Vasco Pratolini
fra neorealismo, populismo, verismo, naturalismo e manicheismo

Bella, che ci importa del mondo, verremo perdonati te lo dico io da un bacio sulla bocca un giorno o l‘altro…»
[Ivano Fossati, Il bacio sulla Bocca]

Non ci sembra di inquinare la poesia di Pratolini se la facciamo iniziare con le parole di uno dei poeti della musica contemporanea, perché a nostro avviso se ci fosse possibile dare una definizione di Pratolini, sarebbe quella di “scrittore dei baci sulla bocca, dei baci rubati agli angoli della strada”.

Sì, poiché questo scrittore dallo stile semplice, ma solo perché così aderente e vicino alla realtà, è stato in grado di portare nei suoi romanzi i dialoghi dei quartieri, le aspirazioni della gente comune, popolana, e di farcene sentire i sogni, il sapore dei baci.

Come altri scrittori neorealisti a lui contemporanei, Pratolini aveva un’inclinazione verso il popolo, e verso il popolo fiorentino in particolare, soggetto della maggior parte dei suoi romanzi.

Popolana del resto era la sua estrazione.

Nato in un quartiere di Firenze nel 1913, Pratolini perse la madre molto piccolo, vivendo così con i nonni materni e, in seguito, da solo, lavorando appena possibile come operaio in una bottega di tipografi.

Ma fu anche cameriere, venditore ambulante e rappresentante.

Mentre Pratolini osservava i gesti e le parole, le abitudini della gente di quartiere che poi avrebbe fatto parlare nei suoi romanzi, andava formando piano piano da autodidatta la propria cultura letteraria. Letture disordinate, che rispondevano a un’unica vocazione: diventare scrittore.

Riportiamo direttamente le parole dell’autore: «La mia fortuna è che non sono stato un autodidatta confusionario, non ho mai letto male […] Ma io mi sentivo uno non addetto ai lavori, anche se, negli intervalli che mi concedeva la fabbrica, scrivevo raccontini […]» Pratolini aveva il desiderio di raccontare.

E incontrò chi volle credere in lui. Tramite il pittore Ottone Rosai, iniziò a scrivere di politica sulla rivista «Il Bargello», ma fu soprattutto Elio Vittorini che lo portò dalla politica alla letteratura — anche se sia letteratura che politica erano già presenti nella rivista «Campo di Marte», della quale lo stesso Pratolini fu redattore assieme al poeta Alfonso Gatto, e soppressa dopo un anno dal regime fascista.

Neorealismo, populismo, verismo, naturalismo.

Quanto appartenne Pratolini a queste correnti? Quanto se ne distaccò?

Un contestatore sentimentale che con i toni della propria cronaca personale e dei propri ricordi fu in grado di costruire, fin dalle prime esperienze narrative, storie corali dove il "noi" oltrepassava l’"io" e dove ai rapporti affettivi si accompagnava una progressiva presa di coscienza della classe proletaria e popolare.

Il tappeto verde, Le amiche, Il Quartiere, fino a Cronaca familiare e a Cronache di poveri amanti, scritti negli anni Quaranta, sono opere animate da uno sguardo d’amore, da legami affettivi con la propria gente; da un dolore privato — come la scomparsa del fratello, in Cronaca familiare — a un dolore collettivo e, soprattutto, a una minaccia del Male incombente, secondo una visione della vita sempre tesa a una sorta di manicheismo, con un’ingiustizia da riscattare in nome del Bene e una liberazione dal Male nel mondo.

La storia, come direbbe Benjamin, la si ascolta tra i mercati, nella realtà delle strade, nelle sue domande, nelle sue paure che non sono più qualcosa di astratto o artificioso, ma sono muscoli e nervi che si muovono, che tremano e corrono, a difendersi, a liberarsi, a trovarsi.

Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Pratolini aveva già riscosso una certa fama con Cronache di poveri amanti — che gli valse il premio Libera Stampa — e aveva avuto una breve esperienza giornalistica a Milano.

Il ricordo di Firenze cominciava lentamente a sfumare. Decise allora di scrivere la trilogia Una storia italiana: un affresco storico che riuniva il mondo operaio (Metello), il mondo borghese (Lo scialo) e quello degli intellettuali (Allegoria e derisione). Una storia che fu in seguito definita dai critici ancora «troppo fiorentina» e ancora «troppo poco italiana».

Forse questa sua imprescindibile fiorentinità, questo sentimentalismo a volte pedagogico, questo autobiografismo, dal quale a fatica Pratolini si liberò (e perché poi?), rappresentano le motivazioni per cui l’anniversario della sua morte, avvenuta il 12 gennaio 1991, è stato «scandalosamente dimenticato», come ha osservato il poeta fiorentino, nonché suo amico, Mario Luzi.

Certo è che il cinema lo ha premiato; che, oltre alle sue parole, rimangono le immagini dei film tratti dai suoi libri, da Carlo Lizzani per Cronache di poveri amanti (1954) a Valerio Zurlini per Cronaca familiare (1962) — Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia — a Mauro Bolognini per Metello (1970).

Oltre alle sceneggiature, alle quali lo stesso scrittore collaborò, da Paisà di Roberto Rossellini a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti a Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy.
Cronache quotidiane appunto, rapporti d’amore e di odio.
Corpi dolenti e sangue lacrimante.

Opere principali

Il tappeto verde (1941)
Via de' magazzini (1941)
Le amiche (1943)
Il quartiere (1944)
Cronaca familiare (1947)
Cronache di poveri amanti (1947)
Un eroe del nostro tempo (1949)
Le ragazze di San Frediano (1949)
La domenica della povera gente (1952)
Lungo viaggio di Natale (1954)
Metello (1955)
Diario sentimentale (1956)
Lo scialo (1960)
La costanza della ragione (1963)
Allegoria e derisione (1966)
La mia città ha trent'anni (1967)
Il mannello di Natascia (1985)