I moti del 1821-1831-1848
La Rivoluzione francese in Italia suscitò diverse reazioni: da un lato, essa provocò entusiasmo tra gli ambienti borghesi e gli intellettuali, dall'altro, vi fu una certa ostilità da parte dei governi della penisola e dei ceti privilegiati, timorosi di perdere le posizioni preminenti da loro occupate rispetto al resto della popolazione.
Le masse reagirono con un eccessivo entusiasmo, spinte non tanto dalle ideologie, quanto dalla difficile situazione economica nella quale versava il nostro paese, illudendosi che la rivoluzione avrebbe costituito la soluzione a tutti i loro problemi.
I governanti dei vari Stati in cui era suddivisa la penisola non si schierarono attivamente in favore dei movimenti rivoluzionari, rimanendo neutrali, o trovandosi in una tale condizione di subordinazione alle grandi Potenze da dover aderire alla coalizione controrivoluzionaria.
Avvenne dunque che, per una naturale reazione a tale atteggiamento indifferente o ostile dei vari governi, si formassero movimenti di stampo patriottico-giacobino, che posero presto il problema del Risorgimento e dell'unità politica del nostro Paese; questi gruppi giacobini trassero origine dalla trasformazione di logge della Massoneria, presenti inizialmente in Piemonte e nel reame di Napoli, poi diffusesi nel resto della penisola e per altro condannate duramente dalla Chiesa Malgrado la defezione di alcuni Stati all'interno della coalizione antifrancese, il Piemonte nella primavera del 1795 rimaneva fedele all'Austria, prendendo in alcune occasioni l'offensiva contro la Francia;
l'anno successivo, quando il Direttorio affidò al generale Bonaparte il comando dell'Armata d'Italia, la situazione volse a favore dei Francesi, ed il re Vittorio Amedeo III di Savoia fu costretto a firmare l'armistizio di Cherasco, con il quale il Piemonte diventava praticamente una base per le ulteriori mosse delle forze francesi in Italia.
Napoleone infatti, nel maggio del 1796, penetrò in Lombardia e, battuti gli Austriaci, entrò a Milano il 15 di maggio.
La successiva caduta della fortezza di Mantova, e la minaccia di una marcia su Vienna da parte delle truppe francesi che già erano alle porte della città, convinsero infine l'Austria a firmare il trattato di Campoformio, il 17 ottobre del 1797, con il quale si riconosceva il dominio francese sul Belgio e sul Milanese, ed il passaggio all'Impero Asburgico della antica repubblica di Venezia.
Intanto a Milano, che era divenuta la sede del patriottismo italiano, un po’ perché resa importante da Napoleone e un po’ per il significativo afflusso di esuli, si andavano svolgendo polemiche sul futuro assetto dell’Italia; di ciò si discuteva soprattutto sui periodici, tra i più importanti di questi il "Termometro politico" ed il "Giornale dei patrioti italiani".
Sugli stessi periodici si discuteva soprattutto dell’assetto istituzionale da dare all’Italia; le tesi erano due: unitaria e federalista.
La prima, che prevedeva la progressiva costruzione dell’"universale repubblica italiana", aveva come sostenitori il Verri, il Gioia, il Galdi ed il Ranza; mentre invece la seconda tesi, che puntava alla creazione di dieci repubbliche, aventi ognuna una sua capitale, unite da un potere federale al quale sarebbe spettata la direzione della politica estera, era appoggiata da nomi come il Fantuzzi, il Rouher e il poeta Fantoni.
Sempre parlando di questo, possiamo aggiungere, come nota fondamentale, che le due tesi per un nuovo assetto istituzionale dell'Italia in questo periodo erano già presenti nelle discussioni e negli scritti degli intellettuali milanesi.
A Reggio Emilia il locale Senato, distaccandosi dalla Reggenza estense, aveva creato un governo provvisorio e chiesto la protezione francese; proprio in quei giorno a Reggio fu sorpreso un nucleo di Austriaci che venne attaccato e fatto prigioniero; l’episodio fruttò al Direttorio reggiano i complimenti di Napoleone.
Si può dunque dire che i Reggiani dettero una scossa alla sonnacchiosa Italia; nell’ottobre del 1796, per iniziativa francese, si riunì un congresso a Modena con i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, che deliberò la creazione di una "Confederazione Cispadana", ovvero una lega militare, e decretò inoltre la fondazione di una "Legione italiana"; in quegli stessi mesi Napoleone aveva progettato di fondare una "Repubblica Cisalpina". Questa creazione venne annunziata il 19 maggio 1797 e nei mesi successivi i territori della Repubblica Cispadana furono annessi a quelli della Cisalpina, la quale Costituzione fu impostata sul modello francese del 1795.
Ancor prima del trattato di Campoformio, nel Nord erano sorti movimenti patriottici, che furono stroncati con severe repressioni; molto più gravi furono i moti causati dal malcontento per il trattato stesso e la cessione di Venezia all’Austria; vane furono anche le espressioni di dolore per il sacrificio di Venezia dei più importanti poeti, come ad esempio il Foscolo.
Comunque i patrioti italiani dallo stesso sacrificio traevano argomento per stringersi intorno alla Cisalpina, che ormai rimaneva l’unica espressione di indipendenza dell’Italia; ripartendo alla volta della Francia, Bonaparte lasciò una situazione instabile, che comunque rispecchiava tutta l’affrettata costruzione napoleonica.
Vicende importanti frattanto si svolgevano nei vari Stati italiani; la Francia mirava all’occupazione di Roma poiché in un tumulto di piazza di repubblicani romani, sedato dalle truppe pontificie, era rimasto vittima delle stesse truppe il generale francese Duphot; proprio per questo il Direttorio francese prese la decisione di invadere Roma. Tale spedizione determinò la fuga del papa Pio VI; la Costituzione della repubblica romana ricalcava il modello francese del ‘95; molti, comunque, furono per essa i problemi, che la costrinsero alla vendita di molti beni della Chiesa per far fronte alle onerose contribuzioni imposte dai Francesi.
L’occupazione di Roma aveva inasprito i rapporti tra Francia e Regno di Napoli, ed in quello stesso anno il re Ferdinando IV decise di invadere la repubblica; i Francesi contrattaccarono subito e per Napoleone inizialmente l’avanzata fu ben facile, con l’esercito francese che si apprestava a giungere fino a Capua; nel 1799 Francesco Pignatelli stipulò una tregua a Sparanise che prevedeva l’occupazione francese di metà del regno e una notevole indennità di guerra.
Pressoché contemporanea alla caduta della monarchia napoletana fu quella piemontese; infatti, nello stesso mese il re Carlo Emanuele IV fu costretto a firmare un atto col quale cedeva ai Francesi ogni autorità sul Piemonte ed invitava i suoi sudditi ad obbedire a qualunque governo che ai Francesi volessero instaurare nel regno; ordinava altresì ai suoi soldati di considerarsi parte integrante dell’esercito francese.
Ai primi di marzo del 1799, infine, i Francesi procedevano all’occupazione anche del Granducato di Toscana, costringendo il granduca Ferdinando III ad abbandonare Firenze ed istituendo nella regione toscana non una nuova repubblica, ma soltanto una specie di amministrazione provvisoria.
Quando Napoleone partì per conquistare l’Egitto, venne costituita una formidabile coalizione contro la Francia alla quale aderirono Austria, Turchia, Russia e Regno di Napoli.
Le vittorie di questa coalizione determinarono la perdita di gran parte dei territori italiani e minacciarono di invasione lo stesso territorio nazionale francese: tra gli ultimi giorni di marzo e i primi di aprile, gli Austriaci batterono più volte l’esercito francese, comandati dallo Scherer, nella zona dell’Adige, costringendolo a ripiegare sulla linea dell’Adda; gli Austriaci ebbero anche come aiuto l’intervento di alcune truppe russe, comandate dal maresciallo Suvorov, ed i Francesi, guidati dal Moreau, subirono il 27 Aprile a Cassano d’Adda una sconfitta decisiva.
La repubblica Cisalpina cessò così di esistere, almeno per il momento. La Francia più tardi perse anche la Toscana, la repubblica partenopea e quella romana.
Tra la fine del 1799 e l’inizio del 1800 si assistette ad una gloriosa riscossa napoleonica; il Suvorov era stato già sconfitto in un’aspra battaglia presso
Zurigo, e nel frattempo Napoleone era ritornato in Francia dove aveva assunto poteri dittatoriali; così il 14 giugno a Marengo, inflisse una dura sconfitta all’esercito austriaco permettendo la rifondazione della repubblica Cisalpina e Ligure e riconquistando Toscana e Piemonte. Prima della fine dell’anno ha inizio la seconda fase della campagna fin qui trionfante; nel 1801 gli Austriaci si vedono costretti a firmare la pace di Duneville; dopo la fine di quest’ultima fase la Francia si ritrovò ancora più estesa territorialmente rispetto al periodo precedente la "caduta".
Rimaneva contro la Francia la sola Inghilterra, che era però ritenuta imbattibile grazie alla sua flotta; nel 1802 il trattato di Amiens prevedeva il riconoscimento da parte degli Inglesi della repubblica francese; questo trattato costituì un nuovo clamoroso trionfo di Bonaparte, che infatti venne nominata Console a vita e quindi Imperatore. Dopo pochi anni accennava a riprendersi la lotta tra Francia e Inghilterra; nel 1805 la flotta francese fu annientata da quella inglese a Trafalgar, una vittoria che lo stesso ammiraglio britannico Nelson pagò con la sua vita; Napoleone, malgrado questa sconfitta che renderà per sempre impossibile un attacco alla Gran Bretagna, raggiunse l'apice del suo trionfo, sbaragliando le coalizioni messe in campo contro di lui; non potendo sconfiggere militarmente gli Inglesi, decise di combatterla sul piano economico col celeberrimo "blocco continentale", che impediva ogni tipo di commercio con la sua rivale primaria. Ma per compiere pienamente questo progetto Bonaparte aveva bisogno di significativi appoggi che non avrebbe mai avuto. Nel frattempo l'occupazione di Roma e l'esilio forzato del Papa suscitarono opinioni contrastanti anche all'interno della Francia, paese di solida tradizione cattolica, mentre andava formandosi una coalizione decisiva che avrebbe messo in ginocchio definitivamente Napoleone.
In Italia Napoleone ampliò i territori sotto il suo dominio e diede un assetto alla penisola che avrebbe potuto cambiare solo con la caduta del suo impero; la sua decadenza iniziò con la campagna di Russia, in cui l'esercito napoleonico, pur entrando vittorioso nella capitale russa, fu costretto ad una drammatica ritirata che costò la vita ad un gran numero di soldati francesi.
Le forze della nuova coalizione, costituite da Gran Bretagna, Austria, Prussia, Russia e Svezia, poterono così riuscire a sconfiggere Napoleone ed entrare trionfanti a Parigi nel 1814. Naturalmente questo crollo comportò lo sfacelo dell’assetto politico dell’Italia e il Papa poté riprendere tranquillamente dimora a Roma. In seguito Napoleone riprese il potere in Francia e tentò l'ultimo colpo di coda, venendo però sconfitto definitivamente a Waterloo e costretto all'esilio.
Furono le potenze vincitrici a dettare il nuovo assetto politico dell'Europa post-napoleonica durante il Congresso di Vienna, i cui lavori proseguirono incuranti del ritorno sulla scena di Napoleone, con lo scopo di riportare l'Europa allo status quo ante.
Il progetto napoleonico crollò, ma il suo messaggio e la sua importanza rimasero indenni, anzi si svilupparono come idee innovative in un continente conservatore.
Il congresso di Vienna e la Restaurazione si erano impegnati a ristabilire in Europa gli equilibri e le autorità presenti prima della rivoluzione francese del 1789 e del dominio napoleonico; Metternich ed i suoi seguaci si diedero dunque da fare affinché i venticinque anni di rivoluzione venissero dimenticati e non si dovesse più temere un loro ripetersi. Sui troni di Francia e Spagna tornarono i sovrani assoluti (rispettivamente Luigi XVIII e Ferdinando VII), ed in Italia, mentre l’Austria riaffermava la propria autorità sul lombardo-veneto, i regni di Sardegna e Napoli dovettero misurarsi con le tendenze reazionarie dei loro monarchi.
Apparentemente quindi l’ordine era ristabilito, ma negli animi degli intellettuali e del popolo i nuovi modi di pensare e gli ideali ispirati dalla Rivoluzione Francese non sembravano volersi sopire. Cominciarono a svilupparsi fra i liberali le società segrete, fenomeno già diffuso durante il ‘700 ma che nell’Europa "restaurata" divenne di cruciale importanza, assorbendo l’intera ondata intellettuale e rivoluzionaria del tempo. Le società segrete erano libere organizzazioni di intellettuali, giovani e militari, ma anche artigiani e borghesi, che si riunivano per discutere di politica all’insaputa delle autorità, utilizzando riti e segnali misteriosi analoghi a quelli delle professioni e dei mestieri. Queste organizzazioni erano numerose e le loro tendenze le più disparate, ma il fatto più importante era che una fittissima rete di contatti interni le rendeva unite fra di loro e permetteva lo sviluppo al loro interno di un pensiero democratico sotterraneo. Una delle più importanti e diffuse società segrete dell’età della Restaurazione fu la Carboneria, che si rifaceva appunto per simboli e rituali alla professione del carbonaio, e che presentava in ideale democratico-costituzionale moderato. Essa era attiva soprattutto in Italia ed in Spagna, ed ebbe un ruolo di primo piano nei moti del ‘20-21.
Il 1° gennaio 1820 alcuni reparti dell’esercito spagnolo in procinto di salpare da Cadice per andare a sedare alcune rivolte nelle colonie americane si ammutinarono, opponendosi al regime repressivo del sovrano Ferdinando VII, e riuscendo nell’arco di pochi giorni a far dilagare la protesta ad altri reparti fino a rendere vana ogni opposizione regia. Il re fu costretto a ripristinare la Costituzione ed a concedere una camera elettiva ai ribelli.
Questi avvenimenti diedero il via ad un a sorta di reazione a catena che portò in breve alla ribellione di buona parte dell’area mediterranea. Nel dilagare delle rivolte ebbe una funzione importante la Carboneria, che impegnò tutti i suoi contatti spagnoli ed italiani per sobillare le popolazioni.
A pochi mesi di distanza dai moti di Cadice, contemporaneamente in Portogallo e nel Regno delle due Sicilie si assistette allo scoppiare della rivolta, che in breve portò i sovrani ad optare per le stesse soluzioni di Ferdinando VII e quindi a concedere la Costituzione. In tutti questi casi però la Costituzione faticò a restare salda, a causa dell’opposizione regia, degli interventi del Metternich volti a mantenere l’equilibrio viennese e soprattutto agli scontri interni fra moderati e democratici. A tutto ciò si aggiunse l’esperienza della Sicilia: dopo essere insorta forte anche di vaste masse popolari che ne reclamavano l’indipendenza dal regno di Napoli, si trovò a fronteggiare la repressione di quest’ultimo da sola, e la rivolta fu rapidamente sedata. Questo fatto non bastò a calmare le speranze ardenti dei liberali piemontesi e lombardi, che in collaborazione con la Carboneria progettavano la cacciata dall’Italia degli austriaci; purtroppo le trame lombarde furono scoperte ed i carbonari Silvio Pellico e Pietro Maroncelli furono rinchiusi nel tremendo carcere austriaco dello Spielberg.
Diversamente andò in Piemonte, dove i moti scoppiarono nel marzo del 1821 e portarono il re Vittorio Emanuele I ad abdicare in favore del fratello. In assenza di costui la reggenza andò nelle mani di Carlo Alberto, da tempo in contatto con le società segrete, che concesse di buon grado la Costituzione, simile a quella spagnola. Richiamato poco dopo all’ordine dal legittimo re Carlo Felice ed unitosi alle truppe di quest’ultimo, sconfisse i liberali guidati da Santorre di Santarosa a Novara.
Nonostante la loro fragilità, i moti di Spagna ed Italia destarono la preoccupazione nei conservatori seguaci del congresso di Vienna: oltre agli interventi personali del Metternich nelle singole questioni, si decise dunque di passare alla controffensiva ed il 23 marzo 1821 gli austriaci calarono sul Regno delle due Sicilie e vi ristabilirono il legittimo re Ferdinando I, che per vendetta mise in atto rigidissime forme di repressione. Poco dopo la parentesi rivoluzionaria cessava anche in Portogallo, in seguito al crudele intervento del re.
L’ondata rivoluzionaria del 1821 nei paesi che attraversò fu chiaramente tesa all’affermazione del nuovo mito della Costituzione, ma fallì miseramente nell’intento, soprattutto perché si poneva nei confronti dei re in maniera troppo aspra e decisa, creando una contrapposizione insolubile di mentalità.
Esattamente dieci anni dopo l’ondata rivoluzionaria del ‘20-21, un nuova serie di ribellioni ebbe luogo in Europa, avendo questa volta come epicentro la Francia, cuore delle tendenze rivoluzionarie europee. Alla morte di Luigi XVIII era salito al trono Carlo X, feroce sostenitore della Restaurazione e del cristianesimo. Contro la sua politica si schierarono non solo i democratici e gli intellettuali che si rifacevano all’esperienza giacobina, ma anche la grande borghesia affarista ed una fetta dell’aristocrazia. Nel ’29 il re affidò il governo a Polignac, capo della fazione degli ultras (ultrarealisti reazionari) parigini e sciolse la camera istituendo nuove elezioni. Quando queste non ebbero il risultato sperato, davanti al crescere dell’opposizione tolse la libertà di stampa e modificò la legge a suo piacimento rendendola ancora più restrittiva.
Il popolo di Parigi si riversò in piazza protestando, e dopo tre giorni di scontri con le truppe reali costrinse Carlo X ad abbandonare la città e dichiarò caduta la dinastia borbonica, nominando "luogotenente del regno" Luigi Filippo d’Orleans. Questi fu proclamato re dei francesi il 9 agosto dello stesso anno, varando una nuova costituzione sul modello della Carta del ’14, che accresceva il controllo del parlamento sul potere esecutivo, allargava il diritto di voto e realizzava una separazione più netta tra Stato e Chiesa.
Così facendo la Francia si liberava finalmente dell’etichetta di pilastro dell’Europa conservatrice ricavatole da Talleyrand a Vienna, e dava una spinta consistente a tutte le velleità di rivolta sepolte nel resto dell’Europa.
Il popolo di Parigi si riversò in piazza protestando, e dopo tre giorni di scontri con le truppe reali costrinse Carlo X ad abbandonare la città e dichiarò caduta la dinastia borbonica, nominando "luogotenente del regno" Luigi Filippo d’Orleans. Questi fu proclamato re dei francesi il 9 agosto dello stesso anno, varando una nuova costituzione sul modello della Carta del ’14, che accresceva il controllo del parlamento sul potere esecutivo, allargava il diritto di voto e realizzava una separazione più netta tra Stato e Chiesa.
Così facendo la Francia si liberava finalmente dell’etichetta di pilastro dell’Europa conservatrice ricavatole da Talleyrand a Vienna, e dava una spinta consistente a tutte le velleità di rivolta sepolte nel resto dell’Europa.
Le rivoluzioni che scoppiarono subito dopo in Italia devono molto ai moti francesi.
Al centro delle nuove insurrezioni italiane si collocano i personaggi di Ciro Menotti e del duca Francesco IV, figure che rivestirono un’importanza focale nell’origine degli avvenimenti. Francesco IV infatti progettava la nascita di una sorta di Regno del Nord Italia e sperava di poterne essere capo dando il proprio aiuto a Menotti, patriota frequentatore di società segrete che sognava un’Italia unita. Una volta resosi conto della follia del proprio progetto e della repressione che l’Austria avrebbe attuato su di esso, Francesco preferì tradire e consegnò alle autorità il Menotti il giorno prima della data in cui sarebbero dovuti scoppiare i moti. Ma era già troppo tardi ed il giorno dopo, 4 febbraio, ciò che non era successo a Modena accadde a Bologna e si estese rapidamente a tutto il nord Italia grazie alla fitta rete di contatti delle società segrete, costringendo Francesco IV alla fuga. Le varie insurrezioni cercarono quindi di coordinarsi fra di loro, creando il governo delle Province unite con sede a Bologna, e si dettero alla ricerca di un corpo di volontari disposto a marciare contro Roma. Purtroppo non se ne fece nulla perché dopo poco cominciarono a sentirsi in mezzo agli insorti voci discordanti, che impedirono una totale coesione degli intenti. Poco tempo dopo gli austriaci, non ostacolati dalla Francia come avrebbero sperato gli insorti, discesero nei ducati e si riappropriarono dei loro domini, raggiungendo anche il cuore degli insorti a Rimini e sterminandoli.
Oltre alle rivolte italiane, ai fatti di luglio fecero seguito altri moti liberali in diversi paesi europei. In Belgio il popolo ne approfittò per rivendicare l’indipendenza dall’Olanda, cui era stato annesso dopo il congresso di Vienna. Nell’unione gli interessi del Belgio erano stati sacrificati a quelli dell’Olanda, alla quale era riservata l’autorità principale nell’amministrazione e nella rappresentanza politica. La rivolta belga fu allo stesso tempo nazionale e costituzionale, e fu promossa da un’alleanza di cattolici e liberali con il sostegno della massa popolare. L’opera diplomatica della Francia e dell’Inghilterra fece fallire il tentativo del sovrano olandese di riprendere con la forza le province perdute e impedì che il conflitto si allargasse a comprendere tutta l’Europa. Il nuovo regno scelse come sovrano un principe tedesco, Leopoldo di Sassonia, e adottò una costituzione sul modello francese, che consentiva una più larga partecipazione dei cittadini.
In Russia l’autoritarismo dello zar Nicola I soffocava l’autonomia della Polonia, annessa durante il congresso di Vienna, e risvegliava le aspirazioni nazionali dei polacchi. Seppur per motivi diversi l’indipendenza era rivendicata tanto dai nobili quanto dai patrioti liberali, e fu così che allo scoppio dell’insurrezione, nel 1830, essa prese un carattere violento e di estrema risonanza internazionale. Infatti anche in Prussia ed in Austria l’opinione pubblica vedeva di buon occhio la perdita di prestigio che sarebbe derivata da quegli avvenimenti al regime zarista. Purtroppo però gli insorti riponevano grandi speranze nell’intervento della Francia e dell’Inghilterra nel conflitto, mentre le due potenze preferirono non schierarsi per non causare una guerra con le potenze assolutistiche russe. La rivoluzione fu domata nel settembre 1831, ed un nuovo ordinamento stabilito dallo zar il 12 novembre tolse alla Polonia ogni autonomia, soppresse ogni possibilità di vita politica e soffocò l’attività culturale, costringendo all’emigrazione patrioti ed intellettuali.
In Inghilterra i moti francesi stimolarono la lotta per la riforma parlamentare. Nel 1829, il governo tory ebbe un cedimento con l’abolizione di alcune discriminazioni contro i cattolici, che fu un primo passo verso il superamento della discriminazione religiosa. Da qui scattò un grande entusiasmo presso le frange politiche avverse ai tory, cioè i liberali del partito whig e i radicali. I radicali chiedevano il diritto di voto anche per gli operai delle industrie e i lavoratori agricoli, mentre i whig si limitavano ad esigere una ridistribuzione dei collegi che consentisse un’equa rappresentazione dei ceti industriali e mercantili. Entrambi erano però uniti nella lotta contro Wellington, capo del governo tory, che fu rovesciato dopo la vittoria dei whigs nelle elezioni del 1830. Un’ulteriore resistenza da parte della camera dei lords fu sbaragliata dalla pressione popolare e dall’approvazione nel 1832 del Reforming Act.
In Svizzera, dove fino a quel momento il potere era stato conservato da ristrette oligarchie, in seguito ad una serie di movimenti insurrezionali scoppiati in quasi tutti i cantoni furono proclamate costituzioni che sancivano la libertà politica dei cittadini.
Le rivoluzioni del 1830-31 furono l’ultimo episodio della collaborazione fra liberali e democratici e del collegamento della borghesia con movimenti insurrezionali popolari. Dove il potere fu conquistato dai liberali, si abbandonò l’alleanza con i radicali e talvolta si giunse ad un aperto conflitto. Nei paesi assolutistici, le differenze tra i metodi e gli obiettivi di lotta degli uni e degli altri diventarono sempre più nette, dal momento che i democratici continuarono a puntare sulla rivoluzione, mentre i liberali si affidarono solamente alla pressione dell’opinione pubblica sui governi, alla diplomazia ed all’appoggio degli Stati liberali.
L'azione di Giuseppe Mazzini dal '31 in poi: la creazione e diffusione dell'idea nazionale
E' precisamente pochi mesi dopo l'elezione al trono di Sardegna di Carlo Alberto di Savoia-Carignano, il 27 aprile 1831, che il Mazzini, dopo aver rivolto in una celebre lettera il suo saluto ed espresso le sue aspettative e quelle di tutta l'Italia al nuovo re, veniva organizzando e costituendo una nuova organizzazione politica, la Giovine Italia, che, pur non ignorando le esperienze settarie sia della Carboneria sia delle altre sette minori, si riproponeva di raccogliere i patrioti più ardenti per riorganizzare con loro l'opposizione politica all'Austria con nuovi mezzi e nuovi fini: si trattava di propugnare l'idea unitaria e repubblicana, inauditamente progressista per l'epoca. La grande fiammata del 1831, con l'episodio di Ciro Menotti, l'aveva tuttavia costretto all'esilio, a Marsiglia, ma da quel luogo egli aveva in animo di continuare con ogni mezzo la diffusione e la propaganda delle sue idee. E' appunto lì che nasce la Giovine Italia.
E' indubbio che il grande merito storico di questo movimento, tutto sorretto ed animato dalla grande personalità del suo fondatore, sta nel fatto di avere contribuito in modo determinante alla diffusione dell'idea di nazione negli strati liberali e progressisti, nel ceto che aspirava alla libertà. L'idea di libertà, certo presente, ma ancora in modo sovranazionale anche nei moti del '21 e nelle associazioni settarie, si congiunge col Mazzini indissolubilmente all'idea di nazione. Basti ascoltare queste istruzioni per gli affratellati, contenute negli scritti che venivano messi a disposizione dei nuovi adepti: "La Giovine Italia è la fratellanza degli Italiani in una legge di Progresso e di Dovere, i quali - convinti che l'Italia è chiamata ad essere Nazione, che può con proprie forze crearsi tale, che il mal esito dei tentativi passati spetta, non alla debolezza, ma alla pessima direzione degli elementi rivoluzionari, che il segreto della potenza è nella costanza e nell'unità degli sforzi - consacrano, uniti in associazione, il pensiero e l'azione al grande intento di restituire l'Italia in Nazione di liberi ed uguali, una, indipendente, sovrana."
Non pare esagerato pertanto affermare con Rosario Romeo, che:
"...il mazzinianesimo riuscì a realizzare, su scala nazionale, il primo movimento autenticamente democratico".
L'intensa carica ideale della Giovine Italia si concretizzò inizialmente in alcune azioni rivoluzionarie, tutte però caratterizzate da clamorosi fallimenti: il tentativo di far penetrare gli ideali politici del Mazzini tra gli ufficiali e i sottufficiali dell'esercito sabaudo, per minare le basi stesse del principio monarchico, fu la causa nell'aprile del '33 di una spietata repressione militare che vide il sacrificio di Jacopo Ruffini e le fucilazioni, tra gli altri, di Andrea Vochieri, di Efisio Tola (da ricordare la presenza tra gli esuli di Vincenzo Gioberti); per il '34 fu preparato un colpo di mano in Savoia, che con l'invasione di quest'ultima e il contemporaneo scoppio di un'insurrezione a Genova avrebbe dovuto far insorgere il Piemonte, ma l'insurrezione fu pregiudicata sul nascere a causa, soprattutto, dell'incompetenza del generale Ramorino. Questi insuccessi e la repressione ordinata in Piemonte e nel Lombardo-Veneto avevano messo in crisi il Mazzini, costretto all'esilio in Svizzera dove nell'aprile del '34 insieme ad esuli di altre nazionalità fondò la Giovine Europa in cui proclamava che la causa italiana doveva essere collegata strettamente a quella di tutti i popoli d'Europa. Braccato dalle polizie, riparò a Londra dove sorse "L'Apostolato Popolare", il foglio che gli consentì di penetrare più direttamente tra il popolo e, soprattutto, pose per la prima volta il problema dell'adesione dei ceti popolari alla futura rivoluzione italiana. La precedente crisi del Mazzini legata al dubbio dell'inattuabilità delle sue idee:
"...mi si affacciò il dubbio: forse io errava e il mondo aveva ragione. Forse l'idea che io seguiva era un sogno..."
e l'azione di coloro tra i vecchi compagni che si muovevano in altre direzioni, diedero inizio alla crisi del mazzinianesimo. Nel 1840 ricostituì la Giovine Italia, la cui efficacia attiva era stata praticamente annullata dalla raffica della reazione. Ma la costituzione di un'altra associazione di affiliati rivoluzionari, come "La lega italica" di Fabrizi, e il tentativo dei fratelli Bandiera, sebbene il Mazzini l'avesse fortemente sconsigliato, entrambi d'ispirazione repubblicana e tragicamente destinati al fallimento, contribuì a riaccendere le critiche nei confronti dei metodi mazziniani e fornì nuovi argomenti alle polemiche di parte moderata contro le strategie rivoluzionarie. Dunque acquistò importanza quella vasta corrente di opinione politica che aveva due facce: il neoguelfismo di Gioberti e il moderatismo di Balbo.
Dal romanticismo al neo-guelfismo: il "Primato" di Vincenzo Gioberti
Nel secolo decimonono, come noto, si sviluppò il Romanticismo: corrente culturale che comportò la ripresa e l'esaltazione dei valori nazionali, tanto contestati nel periodo illuminista. Si verificò, dunque, una rivalutazione del Medioevo e di conseguenza della chiesa cattolica, vista come il possibile elemento unificatore dei movimenti rivoluzionari nei paesi cattolici. Le opere letterarie di vari intellettuali italiani, per esempio le tragedie del Manzoni, le fantasie liriche del Berchet e le storie del Cesare Balbo e di Carlo Troya, contribuirono a rivalutare quei secoli, in cui il guelfismo fu garanzia di difesa e resistenza contro i prepotenti progetti di invasione da parte di principi ed eserciti stranieri. A porre in ulteriore evidenza la ritrovata funzione protettiva della chiesa vi fu la diffusa sfiducia verso i tentativi rivoluzionari, le agitazioni settarie e le congiure mazziniane. Comunque anche questa nuova religiosità, anche questo neo-guelfismo influenzato dall'attuale clima storico della società europea si configurò in un nuovo cattolicesimo ripensato con animo liberale. Personaggio simbolo di questa corrente di pensiero fu il Gioberti, cui va riconosciuto il grande merito di aver saputo lanciare al momento opportuno questo programma politico, che avrebbe permesso di rompere il fronte della reazione in Italia ponendo la questione nazionale sotto la bandiera papale. La sua opera principale "Il Primato morale e civile degli italiani" del 1843 fu criticato da alcuni moderati, tra i quali Cesare Balbo e Massimo d'Azeglio, ma soprattutto dai gesuiti che lo accusavano giustamente di volersi servire della Chiesa per un fine politico ad essa estraneo.
In seguito alla caduta del predominio napoleonico in Europa e in Italia, quest'ultima vide risorgere le barriere doganali tra i vari principati in cui fu divisa nel 1814. In Italia nessuno fu capace di ribellarsi all'Impero per raggiungere un'unità economica, come invece avvenne in Prussia, e dunque i traffici commerciali furono notevolmente danneggiati. Il Lombardo-Veneto si trovò nelle condizioni peggiori: oltre alle altissime barriere doganali estere e al fatto che il sistema commerciale di quel Regno fu "congegnato in modo tale da giovare all'economia austriaca e da eliminarvi qualsiasi concorrenza da parte italiana", per qualche tempo fu diviso dal cordone del Mincio e contò sul solo Po ventuno ricevitorie. Qualche modificazione apportata dal governo austriaco a questo sistema tanto restrittivo, le ricchezze di mezzi di comunicazione stradali e fluviali, la pace durata per quasi un trentennio e la grande tenacia di operai e padroni portarono a un notevole incremento dell'industria: in Lombardia ebbero grande importanza le industrie seriche di Pavia e Como. Vanno ricordate anche l'industria del lino, della lana, del cotone, insieme a quelle metallurgiche e siderurgiche, che conobbero un periodo di regresso, da addebitare alla politica doganale austriaca non favorevole all'importazione di ferro dall'Inghilterra, ma si ripresero negli anni '40 per la costruzione dei primi tratti ferroviari della Lombardia, oltre alle raffinerie di zucchero. I progressi furono comunque parziali in quanto sotto il regime austriaco, a differenza di quello francese, non vennero effettuati alcuni importanti investimenti in territorio lombardo, nemmeno sfruttando le imposte ordinarie, a causa dell'instabilità finanziaria dell'Impero.
Per capire meglio la situazione economica della Lombardia negli anni del ‘48 è utile riprendere alcuni passaggi di un importante saggio scritto dallo studioso americano K. R. Greenfield nel 1934 dal titolo Economia e Liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848. In esso l'autore ritiene molto importante la conoscenza della storia economica e sociale della nostra regione, e non nasconde la sua sorpresa per il fatto che di episodi apparentemente improvvisi come le Cinque Giornate di Milano "le storie del Risorgimento non offrono alcuna spiegazione che non sia nei termini di un idealismo esagerato, e alcun fondamento se non che in una serie di episodi insurrezionali." Invece, a suo avviso, è impossibile cogliere le autentiche premesse dei moti lombardi del '48 senza analizzare quel processo fondamentalmente legato allo sviluppo di una embrionale borghesia capitalistica in Lombardia nel periodo che costituisce la premessa storica del '48 milanese. Contemporaneamente, però, il Greenfield riconosce che senza l'analisi del processo che vide il diffondersi delle nuove idee nazionali ed unitarie all'interno del ceto intellettuale cittadino, idee atte, fra l'altro, a suscitare negli elementi più pensosi e più arditi l’immagine di una nuova e più moderna Italia, capace di mettersi al passo col più progredito occidente europeo, non si potrebbe arrivare a spiegare il fermento sfociato nelle cinque giornate. L’embrione di borghesia capitalistica che si forma nelle regioni economicamente più avanzate dell’Italia, e in Lombardia in primo luogo, prima dell’unità, è il nucleo generatore di una società di tipo moderno, ma senza i fermenti causati dalle grandi correnti di pensiero politico e civile, come l'idea neo-guelfa e il credo unitario nazionale mazziniano, probabilmente la miccia della protesta milanese non si sarebbe accesa.
Si può comunque dire che il complesso della vita agricola in Lombardia subì tra il 1814 e la metà del secolo una vera rivoluzione; gli industriali lombardi vivevano in una Europa suddivisa dalle alte tariffe della Restaurazione ed erano accerchiati dal sistema proibitivo dell’Austria. Nel 1848 si era già formata un’opinione pubblica italiana che non avrebbe più potuto essere governata utilmente coi principi e coi metodi dell'ancien régime, non tanto perché gli interessi materiali della società italiana erano stati rivoluzionati, quanto perché al pubblico era stata insegnata una nuova concezione di quegli interessi.
La Lombardia alla vigilia del 1848 appare infatti già caratterizzata da un grado piuttosto elevato di commercializzazione delle attività agrarie, anche se largo rimane il settore dell’autoconsumo contadino. Un commercio estero di prodotti agrari e materie prime piuttosto esteso, insieme ad una domanda interna che rimane quella di dimensioni maggiori, anche se non ha avuto la medesima funzione strategica della domanda estera nel determinare la ripresa economica della regione, consente all’agricoltura lombarda di realizzare redditi monetari che, accanto ad estesi reinvestimenti nella produzione agricola, danno l’avvio alla formazione di "riserve di capitale", cioè di risparmio, che appaiono considerevoli. Le prospere attività agricole e le connesse attività commerciali consentivano a larghi settori dell’economia regionale un ritmo di accumulazione discretamente sostenuto: ma la ristrettezza delle occasioni di investimento determinava una vera e propria "strozzatura" che provocava a sua volta un generale rallentamento del ritmo di accumulazione. Dovremo attendere l’unità d’Italia per trovare favorevoli soluzioni sui mercati; un esempio lo troviamo nello sviluppo della rete ferroviaria che permise al commercio dei latticini della bassa di estendersi verso le regioni del centro Italia. A loro volta i profitti derivanti dall’allargamento, si tradussero nella formazione dei risparmi, che incoraggiarono la creazione di banche di deposito e sconto.
Interessiamoci ora più nel dettaglio delle cinque giornate milanesi e della gente che in prima persona andò a combattere sulle barricate. Rifacendoci al registro mortuario delle barricate ci pare opportuno evidenziare che su un totale di duecentosessantuno persone registrate tra il 18 e il 23 marzo 1848, vi furono duecentoventisei artigiani, tre contadini, otto commercianti, due professionisti, due studenti, e ventotto donne. I ragazzi sotto i vent’anni furono ventotto e gli uomini oltre i sessant’anni furono diciotto.
Per esempio, nella foto qui di fianco, che, per motivi di spazio, abbiamo dovuto mantenere molto piccola, vediamo un elenco di professioni, che ci ha fatto riflettere. Come si vede abbiamo: un legatore, un domestico, una lavandaia, un tessitore, un fruttivendolo, un mendicante, un tintore, un macellaio, ecc. Sorge spontanea l'osservazione che tutti questi cittadini che sacrificarono la loro vita per un ideale di libertà, erano proprio quello che comunemente si chiama popolo.
Si può segnalare il fatto che nel documento "recenti notizie pervenute col mezzo del pallone aerostatico del 22 marzo ore 10 antimeridiane" si fa un generico riferimento ai cittadini quali individui che "hanno occupato l'interno della città sino al Castello" e che quindi tutti i rappresentanti delle diverse classi sociali fossero considerati come un unico corpo compatto. Analizzando bene, però, i dati sopra riportati, pur ribadendo che borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco, forte di quindicimila uomini comandati dal maresciallo Radetzky, furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso fisico degli scontri. Conferma una sostanziale unità di azione fra i diversi ceti anche la lettura di un estratto di un documento letterario di Paolo Ranci Ortigosa de Corte:
"il ponte sul Naviglio fu sbarrato con un'alta e larga barricata in pietra formata con lunghe e pesantissime lastre granitiche dei marciapiedi, che uomini e donne di tutti i ceti maneggiavano in modo veramente fenomenale"
La direzione delle operazioni fu assunta invece da un Consiglio di Guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale finirono, dopo molte esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita il 22 marzo a un Governo provvisorio. A questo proposito segnalerei che i componenti di questo governo erano per lo più conti o rappresentanti dei comuni lombardi, cioè aristocratici o borghesi. E ancora: da chi costoro trassero la forza, ma anche lo "indottrinamento" per salire sulle barricate? Forse una parziale risposta a questa domanda viene anche dalla sezione sulla musica che segue.
Nonostante che i contadini svilupparono un moto di protesta soprattutto nei mesi seguenti alle cinque giornate, ci pare opportuno segnalare anche il loro ruolo in quei momenti di grande fermento della società lombarda. In particolare può essere interessante notare la diversità di toni che si può rilevare in due diversi documenti. Nel manifesto politico del governo provvisorio, di cui Gabrio Casati era presidente, pubblicato il 12 aprile 1848, si legge fra l'altro:
"[...] Un popolo rigenerato nel sangue suo, sparso in un’eroica battaglia di cinque giorni, da lui combattuta con armi disegualissime contro un esercito numeroso e preparato di lunga mano, può fidamente presentarsi all’Europa senza superbia e senza viltà [...] noi abbiamo il diritto inalienabile che tutti i popoli hanno d’esistere da sé e d’essere padroni del suolo della patria: abbiamo il diritto d’essere Lombardi, non solo, ma Italiani."
Abbiamo colto in queste parole il linguaggio piuttosto carico di intensità retorica, che bene si inquadra col ruolo che il patriziato milanese ebbe nel sostenere la causa patriottica e liberale. Che, d'altronde, fosse fatta propaganda da parte dei rivoluzionari insorti verso le campagne, risulta ben chiaro da questo interessante volantino. La nota manoscritta in calce al medesimo, recita: "Veniva messo sugli aerostati lanciati da Milano durante le cinque giornate". Ci pare un eloquente esempio di quella momentanea unità d'intenti fra la popolazione cittadina e la campagna contadina.
Alquanto diverso suona invece il punto di vista di un contadino, che medita sulla annessione della Lombardia al Piemonte, e che appare caratterizzato fortemente da una viva ostilità alla generica categoria dei "ricchi":
"Se i ricchi, che già ci stringono i panni addosso negli affitti, avranno altresì il diritto di far leggi, potranno stringerceli addosso ancora più arbitrariamente ed impunemente: ci convien nominare un re, il quale, dettando le leggi e facendole rispettare protegga un pochino i nostri interessi e metta argine alla cupidigia dei ricchi."
Le masse dei contadini si muovevano più per necessità contingenti che in virtù di ideali, e le loro richieste erano generalmente di carattere pratico; per esempio in Valtellina cercavano di riprendere i beni comunali fondiari, che erano stati loro tolti e messi in vendita. E si potrebbe affermare che non avessero alcuna coscienza di classe e che il loro unico credo comune fosse l’odio contro i signori. All'indomani dell'espulsione austriaca, dopo le cinque giornate, i governi provvisori di Milano e delle province avevano adottato qualche provvedimento per alleggerire le loro condizioni, quali il ribasso del prezzo del sale, l’annullamento dei processi pendenti per motivi politici, l’abolizione del bollo. Ma queste misure non erano tanto il frutto di una politica seria improntata a rendere più umana la condizione di vita delle campagne, quanto misure demagogiche per assicurarsene l’appoggio. Ma anche in quel frangente non fu data loro piena soddisfazione: non furono abolite due fra le tasse più odiate: il testatico (la tassa sulla persona) e le decime da pagare ai parroci. Ed in seguito il disagio economico aumentò, per la crisi dell’industria serica, la diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli e le requisizioni di derrate fatti dagli eserciti. Questa linea di condotta del Governo Provvisorio accresceva il disagio economico e esasperava il fermento dei contadini.
Nonostante questo avverso trattamento loro riservato dai moderati, i contadini hanno reazioni varie ed anche opposte verso i moti rivoluzionari: da una parte caldeggiano la lotta antiaustriaca, dall'altra si rivelano ostili alla leva e alla guerra. Questa contraddizione è dovuta anche alla loro dispersione e alla mancanza di una direzione, ma soprattutto al fatto che il loro odio era contro i signori qualunque fossero, austriaci o lombardi. I contadini dimostrarono con più segni di aver cominciato a comprendere che le loro sorti non si identificavano con quelle della monarchia asburgica, che la loro causa era ben distinta da quella austriaca e che, se i nobili e i signori erano loro nemici, non per questo necessariamente i "tedeschi" erano loro amici. Ricordiamo inoltre che la partecipazione contadina alla lotta contro l’Austria fu volutamente impedita o limitata dai grandi proprietari terrieri; i moderati esercitavano una cosciente funzione di freno alla lotta e alla partecipazione delle campagne perché temevano che questo intervento delle masse popolari potesse condurre a forme di anarchia