.

L’attività poetica di Orazio comincia con le Satire e gli Epodi.
Le Satire sono distribuite in due libri; il I (composto fra il 41 e il 33) ne contiene 10, il II 8 ( e fu scritto tra il 33 e il 30). La satira è sotto forma discorsiva, infatti la chiama sermones, ed è nei confronti di quella di Lucilio, meno mordace, si muove non nel campo politico ma in quello del costume. Ha un maggiore senso di pacatezza perché scritta in esametri. E’ un interessante documento di società e di ambiente. A volte stimola una serie di riflessioni sull’organizzazione economica e giuridica della società di allora, sull’incontentabilità, sull’indulgenza reciproca.
Ma in lui vi è soprattutto la capacità di guardare in se stesso, di frugare nel fondo dell’anima che costituisce una nota fondamentale di Orazio uomo e poeta.
Affronta anche problemi relativi al genere satirico, ove ci presenta il suo predecessore Lucilio duro nel comporre versi.
Quindi passa a chiarire cosa intende per poesia: con molta modestia dice di togliersi dal numero di quelli ai quali vorrebbe concedere di essere poeti “non basta riuscire a mettere insieme un verso per vere nome di poeta, onore che spetta a chi abbia genio, fantasia e linguaggio”.

In un’altra satira parla della brevità: ”Non basta sganasciare dalle risa chi ti ascolta, brevità ci vuole,sì che il pensiero scorra agile e non si avvolga in paroloni che stanchino gli orecchi;ci vuole uno stile vario, ora severo ora giocoso”.
Ma il punto culminante è raggiunto nella satira 6 del libro II: il sogno del poeta è avverato, un po’ di terra con un orto e una fonte perenne vicina alla casa, e, sullo sfondo un po’ di selva. Il paesaggio ideale per il poeta che non chiede altro agli Dei e non invidia chi ha di più, ma il suo pensiero corre a Roma dove è costretto a recarsi in tutte le stagioni.

Da non dimenticare, poi, la famosissima “Favola dei due topi”, dal significato e dal valore profondo.

Allo stesso periodo delle Satire risale anche la composizione degli Epodi: 17 carmi in tutto che Orazio chiamò giambi. Occupano una posizione importante nella storia della poesia latina e in quella della formazione ed evoluzione umana e artistica di Orazioni. Essi furono cari anche a Mecenate e costituiscono un trait d’union tra la poesia neoterica e le Odi. Orazio si ricollega così ai poetae novi (pur allagando il campo a fatti politici), ma risale, nello stesso tempo, al grande maestro della poesia giambica,Archiloco. E’ il momento dello sfogo, dell’inquietudine, dell’ira.

Tra gli epodi più discussi è da ricordare il IX , dedicato a Mecenate e scritto per la vittoria di Azio, alla cui battaglia alcuni sostengono che abbia partecipato lo stesso poeta. L’epodo si apre con un invito a Mecenate a bere e a festeggiare, tra i canti, la vittoria e si chiude con l’invito rivolto al puer di porgere in più capaci calici dell’ottimo vino. Con l’epodo IX siamo vicini all’atmosfera delle Odi, alla soglia delle quali ci portano più chiaramente il XIV (che ci presenta Orazio innamorato di Neera), ma soprattutto il XIII, che può già considerarsi una piccola ode: è un’esortazione a cogliere il momento che fugge e a fugare dalla fronte rannuvolata i pensieri e le rughe della vecchiaia, traendo fuori il vino.
Le Odi possono considerarsi il centro dell’attività poetica di Orazio. Sono 103 carmi, distribuiti in 4 libri: il I ne contiene 38, il II 20, il III 30, il IV 15. Nelle Odi si pone sulla strada di un altro lirico greco, Alceo e dichiara Pindaro poeta inimitabile, dando prova, anche qui, di giusto senso di misura e di conoscenza delle proprie capacità di poeta.
Nei carmi simposiaci introduce una note personale; il simposio è considerato come qualcosa di sacro, nel corso del quale si cantano le lodi agli dei, si celebrano gli eroi e la donna. Il motivo della primavera è seguito dalla riflessione malinconica della pallida Morte. Questa riflessione nasce da un episodio della vita del poeta sul cui capo stava per cadere un albero. Il motivo principale è la fugacità del tempo e l’ineluttabilità della morte. Solo la poesia può vincere la morte e dare l’immortalità.

Accanto al motivo simposiaco, quello dell’amicizia. Primo tra gli amici Mecenate, al quale il poeta suggerisce di godere lieto il presente e scacciare i gravi pensieri. Il motivo viene ripreso in tono serio ed elevato: il poeta parla a cuore aperto al Cavaliere, al quale torna a dire che un dio nasconde sotto la notte gli eventi del futuro e ride se l’uomo di affanna oltre il lecito. Perfido è il gioco della Fortuna, che tramuta sempre gli instabili amori,”ora con me ora con altri benigna, sono contento se mi resta vicina ma se all’improvviso mette in moto la ali, rinunzio a quanto ella mi ha dato e seguo la povertà”; affiora al nostro ricordo l’immagine dantesca di San Francesco e della Povertà. Dei poeti suoi amici ricordiamo Virgilio e Tibullo che Orazio esorta a non dolersi se la sua amata gli preferisce un altro.

Orazio non ha sentito l’amore come passione o ardore, fuoco dell’anima. Più che dell’amore è stato definito poeta della femminilità. Ad una donna, Leuconoe, da consigli di saggezza :godi l’oggi e conta il men che puoi sul domani. Il mito e il motivo religioso hanno la loro parte ma la letteratura ha spesso il sopravvento,si può parlare di grazia, di armonia e perfezione formale, piuttosto che di sentimento profondo.
Ad un senso religioso è ispirato il famoso Carmen seculare, composto su invito di Augusto che aveva dato la pace al mondo e celebrava i ludi seculares.

Mostra invece di possedere vivo il sentimento di amor patrio. Assai frequenti sono gli accenni ai nemici dell’Impero. Dinanzi alla grandezza di Roma, il poeta non può non esprimere la sua gratitudine per Augusto che ne è stato in massima parte l’artefice e a cui ha dedicato un‘ode. I temi donde sgorga più sincera e più perfetta la sua poesia sono: la dolcezza del paesaggio, il senso di gioia sana e serena, il vivere sobriamente accontentandosi di poco, la purezza di coscienza, la salda tenacia nei propri propositi. Sono questi gli elementi fondamentali rintracciate nelle famosi Odi romane, in cui al mito è sostituita la storia di Roma.

Le Epistole hanno un tono più pacato, più smorzato, più discreto e soprattutto un linguaggio più dolce e una maggiore perfezione formale. Sono distribuite in 2 libri (20 nel I, di contenuto prevalentemente filosofico, 3 nel II, ove sono trattati problemi di indole letteraria). Poche opere, come le Epistole, offrono la possibilità di cogliere un numero tanto grande di precetti, esposti spesso in forma lapidaria, quasi di sentenza.

Nella I epistola, diretta a Mecenate, dichiara il suo proposito di lasciare i versi per indagare soltanto cosa sia il vero e l’onesto. Nella IV, invita Tibullo, colto in un momento di malinconia,a credere tra speranze e affanno, tra timori ed ire, che ogni giorno sia spuntato per ultimo.

Dà poi una serie di consigli ad alcuni suoi amici sul modo di comportarsi con i potenti: tenendosi al giusto mezzo, non scendendo mai a basse adulazioni né mostrando un carattere rozzo e scontroso. L’epistola XIX, l’unica di carattere letterario, preannuncia i componimenti del II libro, che comprende 3 epistole: la I a Cesare Augusto, la II a Floro, la III ai Pisoni. Il titolo “De arte poetica” si trova per la I volta in Quintiliano e ebbe ed ha tuttora molta fortuna .

L’epistola a Floro può dividersi in 2 parti:la I di carattere letterario, la II di contenuto morale. Il poeta ricorda all’amico la sua pigrizia nella scrivere e si giustifica col dire che possiede ormai quanto basta a vivere e ritiene più bello dormire. Conferma il senso dell’umorismo e dell’arguzia.

L’epistola al Augusto ci fa conoscere le tendenze e il gusto letterario della sua epoca. C’è qui un’impostazione essenzialmente politico-sociale. Dice di indignarsi quando ricondanna un’opera perché moderna. I Romani ora amano la poesia. Ad un tono piuttosto manualistico è informata l’ultima epistola, la quale in alcuni punti richiama la precedente. Sono trattati in prevalenza problemi di carattere tecnico. L’autore deve scegliere un argomento adatto alla sue forze ed essere padrone della lingua. Fonte e principio dello scrivere bene è la sapienza. E’ difficili raggiungere la perfezione: l’errore è insito nella natura umana. (Carducci, nelle Odi barbare,ha risentito delle forme e dello spirito della lirica più propriamente civile del Venosino)

“LYRICUS VATES”: IL SIGILLO

Exegi monumentum aere perennius

regalique situ pyramidum altius,

quod non imber edax, non aliquo impotens,

possit diruere aut innumerabilis

annorum series et fuga temporum.

Non omnis moriar, multaque pars mei

vitabit libitinam : usque ego postera

crescam laude recens, dum Capitolium

scandet cum tacit virgine pontifex.

Dicar, qua viloens obstredit aufidus

et qua pauper aquae Daunus agrestium

regnavit populorum,Ex humili potens

princeps aeolium carmen ad Italos

deduxisse modus. Sume superbiam

quasitam meritis et mihi delphica

lauro cinge volens, Melpomene, comam.

Traduzione

Ho eretto un’opera più durevole del bronzo e più alta della mole regale delle piramidi, che non possa abbattere né la pioggia che logora, né il violento Aquilone, o le innumerevoli serie di anni e il corso del tempo. Non del tutto io morirò ma anzi una parte di me eviterà Libitina: rinnovato di continuo, crescerò per gloria postuma fintanto che il pontefice e una vergine silente ascenderanno insieme al Campidoglio. Si dirà, là dove violento risuona l’Ofanto e là dove Daunio, povero d’acque, regnò su popoli contadini, che io da umile divenuto grande, ho per primo trasferito la poesia eolica in ritmi italici,Assumi l’orgoglio ricercato di meriti e al momento giusto cingimi la chioma d’alloro delfico, Melpomene.