Le Foibe

STRUTTURA DELLE FOIBE

LE TORTURE

LE VITTIME

TESTIMONIANZE


STRUTTURA DELLE FOIBE

FOIBA deriva dal latino "fovea", parola che significa fossa. Ha assunto il terribile significato che ha oggi soltanto dopo la seconda guerra mondiale, quando migliaia di abitanti della zona di Trieste, della Dalmazia e dell’Istria vennero "infoibati", ovvero gettati vivi in queste cavità naturali a forma di imbuto rovesciato.

Le foibe presenti in questa zona, infatti, arrivano a profondità di più di 200 metri e nascondono al loro interno tenebre, abissi, gallerie strette e tortuose, fiumi sotterranei, che ne hanno causato l’erosione.

Non tutte le foibe, però, erano cavità naturali. La più tristemente famosa, infatti, la foiba di BASOVIZZA, era nata come un pozzo scavato nei primi anni del ‘900 alla ricerca di carbone e profondo 256 metri. 

A poco a poco esso era stato abbandonato, a causa dell’inutilità di tali ricerche e gli abitanti avevano iniziato ad utilizzarlo come discarica, facendo scomparire al suo interno oggetti come mobili, difficili da eliminare.

Le foibe iniziarono ad avere collegamenti con la guerra già nel primo conflitto mondiale, quando gli austriaci vi gettarono detriti, cannoni inutilizzabili, carcasse di cavalli.

Nel 1945 in questa località trovarono la morte molti italiani abitanti nella zona, trucidati in modo terribile: legati tra loro da catene e fili di ferro venivano spinti sull’orlo dell’abisso.

Una scarica di mitra uccideva alcuni, mentre gli altri, ancora vivi, precipitavano per centinaia di metri e arrivavano al fondo, magari senza trovarvi la morte istantaneamente, ma sopravvivendo tra i cadaveri, tormentati dai dolori delle ferite e dei traumi, dalla fame e dalla sete.

Pochissimi di essi riuscirono a salvarsi per caso, è il caso di Giovanni Radeticchio.

LE TORTURE

I corpi rinvenuti dalle foibe, seppur in avanzato stato di decomposizione rivelano le torture e gli abusi subiti prima della loro morte.

Qual è dunque stato il loro calvario? Testimonianze di uomini sopravvissuti miracolosamente a questa tragica esperienza e i referti dei medici che hanno esaminato le salme ci permettono di ricostruire a grandi linee l'atteggiamento generale dei partigiani nei confronti delle vittime, che erano indistintamente sia uomini che donne, talvolta incinte.

 Venivano prelevati dalle loro stesse case, condotti in locali occupati dai titini e lì torturati a lungo con i polsi legati dal fil di ferro, stretto a tal punto che ogni movimento provocava loro profondi tagli. 

I prigionieri erano tenuti a digiuno e malmenati brutalmente finché le loro guardie non si erano divertite abbastanza. Non erano poi rari i casi di stupro.

Legati a coppie con altro fil di ferro percorrevano un tratto a piedi, solitamente scalzi,fino all'orlo delle foibe.

Qui, nuovamente picchiati e coi polsi ormai martoriati, venivano svestiti; tutti i loro averi venivano presi e spartiti tra i partigiani, che a volte si impadronivano addirittura dei loro denti d'oro, staccati con violenti colpi di fucile al viso.

A questo punto i prigionieri denudati e provati dalle sofferenze inflittegli, venivano gettati nelle foibe: gli veniva appeso un grosso masso al collo che li trascinava verso il fondo oppure si sparava ad un componente della coppia, che  cadendo trascinava con sè l'altro, destinato così ad una morte di stenti ancora più dolorosa. 

Spesso quando tutti  erano stati infoibati  venivano  sparate raffiche di proiettili e  lanciate delle bombe a mano all'interno dei crepacci.

LE VITTIME

Quante furono le vittime delle foibe? Nessuno lo saprà mai! Di certo non lo sanno neanche gli esecutori delle stragi.

D'altra parte è pensabile che in quel clima di furore omicida e di caos ben poco ci si curasse di tenere la contabilità delle esecuzioni.

Molto si è discusso, anche per ragioni politiche, sulla dimensione delle stragi delle foibe, ma le stime più attendibili ci parlano di 600-700 vittime per il 1943 - quando fu coinvolta l'Istria interna - e di più di 10 000 arrestati, alcune migliaia dei quali non fecero ritorno, nel 1945, quando l'epicentro delle violenze fu costituito da Trieste e Gorizia.

Cifre assai minori, riferite al solo numero degli esumati, sono state a più riprese proposte per corroborare i giudizi riduzionisti, quando non apertamente negazionisti, espressi dapprima dal governo e poi dalla storiografia jugoslava.

Specularmente, i sostenitori della tesi che vede nelle foibe la tentata realizzazione di un progetto di "genocidio etnico" degli italiani della Venezia Giulia hanno spesso diffuso stime ben maggiori - superiori ai 10.000 morti, o più -, cui si arriva però soltanto corteggiando arbitrariamente fra gli infoibati anche le vittime italiane degli scontri con i partigiani jugoslavi nella regione.

Sulla base di vari elementi si calcola che gli infoibati furono alcune migliaia. Più precisamente, secondo lo studioso triestino Raoul Pupo, " il numero degli infoibati può essere calcolato tra i 4 mila e i 5 mila, prendendo come attendibili i libri del sindaco Gianni Bartoli e i dati degli anglo-americani".

Alle vittime delle foibe vanno aggiunti i deportati, anche questi a migliaia, nei lager jugoslavi, dai quali una gran parte non conobbero ritorno.

Complessivamente le vittime di quegli anni tragici, soppresse in vario modo da mano slavo-comunista, vengono indicati in 10 mila anche più.

Belgrado non ha mai fatto o contestato cifre.

Lo stesso Tito però ammise la grande mattanza.

Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella Foiba di Bassovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante.

Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri.

Lo spazio volumetrico - indicato sulla stele al Sacrario di Basovizza in 300 metri cubi - conterrebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime!

Ma chi erano le vittime? Italiani di ogni estrazione: civili, militari, carabinieri, finanzieri, agenti di polizia e di custodia carceraria, fascisti e antifascisti, membri del Comitato di liberazione nazionale.

Contro questi ultimi ci fu una caccia mirata, perché in quel momento  rappresentavano gli oppositori più temuti delle mire annessionistiche di Tito. Furono infoibati anche tedeschi vivi e morti, e sloveni anticomunisti.

TESTIMONIANZE

Ecco il racconto di Giovanni Radeticchio di Sisano, uno dei pochi superstiti:

"...addì 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all'ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin.

Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno.

Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani e urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio.
Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera delle torture. Ero l'ultimo ad essere martoriato: Udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi.

Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio.

Prima dell'alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all'imboccatura della Foiba.

Per strada ci picchiavano col calcio e con la canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro ad Udovisi, già sceso nella Foiba.

Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell'acqua della Foiba.

Nuotando, con le mai legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l'ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti.

Costernato dal dolore non reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte uscii da quella che doveva essere la mia tomba..."

Anche Graziano Udovisi si è miracolosamente salvato dopo essere stato infoibato, ecco le sue parole: 

"... Ad un certo punto ci hanno prelevati in sei e portati in un altra stanza per torturarci tutta la notte. Dopo mezz'ora non sentivo più nulla, avrebbero potuto anche tagliarmi a pezzettini, ma non me ne sarei reso conto. Ormai il corpo non rispondeva più ai riflessi, era inerme,e quando a un certo momento mi hanno ordinato di alzarmi in piedi, ho cercato di guardarmi intorno: il mio volto era talmente tumefatto, livido e gonfio che vedevo a malapena da due piccole e lunghe fessure degli occhi, dovevo avere la testa rovinata.
Ricordo di avere visto un mio compagno di fronte a me, la cui schiena era completamente rossa e mi chiesi per quale motivo lo avessero dipinto di quel colore, invece era tutto il sangue che stava uscendo dalle innumerevoli ferite.
Se lui era ridotto in quel modo, se gli altri erano così, allora anch'io ero in quelle condizioni, ma non me ne rendevo conto. E quando ci hanno fatto alzare in piedi per portarci fuori entrarono due ufficiali, un uomo e una donna, la quale disse che il più alto doveva stare davanti alla fila. Nessuno si mosse, allora questo ufficiale mi prese per i capelli, mi strattonò spingendomi davanti a lei, la quale senza dire una parola mi spaccò la mascella sinistra con il calcio della pistola.
Mi misero alla testa della fila perché ero ufficiale, gli altri erano dietro, ma l'ultimo non ce la faceva a stare in piedi. Forse perché lo avevano massacrato più degli altri, forse perché più debole, non so.
Sin dal primo momento di prigionia ci avevano legato le mani dietro la schiena col fil di ferro, per non slegarcele mai più, neanche durante le torture.
Si può facilmente immaginare come quei maledetti fili taglienti avessero solcato la carne dei polsi e come continuavano a incidere sulle ferite al minimo movimento. Poi ci misero in fila e ci portarono fuori seminudi, senza scarpe: forse il fresco della notte ha fatto in modo che capissi qualcosa di più, in quanto la testa era completamente imbambolata, il cervello funzionava relativamente.
A quel punto soldati, ben vestiti, ci portarono fuori, nel bosco, non erano quelli che ci avevano torturato. Dovevano essere dei militari, qualcuno della banda d'accordo con loro e anche borghesi, partigiani comunisti, erano tutti contro di noi. Ci hanno disposti in fila l'uno dietro all'altro, sempre con le mani legate dietro la schiena e ulteriormente legati insieme tramite un filo di ferro che scorreva sotto il braccio sinistro di ognuno, per formare una fila dritta, fino ad arrivare all'ultimo che, non avendo la forza di stare in piedi, essendo svenuto a terra, era stato legato non al braccio,ma attorno al collo.
Ricordo di aver sentito suggerire da due che parlavano in italiano, nel nostro dialetto, di legarlo attorno al collo. Sicuramente durante il tragitto l'ultimo è morto soffocato dal filo che ci legava l'un l'altro. Abbiamo camminato per un viottolo, non so per quanto tempo, ero distrutto e il fil di ferro che mi univa ai compagni era una tortura.
Appena riuscii a farlo scorrere leggermene lungo il braccio, fino al polso, mi sembrò un sollievo; in quel momento sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro. A causa di ciò ho subito tre operazioni al rene, che da quel momento ha sempre prodotto calcoli". 

Quante altre conseguenze ha avuto? 

"Tante. Non solo sono stato leso in modo tale da essere sordo all'orecchio sinistro e al destro ci sento per metà. Ma dal tragitto di trasferimento da Pola fino a Fianona me ne hanno fatte di tutti i colori, mi hanno fatto mangiare della carta, dei sassi, mi hanno sparato vicino alle orecchie, si divertivano a vederci sobbalzare. Mi hanno accompagnato verso un posto e ci hanno detto: 'Fermatevi. La liberazione è vicina'. Dentro di me ho mandato un pensiero al cielo.
Ho guardato dentro alla foiba, ma non vedevo niente, perché era mattina presto. Giù in fondo si scorgeva solo un piccolo riflesso chiaro. Si sono tirati indietro e quando ho sentito il loro urlaccio di guerra mi sono buttato subito dentro, come se questa foiba rappresentasse per me un'ancora di salvezza. Dopo un volo di 15-20 metri, non lo so, sono piombato dentro l'acqua. Venivo trascinato sempre più giù e mi dimenavo con tutta la poca forza rimasta in corpo. Ad un certo momento, non so perché, sono riuscito a liberarmi una mano. Ho immediatamente nuotato verso l'alto e ho toccato una zolla con dell'erba, era in realtà una testa con dei capelli. L' ho afferrata e tirata in modo spasmodico verso di me e sono riuscito a risalire, ringraziando Iddio. Ho salvato un fratello".

 Questa persona dov'è ora? 

"E' andata in Australia e purtroppo è morta, ma ha lasciato la sua testimonianza. Ha lasciato l'Italia, non trovava lavoro, non trovava più pace. Ha sofferto per la lontananza dalla sua terra e per la tortura subita.".