1^ Guerra Mondiale
le grandi battaglie in Italia

Gallipoli, fallisce il tentativo di far uscire la Turchia dalla guerra

Le dodici battaglie dell'Isonzo, la guerra tra Italia e Austria-Ungheria

PREMESSA

IL PIANO OFFENSIVO (Gen. Cadorna)

IL PRIMO BALZO OFFENSIVO

LE PRIME QUATTRO BATTAGLIE

LA SESTA BATTAGLIA DELL'ISONZO (4 - 17 agosto)

Caporetto, gli Imperi Centrali travolgono il fronte italiano

Il Piave, la battaglia che condusse alla vittoria l'esercito italiano


Gallipoli, fallisce il tentativo di far uscire la Turchia dalla guerra

Gallipoli fu il primo esempio di invasione dal mare dei tempi moderni. Singolarmente, per gli attaccanti, tutto andò male ad eccezione della ritirata – sempre via mare – quando fu evidente che l’intera operazione era fallita. Ma fu anche l’occasione che mise in gran risalto le capacità di Mustafà Kemal: il trentaquattrenne ufficiale si guadagnò ampiamente il titolo di "Salvatore di Gallipoli".

Fu, anche, una inutile e devastante carneficina, da entrambe le parti. La Grande Guerra era già abbastanza moderna per pensare a strategie mondiali, utilizzare strumenti tecnici sofisticati, coinvolgere masse di uomini.

Ma non ancora abbastanza scientifica per abbandonare la logica degli assalti frontali, con fiumane di fanti mandati inutilmente allo sbaraglio, ondata dopo ondata, contro trincee fortificate.

Soprattutto gli alleati – soldati coraggiosi e decisi, al pari dei turchi – erano comandati da alti ufficiali indecisi, incerti, senza fantasia ed ostinati all’assalto alla baionetta. Il numero fa potenza, si pensava ancora.

Gallipoli dimostrò il contrario, ma sul momento furono davvero in pochi a capirlo.

La Turchia entrò in guerra dopo una lunga schermaglia diplomatica tra inglesi e tedeschi. La Gran Bretagna commise l’errore di sequestrare due corazzate del tipo "dreadnought", la Sultano Oman I e la Reshadieh appena costruite nei cantieri inglesi per la Marina turca.

In Turchia, l’indignazione fu enorme perché i soldi per le due unità erano stati raccolti con una grande sottoscrizione popolare, alla quale avevano partecipato anche le classi più povere del Paese.

I tedeschi approfittarono dell’incidente: inviarono a Costantinopoli il nuovissimo incrociatore da battaglia Goeben e l’incrociatore leggero Breslau.

Il 29 e 30 ottobre 1914 le due navi tedesche, con altri vascelli turchi, bombardarono le postazioni russe sulle coste del Mar Nero.

La Turchia aveva fatto la sua scelta di campo: e il 31 ottobre 1914, Gran Bretagna, Francia e Russia le dichiararono guerra.

All’inizio del 1915, in Europa, lo scontro si era già infilato in una situazione di stallo, tra sanguinosissime ed inutili battaglie di trincea.

La Russia aveva pagato prezzi altissimi, sul fronte orientale, nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri, e chiese agli alleati un intervento che alleviasse la pressione. Fu Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, ad indicare i Dardanelli.

Lo Stretto costituiva – attraverso il Mar di Marmara e il Mar Nero – lo sbocco dei russi nel Mediterraneo: di lì passava la metà del traffico commerciale, e i nove decimi delle esportazioni russe di grano. Il controllo dei Dardanelli era dunque il rubinetto per i rifornimenti dell’alleato russo.

Inoltre, la Turchia aveva due sole fabbriche di munizioni, sulla costa presso Costantinopoli, che sarebbero state a tiro dei cannoni di una flotta che avesse forzato lo stretto. L’Inghilterra ci provò due volte: il 19 febbraio e il 18 marzo, le navi tentarono di passare il canale. I campi minati e le artiglierie turche ebbero la meglio, affondarono tre navi da battaglia e costringendone altre tre a lunghe riparazioni. Si decise per l’invio dell’esercito.

Il corpo di spedizione fu affidato al comando del generale Ian Hamilton, uno scozzese di 62 anni che aveva prestato servizio in India e nella guerra boera. Lo sbarco denunciò subito le incapacità organizzative: confusione logistica, indecisioni operative, collegamenti inefficaci.

Halmiton scelse sei punti per lo sbarco dei suoi 80 mila uomini, più due azioni diversive, per ingannare Otto Liman von Sanders, il sessantenne ufficiale tedesco che aveva il comando a Gallipoli. Il 25 aprile, i soldati australiani e neozelandesi dell’Australian & New Zealand Army Corpos (ANZAC) scoprirono immediatamente che l’area dell’Ari Burnu non aveva spiagge di facile accesso ma solo scogliere e burroni impraticabili.

Oggi è chiaro che l’intera operazione fu decisa proprio lì: il genio militare di Mustafà Kemal comprese che il possesso di Monte Chunuk Bair e del crinale Sari Bair era determinante per il controllo dell’intera penisola. Ignorando gli ordini superiori, Kemal portò tutte le truppe possibili sul Chunuk Bair e sul crinale e tenne le posizioni: gli inglesi, nonostante i loro sforzi, non sarebbero mai più riusciti ad andare avanti.

Nelle altre zone di sbarco, intorno a Capo Helles, regnò subito la confusione: grandissimo coraggio degli attaccanti, nonostante le forti perdite inflitte dall’ostinata determinazione dei turchi.

Il 26 mattina, gli inglesi erano riusciti a portare a terra circa 30 mila uomini. Il problema era che questi erano stati praticamente bloccati sul litorale, in una fascia di un paio di chilometri dalle spiagge, con pochi viveri e scarse munizioni.

Agli australiani – che nei primi tre giorni avevano perso 4.500 uomini – fu dato l’ordine di "scavare, scavare, ancora scavare". E questo, in definitiva, fu il motivo di fondo dell’intera campagna: soldati costretti nelle trincee – in alcuni casi solo 5 metri dividevano i due fronti – sotto il fuoco delle artiglierie, con poca acqua e nugoli di mosche: "mosche di cadaveri", che portavano il pericolo delle malattie dai corpi insepolti ai militari in trincea.

Per il resto è una sequela di assalti tentati con scarso successo: due volte a Krithia, per tentare di impossessarsi dell’altopiano di Achi Baba, dove l’8 maggio gli inglesi avevano conquistato poco più di 600 metri, a prezzo di 6.500 morti. I turchi contrattaccarono, insistentemente, nella zona di Anzac, con coraggio e determinazione.

Il 19 maggio, per esempio, 30 mila uomini assaltarono ripetutamente il centro delle postazioni australiane. I turchi persero 10 mila uomini, contro i 100 morti e i 500 feriti dell’ANZAC. Gli australiani – scanzonati, indisciplinati ma testardi e coraggiosi – costruirono lì la loro fama di grandi soldati.

E, mano a mano che passavano i giorni, cominciarono a riconoscere nel soldato turco un avversario degno di loro: fino a dichiarare pubblicamente che "Johnny Turk" o "Abdul" non era un selvaggio primitivo, come diceva la propaganda alleata, ma "un bravo e corretto combattente". Il 4 giugno, muovendo dalle postazioni di Capo Helles, 30 mila inglesi tentarono di nuovo l’assalto a Krithia, difesa da 28 mila turchi. Assalto lanciato in pieno giorno, contro le trincee: nuovo fallimento, 4.000 morti. Devastanti anche le perdite turche.

Giugno e luglio passarono in trincea, mentre la dissenteria aggiungeva le sue vittime a quelle dei cecchini e degli assalti locali, ostinati ed inutili. Tra sete, caldo, odore di morte – un po’ ovunque c’erano cadaveri in putrefazione e tormento delle mosche, le truppe conservano intatto un alto morale: da entrambe le parti, questa snervante battaglia cominciava ad assumere i toni dell’epopea.

All’inizio di agosto, gli inglesi decisero di riprendere l’iniziativa. Dopo aver rinforzato gli effettivi, il 6 attaccarono contemporaneamente sul fronte di Capo Helles e nella zona ANZAC, per la conquista di Sari Bair. Lo scopo era quello di coprire un nuovo sbarco, nella baia di Sulva.

A Sari Bair e sul Monte Chunuk, gli australiani furono ad un passo dallo sfondamento: ma il 9 agosto, Kemal lanciò una controffensiva, perse 5.000 uomini e riprese le posizioni. Tra il 6 e il 10 agosto, l’ANZAC aveva perso 12 mila uomini. A Sulva, intanto, 1.500 turchi al comando del maggiore bavarese Wilmer erano riusciti a bloccare sulla spiaggia 25 mila uomini del generale Sir Frederick Stopford, più contento di essere sceso a riva che determinato a spingersi oltre. Sempre tra il 6 e il 10 agosto, von Sanders riuscì a rinforzare Wilmer, mentre Stopford si preoccupava di fortificare le spiagge.

Risultato: le colline che dominavano la baia di Sulva rimasero saldamente in mano turca e i generali inglesi, indecisi e distratti, avevano perso la loro ultima occasione. Si tornò alla terribile vita di trincea. In ottobre, il comandante in capo Hamilton chiese altre forze per condurre una battaglia che finora aveva distrutto uomini e risorse senza alcun vantaggio. Fu sollevato dal comando e sostituito dal generale Monro, convinto che l’unica soluzione possibile fosse andarsene da Gallipoli.

La ritirata fu la sola cosa che gli inglesi fecero con vero successo. Tra il 18 e il 19 settembre, a scaglioni e con accorta copertura, 80 mila uomini e tutto il materiale fu evacuato dalla zona ANZAC e dalla baia di Sulva, al prezzo di due soli feriti. I

l 9 gennaio 1916, i 19 mila soldati dalla Zona di capo Helles – sempre di notte, sempre in silenzio, sempre con il massimo ordine – abbandonarono Gallipoli senza alcuna perdita.

Gli alleati lasciarono sul terreno 25.000 britannici, 10.000 francesi, 7.300 australiani, 2.400 neozelandesi e 1.700 indiani. Tra morti e feriti, le perdite complessive assommarono a 250.000 uomini: la metà del mezzo milione di soldati inviato a Gallipoli.

I turchi ebbero quasi 100 mila morti e oltre 150 mila feriti. Il comando inglese fu debole, quasi distratto – Hamilton non si presentò mai al fronte, comandava da una nave al largo – oltre che incerto sugli obiettivi tattici e impreparato alle necessità logistiche. L’esercito turco fu ben guidato da von Sanders e dall’"Atatürk" Kemal, sempre in trincea e spesso esposti in prima persona ai pericoli della battaglia.

Le dodici battaglie dell'Isonzo, la guerra tra Italia e Austria-Ungheria

PREMESSA

Il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarava guerra all'impero Austro - Ungarico per completare la propria unità entro i suoi legittimi e naturali confini. La grande prova, che richiese la mobilitazione di 27 classi, dalle generazioni mature ai giovanissimi del '99 e del '900 che furono invitati a combattere a soli 18 anni di età, schierò in campo un esercito di 5 milioni e mezzo di combattenti dei quali 689.000 caddero sul campo e oltre un milione e mezzo tornarono alle loro case mutilati o feriti.

Durò ben 41 lunghissimi mesi, ma si concluse con una sfolgorante vittoria che consentì la felice conclusione delle speranze e dei sacrifici della lunga epopea risorgimentale.

Il primo nervo dell'Esercito Italiano che scese in campo dovette schierare lungo ben 600 chilometri di fronte tra le Alpi e il mare ed affrontare un nemico - uno degli eserciti più potenti del mondo di allora - superiore per numero, mezzi ed armi, specialmente artiglieri, avvantaggiato peraltro da posizioni tutte predominanti, predisposte da tempo ed allestite a norma dei dettami e con i mezzi più moderni dell'arte fortificatoria dell'epoca per cui lo Stato Maggiore germanico le aveva definite "ideali per la difesa".

Lungo la frontiera con l'Austria, l'Esercito aveva schierato: la 1° e la 4° Armata attorno al saliente tridentino, il settore Zona Carnia dal Monte Peralba al Monte Canin; la 2° Armata dal Monte Canin al Vipacco e la 3° dal Vipacco al mare. Esse erano fronteggiate da tre armate austriache: una nel saliente tridentino; un'altra lungo il Cadore e la Carnia; una terza dal Monte Nero al mare.

IL PIANO OFFENSIVO (Gen. Cadorna) comprendeva:

1) offensiva sull fronte della Giulia (azione principale) per superare la linea dell'Isonzo e raggiungere la linea della Sava, tra Krainburg e Lubiana;
2) difensiva strategica sull fronte tridentino (il pericoloso saliente tridentino che si incuneava minaccioso lungo la parte più delicata del settore alpino del fronte), sostenuta da azioni tattiche parziali, intese a migliorare la situazione dell'andamento della linea di confine;
3) offensiva in Cadore e in Carnia ma con azioni secondarie con obiettivi il nodo di Dobbiaco e uno sbocco in Carinzia.

 IL PRIMO BALZO OFFENSIVO

All'inizio dell'ostilità le truppe italiane irruppero quasi ovunque oltre il confine per assicurarsi buone basi di partenza per le operazioni successive. Sul fronte Giulio conquistarono la conca di Caporetto, la dorsale tra Isonzo e Judrio, e dilagarono nella pianura friulana occupando Cormons, Cervignano e Grado.
Ma il progredire divenne sempre più arduo e sanguinoso perché il nemico, oltre ad una più lunga esperienza di guerra di trincea godeva anche del vantaggio delle posizioni: tutte dominanti.

Ai primi di giugno, venne occupata Gradisca e, forzato l'Isonzo a Plava, creata una testa di ponte che impediva al nemico le comunicazioni per il fondo valle. Venne poi occupata Monfalcone ed il 16 conquistato il M. Nero.

LE PRIME QUATTRO BATTAGLIE

Conclusosi il primo balzo offensivo, il nemico venne poi impegnato, lungo il fronte isontino, in undici battaglie offensive in cui le truppe italiane profusero largamente valore e sangue.
Si ebbero così sull'Isonzo 29 mesi di aspra guerra di posizione che, se furono sanguinosi per le truppe italiane, costarono anche al nemico un terribile logoramento che permise di far non sentire il suo peso determinante su altri fronti. A ondate successive, la generosa gioventù italiana affrontò il fuoco delle mitragliatrici e dei cannoni nemici, si lanciò contro il "tremendo" reticolato nel quale gruppi di uomini votati al sacrificio aprivano dei varchi con mezzi ancora rudimentali ed estremamente pericolosi; finché un anno dopo non sopraggiunse un'arma nuova - la bombarda - a facilitarne il compito e ridurre la perdita di giovani vite umane.
Obiettivi delle prime quattro battaglie, combattute nel 1915, furono le due teste di ponte di Tolmino e di Gorizia a destra dell'Isonzo e il bastione del Carso.
Nonostante lo slancio con cui le truppe italiane si gettarono contro le bene organizzate difese nemiche perdendo il fiore dei suoi combattenti, i risultati furono scarsi. Esse valsero comunque a tenere in stallo notevoli forze nemiche ed a richiamarne altre.

LA QUINTA BATTAGLIA (marzo 1916) ebbe scopo di favorire l'alleato francese, impedendo al nemico di trasferire truppe sul fronte di Verdun dove i tedeschi avevano lanciato un grande attacco. La lotta fu particolarmente aspra tra il S. Michele e S. Martino, ma con i risultati assai modesti.
All'alba del 29 giugno 1916, nella zona del S. Michele, fece la sua tragica apparizione un nuovo crudele mezzo di lotta: il gas asfissiante. Sorpresi nel sonno, in pochi minuti persero la vita 2.700 uomini dell'XI Corpo d'Armata, mentre altri 4.000 rimasero gravemente intossicati. Ma, con un mirabile sforzo di volontà dei superstiti, la situazione, inizialmente compromessa, veniva prontamente ristabilita.

LA SESTA BATTAGLIA DELL'ISONZO (4 - 17 agosto).

Il piano prevedeva due attacchi principali ai lati del campo trincerato di Gorizia dalle alture del Sabotino al Podgora e dal S. Michele a Doberdò; altra azione diversiva doveva essere sferrata con adeguato anticipo sul settore di Monfalcone.
L'operazione, che venne affidata alla 3° Armata era stata preparata accuratamente; per la prima volta sul fronte italiano si affiancava al cannone la bombarda, nata per infrangere la barriera dei reticolati. Dopo un poderoso tipo di preparazione furono conquistate di slancio le importanti posizioni del Sabotino e le tanto contrastate cime del S. Michele. Il 9 agosto le nostre avanguardie entravano in Gorizia e quindi si attestavano oltre il Vallone.
La 6° battaglia dell'Isonzo costituì un grande successo per gli iatliani che inflissero agli austriaci la perdita di 41.835 uomini e di ingente materiale bellico.

Nel 1916 si ebbero ancora tre battaglie: la SETTIMA, l'OTTAVA e la NONA, con le quali, nonostante l'immutato slancio e l'indomita tenacia, vennero raggiunti risultati modesti: la difesa era ancora più forte dell'attacco nonostante l'adozione di nuovi mezzi.

La primavera del 1917 fu contrassegnata dalla DECIMA BATTAGLIA (12 maggio - 8 giugno) che aveva per obiettivi la conquista del bastione montuoso strapiombante sull'Isonzo tra Plave e Gorizia e dell'importante massiccio dell'Hermada.
Violentissimi combattimenti si ebbero specialmente sul Vodice e sul Monte Santo il quale venne occupato e perduto più volte. Furono comunque occupati il Monte Kuk, Jamiano e quota 21 di Monfalcone.

L'UNDICESIMA BATTAGLIA (18 agosto - 12 settembre) ebbe per obiettivo l'altipiano della Bainsizza che costituiva per il nemico una buona base di partenza per le proprie offensive e rappresentava altresì la naturale copertura del Vallone di Chiapovano, utilizzato dagli austriaci per il sicuro spostamento di uomini e di mezzi tra il Carso e la Conca di Tolmino. L'offensiva si sviluppò anche sul Carso, ed a questa concorsero validamente dal mare monitori e batterie natanti della marina. A prezzo di gravi sacrifici, le truppe italiane forzarono l'Isonzo in più punti e progredirono così rapidamente sul margine occidentale dell'altipiano della Bainsizza da costringere il nemico a ripiegare su una linea più arretrata, lasciando in mani italiane lo Jenelik, il Kbilek, il Monte Santo, 20.000 prigionieri, nonché ingenti quantità di armi. Le perdite complessive in questa grande battaglia ammontarono a 143.000 italiani e 110.000 austriaci tra morti, feriti e dispersi. Dopo questa battaglia l'esercito austro - ungarico era ridotto in condizioni da non poter sostenere un altro attacco italiano.

Per cercare di risollevarne le sorti, gli Stati Maggiori germanico e austro - ungarico decisero di sferrare, prima dei mesi invernali, una grande offensiva contro l'ala nord della 2° Armata italiana (DODICESIMA BATTAGLIA DELL'ISONZO).
All'alba del 24 ottobre, la 14° Armata austro - ungarica, formata da otto divisioni austriache e sette germaniche attaccò vigorosamente tra Plezzo e Tolmino le linee italiane, preventivamente sconvolte da un massiccio fuoco di artiglieria a proietto e a gas, riuscì a quasi totalmente travolgerle raggiungendo rapidamente la conca di Caporetto. Fattori psicologici nonché la coincidenza di sfavorevoli circostanze, concorsero a trasformare un successo tattico del nemico in un successo strategico, che determinò lo scardinamento del fronte Giulio ed obbligò il Comando Supremo ad ordinare la ritirata sul Tagliamento prima e sul Piave, per impedire l'accerchiamento della 3° Armata. Il saldo ed eroico comportamento della 3° Armata permise all'esercito di salvarsi sulla destra del Tagliamento e rese possibile la successiva resistenza ad oltranza sulla linea destra del Piave sul Grappa e sugli Altipiani, dove s'infransero tutti i disperati attacchi nemici. Da quelle posizioni, alla fine dell'ottobre 1918, balzarono i fanti italiani per travolgere il nemico finalmente battuto.

Nel quadro della complessa guerra italo - austriaca, la 3° Armata assolse un compito particolarmente arduo e sanguinoso. I suoi soldati si comportarono sempre con valore coprendosi ovunque di gloria, nella lunga e durissima lotta su un terreno molto difficile e contro un nemico particolarmente tenace ed agguerrito. Anche nelle tragiche giornate della ritirata al Piave il suo comportamento fu tale da meritarle lo storico appellativo di "Invitta".

Caporetto, gli Imperi Centrali travolgono il fronte italiano

All'alba del 24 ottobre 1917 un'armata austrotedesca attacca gli italiani fra Plezzo e Tolmino, alla congiunzione fra la prima e la seconda armata. Usando la tecnica dell'infiltrazione, i reparti scelti, fra i quali quello dell'allora tenente Erwin Rommel, rompono il fronte, allargano la breccia, minacciano di aggiramento la terza armata. E' il caos. In pochi giorni una fiumana di sbandati che gli alti comandi non sono in grado di riorganizzare, si ritira verso il Piave, Le cifre: 11.000 morti, 29.000 feriti, quasi 300.000 prigionieri, altrettanti sbandati e oltre 300.000 profughi, l'intero Friuli occupato. "La mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico ... ". Le parole con cui il 28 ottobre 1917 Cadorna motiva il disastro di Caporetto, pesano ancora oggi.

Caporetto è l'evento chiave della guerra italiana. Coinvolge il fronte interno riattizzando contrasti e polemiche fra neutralisti e interventisti. Costringe a ripensare la strategia offensiva a oltranza e a riorganizzare l'economia di guerra su basi più solide. Una sconfitta, che ha conseguenze militari (la sostituzione di Cadorna, imposta dagli alleati) e politiche (la formazione di un nuovo governo).

Come Adua nel 1896, la sconfitta diventa cartina tornasole dello stesso Stato unitario, dei suoi limiti e dei suoi peccati d'origine.

Caporetto non è il fenomeno di viltà descritto dal comando supremo, né una "pugnalata alla schiena" dei disfattisti, ma non è nemmeno esempio di cosciente ammutinamento. E' il crollo di un esercito stanco e demoralizzato, portato in guerra, sulla base di una disciplina ferrea e di un rigido regolamento. Un esercito al quale sì è chiesta solo una passiva obbedienza (e che pure fino ad allora ha dimostrato una combattività e un'efficienza non inferiore ad altri). Gli oltre 200.000 fra morti e feriti delle ultime due spallate di Cadorna hanno fatto il resto. Ma i soldati non sparano sugli ufficiali, non si rifiutano di obbedire: semplicemente non ascoltano, sfogano la stanchezza morale e fisica (dei singoli e collettiva) muovendo verso la pianura. E arrivati al Piave si lasciano riorganizzare e vanno all'attacco per fermare gli austriaci.

Impostata con l'obiettivo chiaro di difendere il paese, dopo il 1917 la guerra sarà diversa. Le fucilazioni ci saranno, e continuerà il rigore anche con Diaz. Ma ci sarà anche maggiore attenzione per la propaganda di guerra - al fronte e dietro le linee - e per il morale e le condizioni di vita dei soldati.

Il Piave, la battaglia che condusse alla vittoria l'esercito italiano

Dopo lo sfondamento di Caporetto lo Stato Maggiore italiano, d'accordo con l'alto comando dell'Intesa (convegni di Rapallo e di Peschiera, 6-8 novembre 1917), decise di attestare la nuova linea sul Piave ordinando nel contempo l'arretramento delle armate delle linee Giulia e Carnica. La nuova linea, che si estendeva dal Trentino al mare, aveva al centro, come cardine di raccordo, il monte Grappa sul quale sin dall'offensiva austriaca del Trentino dell'anno precedente, erano stati compiuti lavori di accesso e di difesa. Con l'espressione battaglia del Piave si intende quindi quel complesso di azioni di contenimento e di difesa prima, e quindi di contrattacco che si susseguirono dal novembre 1917 all'estate 1918 e che precedettero la battaglia finale di Vittorio Veneto.
Le forze contrapposte erano inizialmente costituite, da parte italiana di 15 divisioni costituenti la IV armata (generale Di Robilant) e la III armata (duca d'Aosta), da parte austriaca di 38 divisioni ripartite tra la XIV armata austro-germanica (generale von Below) e il gruppo di armate dell'Isonzo (generale Boroevic).
Dopo il passaggio in riva destra della III Armata, delle residue sbandate forze della II Armata, battuta a Plezzo e Tolmino e la distruzione di tutti i ponti verso la riva sinistra, inizia la disperata resistenza degli itaiani contro le vincenti truppe austro-tedesche dell'"Isonzo Armee" del maresciallo Boroevich, imbaldanzite dal rapido successo.

Nella prima metà di novembre gli Austriaci riuscirono a costituire delle pericolose teste di ponte sulla riva destra del Piave, a Zenzon, a Fagarè, Folina e Valdobbiadene nonché (a dicembre) ad Agenzia Zuliani e a Capo Sile. Ma, dopo accaniti combattimenti, le valide avanguardie austriache che non possono ricevere sufficienti rinforzi dalla riva sinistra per evidenti difficoltà logistiche e per l'azione dell'artiglieria italiana, vengono accerchiate e quindi catturate, contenendo e respingendo così l' offensiva. Durante tutto l'inverno le truppe italiane poterono consolidare le loro posizioni lungo il fiume mentre la lotta ardeva sul monte Grappa.

La battaglia riprese tra il 15 e il 23 giugno, quando gli Austro-Ungarici lanciarono una nuova grande offensiva su tutto il fronte dagli altopiani di Asiago (in codice Offensiva Radetzki) al Piave (in codice Operazione Albrecht). Fu questa una delle più dure e sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. Teste di ponte vengono nuovamente occupate sulla riva destra, nelle stesse zone del novembre passato. L'offensiva ha particolare successo nella zona del Montello, che viene occupato per metà, fino alla sommità; anche Nervosa e la zona circostante vengono occupate. Ma da novembre a giugno, l'esercito italiano, alla guida del nuovo Capo di Stato Maggiore Armando Diaz, ha avuto il tempo di rafforzarsi, di riempire gli spaventosi vuoti in armamenti, materiale di artiglieria, aviazione, vettovagliamento, creati con la rotta di Caporetto; e ha creato una rete di sistemi difensivi a compartimenti stagni. I soldati italiani e in particolare la nuova classe chiamata alle armi, i "ragazzi del '99", con il contributo di divisioni inglesi e francesi, compiono prodigi di valore e riescono gradualmente a respingere il nemico. La situazione si ristabilisce con gli Italiani ben attestati sulla riva destra e gli Austro-Ungarici su quella sinistra. Durante l'offensiva di giugno muore tra gi altri, sul Montello, l'asso dell'aviazione Francesco Baracca, il cui "cavallino rampante" verrà preso da Enzo Ferrari come simbolo della famosa casa di automobili sportive.
Commentando l'esito della battaglia, Hindenburg scrisse: "Gli Italiani sapevano quanto noi che l'Austria-Ungheria aveva gettato in questo attacco tutto il suo peso sulla bilancia della guerra. Da questo momento la monarchia danubiana ha cessato di essere un pericolo per l'Italia".

Poco dopo (2-6 luglio) una controffensiva italiana portava alla conquista della zona tra il Piave vecchio e il Piave nuovo, da Intestatura alla foce. Era questo il preludio alla prossima travolgente offensiva, nota come Battaglia di Vittorio Veneto, che in pochi giorni sbaraglò il nemico, che già a giugno, perdendo sul Piave, aveva ricevuto un duro colpo, che avrebbe portato alla vittoria.

Il 4 novembre venne firmato l'Armistizio, che mise fine alle ostilità su tutto il fronte. Quella data viene ricordata ancora oggi come come il "Giorno della Vittoria", festa delle Forze Armate Italiane.