L'Italia tra Comuni, Impero e Papato

Il comune, una nuova forma di organizzazione politica.

Si definisce comune quella forma di governo che molte città italiane del nord e del centro si dettero a partire dal XII secolo.

Indipendenti da qualsiasi altro Stato, esse si governavano attraverso un'assemblea popolare e un consiglio di cittadini che emanava le leggi.

I magistrati, che restavano in carica per un tempo limitato, erano scelti per sorteggio, così come i membri dei consigli maggiori e minori, che presto sostituirono le assemblee generali, spesso tumultuose.

Questa modalità doveva permettere a ogni cittadino di partecipare alla vita politica della sua città e garantire trasparenza nella gestione degli affari.

In un'economia più libera nasce la borghesia

Con lo sviluppo dell' economia cittadina nacque e prese forza un nuovo ceto, cui appartenevano mercanti, artigiani, proprietari di botteghe o di manifatture dove si fabbricavano prodotti quali tessuti e abiti, armi e armature, vasellame, oggetti personali, gioielli ecc.

Questa classe venne chiamata nel suo insieme borghesia, e borghesi furono detti coloro che ne facevano parte.

Il nome derivò dalla parola "borgo", un agglomerato di abitazioni situate fuori dalle mura cittadine, dove spesso questi nuovi ceti, almeno agli inizi della loro attività, andavano ad abitare.

I borghesi operavano in ambito cittadino perché, per poter lavorare e guadagnarsi da vivere, avevano bisogno della libertà di commerciare e di viaggiare e dell'esenzione da tutte quelle tasse e da tutti quegli obblighi che sovrani e feudatari imponevano di frequente.

Inoltre, la società cittadina, a differenza di quella feudale, era molto vivace e mobile.

In città, la condizione di nascita aveva minore importanza: artigiani, mercanti, medici, notai (figure professionali che la ripresa economica aveva favorito) potevano diventare ricchi e importanti, perché ciò che valeva era la capacità di lavorare e di produrre beni per il mercato cittadino o regionale.

Città italiane e città europee

Le esigenze delle città dell'Occidente europeo erano tutte più o meno simili; le situazioni politiche variavano invece da un luogo all' altro e solo in alcuni casi permisero alle città di rendersi del tutto indipendenti.

In Italia, approfittando delle lotte fra l'imperatore e il pontefice, le città più importanti, prime fra tutte le repubbliche marinare, riuscirono a governarsi da sole e a svilupparsi molto rapidamente.

Ma la maggior parte delle città europee rimase sotto il controllo politico dei propri sovrani.

Molte ottennero che la società e i commerci fossero più liberi, ma sempre per concessione del rispettivo signore, e non acquisirono la possibilità di governarsi da sole.

Una situazione particolare si verificò in alcune città tedesche, specie nei porti mercantili del mare del Nord e del Baltico (Lubecca, Amburgo, Wismar, Rostock).

Raggiunta l'indipendenza, esse si riunirono in una confederazione detta Lega anseatica (da Hansa = unione). Più tardi anche le piccole città e regioni della Svizzera si riunirono in una confederazione.

I comuni italiani e il problema del loro governo

È chiamata comune la forma di governo indipendente che si dettero molte città italiane a partire dal 1100 circa. Per certe città, come Venezia o Lucca,l'indipendenza durò sei o sette secoli, anche se con forme di governo diverse da quelle del comune medievale.

I primi comuni, Milano, Firenze, Pisa, Genova, Bologna, si organizzarono spontaneamente e talvolta si collegarono fra loro, svincolandosi dall' autorità dell'imperatore e da quella del papa, fronteggiando e spesso combattendo i grandi feudatari e cercando di limitarne i poteri.

Lentamente, a partire dalle città, essi estesero il proprio potere alla campagna circostante, il contado.

Ciascun comune, come accadeva nell'antica Grecia, aveva un'assemblea popolare, chiamata anche parlamento o arengo.

Essa eleggeva due o più governatori, chiamati consoli, e un consiglio di cittadini che emanava le leggi.

Nominava anche i giudici dei tribunali, incaricati di amministrare la giustizia. Sia i consoli che i consigli venivano eletti per brevi periodi (sei mesi o un anno).

Poiché le riunioni divenivano spesso tumultuose e lunghissime, in molte città le loro funzioni vennero presto assegnate a gruppi più ristretti, detti consigli maggiori e minori, formati per sorteggio. Il sorteggio garantiva che tutti i gruppi sociali fossero rappresentati.

I consigli prendevano le loro decisioni sulla base di votazioni che in genere erano segrete.

La necessità di organizzare la vita cittadina rese necessaria la creazione di magistrature che amministrassero la sanità, le scuole, il controllo dei commerci, i rapporti con le altre città. Si trattò sempre di magistrature a tempo, che duravano sei mesi o un anno.

Gli addetti agli uffici erano scelti tramite sorteggio e retribuiti con piccoli compensi, perché lavorare al servizio del comune era considerato un dovere.

Con l'andar del tempo tale sistema si rivelò difettoso: gli uffici più impegnativi furono occupati dalle persone più facoltose, che potevano permettersi di interrompere il loro lavoro per un anno e che, inoltre, disponevano di grosse somme da spendere a favore del comune.

Alla fine questo sistema lasciò le più importanti cariche in mano ai soli membri delle famiglie ricche (l'aristocrazia), escludendo tutti gli altri gruppi sociali.

Le lotte sociali e l'istituzione del podestà

Ben presto, poiché non sempre tutti i ceti furono ammessi alle assemblee con uguaIi diritti, nacquero violente lotte tra i diversi gruppi politici (fazioni).
I ceti sociali presenti nella città erano: la nobiltà di antica origine, costituita da proprietari di terre vicine alla città il popolo grasso, formato da ricchi borghesi, mercanti, artigiani, proprietari di manifatture, professionisti, banchieri; il popolo minuto, formato da piccoli artigiani e commercianti.

Vi era poi una moltitudine di operai salariati e di persone che lavoravano occasionalmente o a giornata, di nuovi immigrati dalle campagne in cerca di un'occupazione. Tutti costoro avevano ben pochi diritti e non partecipavano alla vita politica.

Dapprima prevalsero i nobili e i soli mercanti più ricchi; in seguito furono chiamati al governo del comune anche il popolo grasso e il popolo minuto. Probabilmente il comune garantì per un certo periodo il massimo di democrazia possibile nell'Europa di quel tempo; una democrazia che, se non era estesa a tutti gli abitanti (rimanevano comunque esclusi le donne, i poveri, gli immigrati e gli abitanti del contado), assicurava a molti il diritto a una vera partecipazione politica.

Poiché, però, ogni decisione finiva per colpire gli interessi di qualche classe, fu inevitabile lo scontro, a volte anche violento, tra i cittadini di diversa estrazione sociale. Questo si acuì quando, nel conflitto tra pontefice e imperatore, le fazioni cittadine si appoggiarono all'uno o all' altro dei due contendenti.

Spesso i rappresentanti dei partiti sconfitti furono mandati in esilio e si rifugiarono in altre città; quando tornavano al potere, scacciavano a loro volta gli antichi avversari.

Lo stesso Dante Alighieri (1265-1321), il maggior poeta italiano del tempo, fu cacciato da Firenze per motivi politici e morì lontano dalla sua città.

Un tentativo di dare una risposta a tutte le discordie esistenti all'interno della città fu l'istituzione di una nuova figura: il podestà. Costui era un magistrato proveniente da un altro comune, chiamato per amministrare la giustizia in modo equo e imparziale, al di fuori dei partiti e delle fazioni cittadine.

Talvolta gli venne affiancata un'altra figura, una specie di governatore che rappresentava il popolo grasso: il capitano del popolo.

Nessuno di questi tentativi si rivelò, alla lunga, una soluzione efficace. Come vedremo, successivamente in molti comuni si preferì fare ricorso alla figura di un potente signore o di un capo militare, al quale affidare tutti i poteri perché in città fosse ristabilita la pace.

Fu in questo modo che l'organizzazione politica del comune cessò di esistere e al suo posto si affermò la signoria

DOCUMENTO:

I TALIANI, ROZZI E BARBARI



Così, nelle sue cronache medievali, il tedesco Ottone di Frisinga descrisse gli Italiani e le istituzioni politiche comunali.

I Latini [=gli abitanti dell'Italia settentrionale] imitano ancora oggi la saggezza degli antichi Romani nella struttura delle città e nel governo della cosa pubblica. Essi amano tanto la libertà che, per sfuggire alla soperchieria [= prepotenza] dell' autorità, si reggono con il governo di consoli anziché di signori [...] e, per non mancare di mezzi con i quali contendere ai loro vicini, non disdegnano di elevare alla condizione di cavaliere e ai più alti uffici giovani di bassa condizione e addirittura artigiani praticanti spregevoli arti meccaniche [=lavori manuali].
I Latini sono caratterizzati da rozzezza barbarica, cioè che mentre si vantano di vivere secondo le leggi, non obbediscono alle leggi. Infatti, mai o quasi mai accolgono con il dovuto rispetto il sovrano [= l'imperatore] a cui debbono mostrare volenterosa obbedienza [.. .] a meno che non si vedano costretti a riconoscerne l'autorità dalla presenza di un forte esercito.

Con le arti si afferma la qualità del lavoro

Nei comuni italiani ebbero sempre più importanza particolari associazioni professionali: le arti o corporazioni. La parolal "arte"significava allora "mestiere": chiunque esercitasse un mestiere era chiamato artigiano o artista.
Le arti si dividevano generalmente in arti maggiori e arti minori. Le prime comprendevano tutte le attività più ricche e più importanti: la produzione dei panni di lana e di seta, la banca, e alcune libere professioni come quelle dei giudici e dei notai, o dei medici e dei farmacisti (allora chiamati speziali). Le seconde comprendevano le attività meno ricche, cioè quelle di artigiani come i fabbri, i calzolai, i fornai, i muratori. Le arti erano governate da consoli, avevano propri regolamenti (statuti) e tribunali. Ciascuna di esse riuniva i padroni della manifattura o della bottega, i maestri.
Non ne facevano parte i lavoratori salariati e non era consentito esercitare un mestiere in proprio se non si era iscritti alla relativa arte.
Per l'iscrizione occorreva lavorare presso un maestro iscritto e, dopo alcuni anni di apprendistato, superare un esame e dimostrare di saper fabbricare un capolavoro (un abito, un quadro, un mobile), che doveva superare un esame attento dei maestri più importanti.
Le arti garantivano agli iscritti alcune forme di assistenza, soprattutto in caso di malattia; e ai loro familiari in caso di morte. Premiando i lavori migliori e garantendo con i marchi di fabbrica le botteghe più importanti e rinomate, esse suscitavano nei loro membri una forte consapevolezza della propria professionalità.

Arriva in Italia la lotta tra guelfi e ghibellini

Nello stesso periodo in cui i comuni italiani riuscivano a rendersi indipendenti, in Germania si costituirono due schieramenti politici rivali, destinati a condizionare anche la vita delle nostre città:

i guelfi (così chiamati da Welf, il nome del capostipite dei duchi di Baviera, legati a Roma), erano i sostenitori della supremazia papale;

i ghibellini (la denominazione proviene dal nome del castello di Waibling, in Svevia, appartenente alla dinastia imperiale degli Hohenstaufen), erano invece i difensori dell'autorità imperiale.

Federico Barbarossa contro i comuni

Nel 1152, con l'appoggio della parte ghibellina, venne eletto imperatore Federico I di Svevia, chiamato il Barbarossa. Egli era deciso a restaurare l'autorità imperiale, indebolita dall'autonomia dei comuni italiani e dalla forza politica, oltre che religiosa, del pontefice. Anche il nostro paese dunque si divise fra ghibellini, sostenitori , dell'imperatore svevo, e guelfi, suoi avversari. Questi ultimi, tuttavia, non si appoggiarono ai duchi di Baviera, che in Italia non avevano alcun peso, ma al papa, unica autorità che poteva opporsi all'imperatore.
Federico I si recò più volte in Italia con l'intenzione di riprendere il controllo del paese. Finalmente, nel 1158, egli riunì a Roncaglia, presso Piacenza, i rappresentanti dei comuni italiani in una grande assemblea (o dieta).
In quell' occasione l'imperatore dettò ai comuni le sue condizioni per evitare una dura punizione. Essi dovevano restituirgli i diritti che gli spettavano e dei quali si erano appropriati: il diritto di riscuotere le tasse, di coniare le monete, di nominare i giudici; inoltre i consoli, a partire da quel momento, sarebbero stati nominati dallo stesso imperatore, che avrebbe potuto controllare il governo delle città con propri funzionari. I castelli e le fortezze che le città avevano costruito nel contado dovevano diventare proprietà dell'imperatore o essere assegnati ai suoi vassalli.
Accettare tali richieste avrebbe significato per i comuni la perdita di ogni indipendenza. Per resistere all'imperatore le città più minacciate si unirono allora in una lega, che fu costituita presso il monastero di Pontida (Bergamo) e prese poi il nome di Lega lombarda. A essa aderirono ben 22 città, tra cui Milano, Bologna, Mantova, Brescia, Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Modena e Ferrara. La Lega ottenne il sostegno del pontefice Alessandro III e dei re normanni di Sicilia, tradizionali alleati del papa. La guerra durò molti anni. Nel corso di una spedizione in Italia Federico I assediò e distrusse Milano (1162) e costrinse il pontefice a fuggire da Roma. Non riuscì mai invece a minacciare seriamente l'Italia meridionale.
Ma alla fine, costretto a dover difendere il proprio potere anche dai feudatari tedeschi che gli erano nemici, Federico I perse la guerra, che si concluse con la battaglia di Legnano (1176). Le città aderenti alla Lega lombarda imposero, con la pace di Costanza (1183), le loro condizioni: ai comuni fu riconosciuta una larghissima autonomia e al papa fu garantita l'indipendenza del suo potere spirituale.

LA DOTTRINA DELLE DUE SPADE

In una lettera spedita a tutti i vescovi e principi del territorio tedesco, il Barbarossa formulò la cosiddetta "dottrina delle due spade". Tali spade appartengono entrambe a Dio, che ne consegna una al sovrano e una al pontefice. Secondo questa interpretazione, Dio ha voluto l'impero perché si occupasse delle "cose malvagie" del mondo, togliendone la preoccupazione alla Chiesa.

La potenza divina, origine di ogni potestà celeste e terrena, ha confidato a noi, a noi che siamo il suo Cristo, il regno e l'impero da governare, e la pace della Chiesa da difendere per mezzo delle armi imperiali [...]. Attraverso l'elezione dei principi, il regno e l'impero ci provengono da Dio soltanto; da Lui che, con la Passione del Cristo Suo Figlio, ha confidato il governo dell'universo alle due spade indispensabili (e questa è la dottrina che l'apostolo Pietro ha insegnato al mondo proclamando: "Temete Iddio, onorate il sovrano"; per cui, chiunque dichiarerà che noi abbiamo ricevuto in beneficium la corona imperiale dal papa, andrà contro il piano provvidenziale di Dio e la dottrina di Pietro, e sarà colpevole di menzogna.

Federico II: un re italiano

Non potendo restaurare l'autorità dell'impero con la forza delle armi, Federico I decise di affidarsi alla politica dei matrimoni. Suo figlio sposò Costanza, normanna, erede al trono di Sicilia, ma morì poco dopo. Dalla loro unione nacque Federico II, forse il più intelligente e capace sovrano del suo tempo.
Egli, a differenza del Barbarossa, si sentiva profondamente italiano. Con l'appoggio del papa Innocenzo III riuscì a riprendere il controllo del suo regno nell'Italia meridionale, dove feudatari e nobili si erano ribellati. Lo organizzò come uno Stato accentrato, detenendo nelle sue mani ogni potere. Per questo creò una'*"burocrazia di funzionari a lui fedeli, incaricati di occuparsi dell' amministrazione del regno e del governo delle province. Inoltre, fece pubblicare una raccolta di leggi scritte, per evitare dubbi e incertezze su che cosa fosse legittimo, e favorì lo sviluppo economico: "La ricchezza dei sudditi - scrisse costituisce la gloria e l'interesse del sovrano"
Federico fece di Palermo una splendida capitale e si circondò di consiglieri molto abili, fra i quali studiosi di diritto provenienti dall'università di Bologna. Favorì gli studi e la cultura: presso la sua corte i poeti della scuola siciliana usarono per primi nelle loro composizioni non più il latino, ma la nuova lingua italiana detta volgare perché parlata dal popolo. Fondò infine a Napoli un'università, rapidamente divenuta celebre per l'alto livello degli studi che vi si conducevano (1224).

Il papa riafferma il potere della Chiesa

Con l'indebolimento dell'impero che seguì alla sconfitta del Barbarossa, aveva ripreso forza l'idea della superiorità del pontefice su ogni altro potente della terra.
Il papa Innocenzo III (1198-1216), in un suo famoso scritto, sostenne che ogni potere derivava da Dio, dalla cui volontà discendevano l'autorità del pontefice sulle anime e quella del sovrano sui corpi; che il pontefice era il vicario di Cristo in terra e che, quindi, il potere del sovrano era sottoposto all' autorità del pontefice, alla quale non poteva disobbedire. Sulla base di queste idee la Chiesa poteva, anzi doveva, usare il proprio potere spirituale per comandare su chi governava i popoli. Non solo: doveva anche impedire che i sovrani o gli imperatori acquistassero un potere tanto grande da renderli indipendenti dall' autorità della Chiesa.

Per tali motivi, la Chiesa dapprima appoggiò Federico II, che nei primi anni di regno si era dimostrato un fedele seguace del papa. In seguito, però, quando Federico divenne imperatore e cercò di unificare i suoi domini in Italia, lo ostacolò duramente.
All' opposizione della Chiesa si unì poi anche quella dei comuni dell'Italia settentrionale, che non volevano perdere la loro indipendenza, e quella di alcuni potenti feudatari tedeschi. La Lega lombarda ricostituì allora un proprio esercito

LA SUPREMAZIA PONTIFICIA

Con la lettera Sicut universitatis conditor ("Come il fondatore dell'universo") il papa Innocenzo III ribadisce la superiorità del potere spirituale su quello temporale, utilizzando un paragone molto semplice, ma di grande efficacia.

Come Dio, creatore dell'universo,ha creato due grandi luci nel firmamento del cielo, la più grande per presiedere al giorno e la più piccola per presiedere alla notte, così egli ha stabilito nel firmamento della Chiesa universale, espressa dal nome di cielo, due grandi dignità: la maggiore a presiedere - per così dire - ai giorni, cioè alle anime, e la minore a presiedere alle notti, cioè ai corpi. Esse sono l' autorità pontificia e il potere regio. Così, come la luna riceve la sua luce dal sole e per tale ragione è inferiore a lui per quantità e qualità, dimensione ed effetti, similmente il potere regio deriva dal1'autorità papale lo splendore della propria dignità, e quanto più è con essa a contatto, di tanto maggior luce si adorna, e quanto più ne è distante tanto meno acquista in splendore.
Ambedue questi poteri hanno avuto collocata la sede del loro primato in Italia, il qual paese quindi ottenne la precedenza su ogni altro per divina disposizione. E perciò, se pure noi dobbiamo estendere 1'attenzione della nostra provvidenza a tutte le province, tuttavia dobbiamo con particolare e paterna sollecitudine provvedere all'Italia, dove furono poste le fondamenta della religione cristiana e dove l'eccellenza del sacerdozio e della dignità si esalta con la supremazia della Santa Sede.

Le repubbliche marinare

Le città dell'Italia centro-settentrionale godettero, invece, di un periodo di sviluppo politico ed economico. Fra le repubbliche marinare emersero soprattutto Venezia e Genova, che intorno al Trecento ottennero il controllo delle regioni circostanti. Amalfi, invece, era già decaduta sin dai tempi della conquista normanna. Quanto a Pisa, essa entrò in conflitto con Genova per il commercio nel Tirreno e venne duramente sconfitta nella battaglia navale della Meloria (1284). Da quel momento iniziò la sua decadenza, che l'avrebbe portata a cadere nelle mani di Firenze. Sia a Genova che a Venezia il potere politico fu esercitato dalle famiglie che si erano maggiormente arricchite con le attività mercantili, marittime e bancarie. A Venezia fu stabilito che solo i membri delle famiglie più ricche potevano ricoprire le cariche pubbliche importanti e amministrare la città. Tra loro veniva scelto il doge, capo supremo della repubblica veneta.
Per secoli queste due attive e vivacissime città riuscirono a godere di una prosperità economica davvero straordinaria, soprattutto grazie al commercio marittimo.
Le spezie e il pepe, indispensabili per conservare i cibi, costituivano una componente fondamentale dei loro commerci. Ma vi erano anche panni di lana e tessuti di seta, cristalli, pellicce, carta, coloranti: tutte merci preziose e poco ingombranti; prol prio per questo venivano comprate, trasportate e vendute in Europa, in Oriente e nell'impero bizantino.

Milano e Firenze

Anche a Milano e a Firenze la vita comunale ebbe una grande ripresa dopo la vittoria sull'impero. Firenze sviluppò particolarmente la manifattura della lana, esportando in tutta Europa i prodotti lavorati in città. Milano si specializzò anche nella fabbricazione di armii e armature e nella manifattura della seta. Alla fine del Duecento i banchieri fiorentini e lombardi erano i più grandi e famosi d'Europa. Si pensi che ancora oggi nella City, il centro degli affari economici e finanziari di Londra, esiste una Lombard Street, che ci ricorda quei momenti di splendore.
La ricchezza permise alle città italiane di coniare monete d'oro con il loro stemma; apparvero così il fiorino di Firenze, il durato di Milano e Genova, lo zecchino di Venezia. La vivacità della vita economica non impedì il verificarsi di lotte e di contrasti sociali, sia a Milano che a Firenze. Nella prima ripresero vigore le grandi famiglie della nobiltà feudale, fra le quali si mise in luce quella dei Visconti. Firenze attraversò un lungo periodo di guerre civili: per oltre due secoli popolo grasso e popolo minuto, nobili e popolani, guelfi e ghibellini lottarono per la conquista del potere.