Papato e Impero

La minore età di Federico II, figlio di Enrico VI e Costanza d'Altavilla, nonché la crisi dell'impero dopo la sconfitta nella battaglia di Legnano contro i Comuni del nord-Italia, crearono le condizioni favorevoli al tentativo del papato di sostituirsi all'impero nell'esercizio della sovranità politica universale.

Il nuovo papa, Innocenzo III (1198-1216) si propose di rilanciare il programma teocratico di Gregorio VII, per il quale il potere politico dei sovrani cattolici proveniva da Dio attraverso la Chiesa: cioè nessun potere laico era legittimo senza il previo riconoscimento da parte della Chiesa.

Di qui la teoria, elaborata da Innocenzo III, della Luna-Impero che riceve la sua luce dal Sole-Chiesa.

Il papa cominciò ad applicare questa teoria nella città di Roma, dove l'autorità politica era costituita dal prefetto, rappresentante dell'imperatore, e dal Senato, organo di governo del Comune.

Il prefetto gli prestò giuramento, mentre il Comune accettò una costituzione che dava al papa il potere di nominare il senatore al quale era affidato il governo della città.

Poi proseguì l'azione in quei territori dove più forte era l'influenza della Chiesa: Umbria, Marche e Romagna (che più tardi formeranno lo Stato della Chiesa).

Aiutò i Comuni di queste regioni a liberarsi dalla tutela imperiale e li indusse a porsi sotto la sua protezione.

Fece inoltre riconoscere a Costanza d'Altavilla, vedova di Enrico VI, la signoria feudale della Chiesa sul regno normanno e, alla morte di lei (1198), assunse la reggenza per conto del piccolo Federico, col proposito di dividere il regno di Sicilia dalla Germania.

Sicilia, Aragona, Portogallo, Inghilterra, Francia, Svezia, Danimarca, Polonia, il regno di Gerusalemme e l'impero latino di Costantinopoli riconobbero la sovranità del papa, il quale, in cambio, appoggiò i movimenti espansionistici del mondo cristiano: a nord-est, dove i monaci-cavalieri dell'ordine Teutonico e di Portaspada procedettero con estrema violenza alla cristianizzazione dei Paesi Baltici, con l'aiuto delle città commerciali della Lega Anseatica (1202-1204) nel Mare del Nord (Amburgo, Danzica, Lubecca, Stettino, Brema ecc.); nel Mezzogiorno francese, dove scatenò la crociata contro gli Albigesi, ottenendo il feudo di Avignone;

a oriente, dove bandì la 4a, 5a e 6a crociata contro i Turchi in Palestina; a occidente, dove bandì una crociata contro i Musulmani di Spagna, che si concluse a favore dei cristiani. Contro le eresie ricorse non solo allo strumento della crociata, ma anche a quelli dell'Inquisizione e degli Ordini mendicanti (soprattutto Francescani e Domenicani: quest'ultimi, a partire dal 1233, dirigeranno il Tribunale dell'Inquisizione).

Innocenzo III riuscì anche a coalizzare le forze di Federico II di Svevia e di Filippo II Augusto, re di Francia, sia contro il re inglese Giovanni Senza Terra, che aveva rifiutato di riconoscere come primate della Chiesa inglese un cardinale nominato dal papa, reagendo alla scomunica, che quest'ultimo gli aveva lanciato, con la confisca di tutti i beni della Chiesa inglese; che contro le rivendicazioni alla corona imperiale di Ottone IV di Brunswick (Germania), che, pur essendo del partito guelfo, non piaceva a Innocenzo III, avendo cercato di conquistare l'Italia meridionale. La vittoria della coalizione filo-papale rafforzò per un breve periodo di tempo l'idea della teocrazia, ma in seguito si rivelò alquanto effimera: sia perchè la Francia iniziava ad affermare le proprie tendenze espansionistiche ed assolutistiche anche ai danni del papato; sia perchè Federico II era quanto mai interessato alla costituzione di una monarchia siculo-italiana (spostando nell'isola il centro dell'Impero), pur avendo egli promesso al papa che, appena divenuto imperatore, avrebbe rinunciato alla corona siciliana; sia perchè infine Giovanni Senza Terra, per non perdere la propria corona,

dopo la sconfitta militare, sarà costretto, a causa di una rivolta delle forze feudali e urbane unite, a concedere la Magna Charta Libertatum, la quale pone le premesse per la formazione dello Stato moderno, indipendente dalla Chiesa.

Magna Charta Libertatum (1215)

Essa per la prima volta sancisce, sul piano della legittimità, che:
1) i rapporti tra il re e la nobiltà sono regolati non più da atti di forza o dalla consuetudine feudale, ma da un patto bilaterale, giurato e sottoscritto, che impegna a precisi obblighi i contraenti;
2) il patto è ritenuto unica fonte legittima cui fare riferimento in caso di rivendicazioni avanzate da una parte o dall'altra, e in casi di contestazione per eventuale abuso di diritti. Alla concessione della Magna Charta seguirà col tempo l'istituzione del Parlamento, organo di controllo dei poteri statali e di tutela delle libertà sancite dallo statuto.

Sul piano del merito essa prevede:

1) il re s'impegnava a non intromettersi nella elezione delle cariche religiose e a non impadronirsi dei beni ecclesiastici;

2) egli prometteva di non pretendere dai suoi vassalli (baroni, grande borghesia e alto clero) tributi straordinari senza il loro esplicito consenso;

3) garantiva che i membri di questi ceti sociali non potevano essere arrestati, dichiarati fuorilegge e sottoposti a confisca dei beni senza il giudizio di tribunali composti da uomini di grado e posizione uguali;

4) si permetteva ai mercanti stranieri la libera circolazione in Inghilterra;

5) si stabiliva l'unità di pesi e misure per tutta la nazione.

Nonostante che questo patto non concedesse alcun diritto alle classi sociali marginali, il re, sostenuto dal papa, si rifiutò di riconoscerlo, per cui esso, in un primo momento, non venne applicato alla lettera. In questo senso, forse ad esso fu data un'importanza più grande di quella che effettivamente ebbe, per quanto esso costituì un punto di riferimento cui sempre ci si richiamerà ogniqualvolta si tratterà di risolvere delle controversie tra monarchia e aristocrazia.

FEDERICO II (1220-1250). Intanto Federico II, uscito di minorità, cercò di unire al suo trono siciliano quello tedesco, e vi riuscirà dopo otto anni di dura lotta contro i guelfi di Ottone IV. Resosi tuttavia conto che il Meridione italiano rischiava di finire sotto l'egemonia del papato, decise di riorganizzare il regno di Sicilia, trasferendo qui il centro di tutte le sue iniziative politico-culturali ed economico-amministrative. I problemi maggiori che doveva affrontare erano l'anarchia feudale e il controllo di tutto il commercio insulare da parte delle repubbliche marinare centro-settentrionali.

La morte di Innocenzo III lo aveva liberato dai due impegni assunti in precedenza con la Chiesa: promuovere una crociata in Oriente e rinunciare alla corona siciliana dopo aver ottenuto quella tedesca. Uno dei successori di Innocenzo III, Gregorio IX, gli lanciò la scomunica per indurlo a fare la crociata e ad allontanarsi dal Meridione. Federico accettò, ma, invece di ricorrere alle armi, preferì venire a patti col sultano d'Egitto. Il papa non solo rifiutò l'accordo, confermando la scomunica, ma bandì anche contro di lui, durante la sua assenza, una crociata nel Meridione. Federico dovette ritornare subito in Italia e combattere contro l'esercito pontificio. La scomunica venne revocata dietro la promessa ch'egli avrebbe rispettato i privilegi della Chiesa nel regno di Sicilia -cosa che poi non fece.

In Sicilia Federico creò una monarchia feudale in cui l'equilibrio tra il re e i baroni e tutta l'amministrazione furono assicurati da un forte apparato burocratico alle dirette dipendenze della corona. In tal modo venivano ridotti al minimo molti privilegi politico-amministrativi della nobiltà e del clero (sostituì ad es. i tribunali ecclesiastici con i propri nel giudizio degli eretici). I funzionari, nominati dal sovrano (come le maggiori autorità cittadine: podestà, consoli...), non erano tedeschi ma della stessa Italia meridionale, istruiti presso un centro studi universitario che lo stesso sovrano fece aprire a Napoli.

- Sul piano economico:

1) confiscò i fondi di cui poteva contestare i titoli di legittimità (così potè assicurarsi un demanio consistente);

2) impose un dazio fisso su tutti i beni esportati e importati;

3) creò alcuni monopoli statali commerciali (seta, canapa, ferro, sale).

- Le forti entrate finanziarie gli permisero di realizzare un esercito mercenario regolare (composto anche da saraceni) alle sue dirette dipendenze, grazie al quale poteva fare a meno del contributo dei feudatari, anche se continuava a servirsi degli eserciti tedeschi.

- Sul piano culturale sviluppò la fusione della tradizione bizantina, araba e normanna. La cultura era aristocratica e imitava i modelli provenzali francesi. Espressione più significativa: La scuola siciliana (primo esempio di volgare scritto).

- Tutta l'opera politico-economico-amministrativa venne da lui codificata nelle Costituzioni di Melfi (1231), che per certi aspetti anticiperanno di molti secoli l'organizzazione degli Stati moderni, poiché esse miravano a trasformare lo Stato feudale in una ordinata monarchia assoluta, con la sudditanza di tutti i ceti a un unico potere centrale.

Quando cercò di far valere questi principi anche nel resto della penisola, lo scontro con i Comuni più forti e indipendenti fu inevitabile. Federico infatti voleva limitare sia il potere feudale che quello cittadino. Sennonché i Comuni si riuniranno in una nuova Lega Lombarda e, pur risentendo fortemente di lotte intestine tra guelfi e ghibellini, pur uscendo in un primo momento sconfitti militarmente dallo scontro con le forze imperiali, alla fine riusciranno a trionfare, grazie anche all'aiuto del papato, che lanciò una nuova scomunica contro di lui, determinando la rivolta sia dei grandi feudatari tedeschi, sia dei sudditi siciliani e meridionali, esasperati dal fiscalismo e dai vari monopoli statali. Dopo la sua morte, i possedimenti della sua dinastia vennero spartiti tra i principi tedeschi, e la Germania resterà sino all'unificazione nazionale divisa in principati territoriali.

Con la sua morte finisce per sempre l'idea di poter realizzare un Sacro Romano Impero, cioè una teocrazia universale guidata dall'Imperatore. Gli Stati centralizzati, nazionali, da un lato, e lo sviluppo urbano e mercantile, dall'altro -entrambi gelosi della loro indipendenza- erano diventati irreversibili.

LA FINE DELL’UNIVERSALISMO PAPALE

L’ultimo grande papa (dopo Gregorio VII e Innocenzo III, avversari, rispettivamente, degli imperatori Enrico IV e Federico II) che proseguì il programma teocratico secondo cui al pontefice spettava la supremazia su ogni autorità politica del mondo cristiano, fu BONIFACIO VIII (1235-1303). Questo programma, sino a Bonifacio VIII, non aveva incontrato ostacoli molto grandi per una ragione molto semplice: i Comuni e i feudatari avevano sempre cercato di approfittare della controversia tra papato e impero per indebolire soprattutto quest’ultimo, sicuramente più forte della chiesa sul piano militare.

Tuttavia, nella misura in cui l’Impero era costretto a cedere ampi poteri sia ai Comuni che ai feudatari (per non parlare delle emergenti monarchie nazionali), anche il potere universale della chiesa si trovava compromesso, indebolito: essa infatti non tarderà ad accorgersi di non avere la forza sufficiente per opporsi a chi aveva saputo ridimensionare le pretese dell’Impero. In particolare, la funzione politica universale della chiesa si poneva in netto contrasto con gli orientamenti delle monarchie nazionali. Di tutte le nazioni, quella che alla fine del ‘200 sembrava potersi meglio imporre contro il programma teocratico era la Francia. Soprattutto con Filippo IV il Bello (1268-1314) il centro del potere politico-istituzionale era passato nelle mani del re e del suo apparato burocratico, contro le resistenze autonomistiche del mondo feudale.

All’origine del conflitto vi fu la richiesta di contributi finanziari da parte di Filippo IV, impegnato in una guerra contro l’Inghilterra. Il re volle imporre le tasse anche al clero francese, senza chiedere l’autorizzazione del papa. Bonifacio VIII rispose minacciando la scomunica, ma la rottura venne scongiurata grazie a un compromesso (il re, con una serie di provvedimenti, aveva ostacolato il normale flusso di denaro dalla Francia a Roma). Il compromesso però durò poco. Nel 1300 infatti Bonifacio VIII istituì un vescovado in Francia senza chiedere l’autorizzazione del re. Filippo IV fa arrestare il vescovo sotto l’accusa di lesa maestà. Il papa convoca un concilio a Roma per giudicare la condotta del re ed emana la bolla Unam Sanctam. Il re risponde proibendo ai vescovi francesi di uscire dal regno. Poi convoca per la prima volta gli Stati Generali (nobiltà, clero e borghesia) per istruire un regolare processo contro il papa, accusato di simonia, eresia ed assassinio del papa Celestino V. Il papa allora prepara una bolla di scomunica contro Filippo IV e di interdetto contro la Francia. Ma ormai è troppo tardi. Il re aveva deciso di far catturare il papa trasferendolo di forza in Francia. Gli abitanti di Anagni si oppongono efficacemente ai francesi, ma il papa, rientrato a Roma, muore pochi mesi dopo. Il suo successore, Clemente V, decide di trasferire la sede pontificia ad Avignone nel 1305. Il papato, per quanto al proprio interno riuscisse a confermare il principio della propria superiorità su tutti gli ordinamenti ecclesiastici, si doveva sottomettere alla politica francese (i papi avignonesi furono tutti francesi di nascita).

La dottrina politico-giuridica di quel tempo era arrivata alla convinzione che il potere politico doveva essere indipendente da quello religioso, in quanto proveniente direttamente da Dio e non dal papa (vedi ad es. Dante), e non solo doveva esserlo il potere politico dell’imperatore ma anche quello dei singoli re nazionali, che nei loro regni cominciavano a considerarsi degli "imperatori" (sviluppo del principio della "sovranità nazionale"). Marsilio da Padova, nel suo Defensor Pacis, arriverà addirittura a dire che imperatori e re derivano la loro autorità dal popolo, che anche la chiesa si fonda sulla sovranità popolare e che il papa è subordinato all’imperatore.

Il grande scisma d’Occidente (1378-1417). Durante la cattività avignonese, i papi faranno di tutto per ridurre in soggezione i signori ribelli dello Stato pontificio. Solo nel 1377 il papato riuscirà a riportare la sede a Roma, ma appena questo avvenne scoppiò il grande scisma d’Occidente. Il pretesto che fece scoppiare lo scisma fu l’elezione del nuovo pontefice Urbano VI, cui si oppose il Collegio dei Cardinali, in maggioranza francesi, i quali dichiararono d’essere stati costretti a votarlo sotto la minaccia violenta del popolo, che reclamava un papa romano o almeno italiano. E così, tutti i cardinali ribelli elessero un antipapa, Clemente VII, che si insediò ad Avignone, dopo aver cercato inutilmente di sbarazzarsi di Urbano VI. La cristianità fu così divisa, con grande scandalo e confusione, in due partiti. La crisi, questa volta, era interna alla stessa istituzione ecclesiastica.

Per far cessare lo scandalo, molti cardinali delle due sedi si riunirono nel Concilio di Pisa (1409), ove decisero di deporre i due papi e di eleggerne un terzo, Alessandro V, con sede a Bologna. Ma gli altri due papi non vollero riconoscere come legittimo il concilio, il quale, secondo i canoni, doveva essere convocato dal papa e da lui presieduto.

Lo scisma poté essere risolto solo col successivo Concilio di Costanza (1414-18), che, convocato dall’imperatore Sigismondo con l’approvazione dei tre papi, decise: 1) di deporre i tre papi, eleggendone un terzo: Martino V; 2) di trasformarsi in un istituto permanente, ovvero in un organo costituente della chiesa (in grado di convocare altri concili), al fine di dare alla chiesa un ordinamento parlamentare, nel quale il potere monarchico del papa fosse subordinato a quella del concilio (Martino V tuttavia seguirà una politica ostile, anche se cauta, al movimento conciliare); 3) il concilio condannò le dottrine di Wycliff e mandò Huss al rogo, giudicati eretici (anticiparono le idee di Lutero).

Il piccolo scisma d’Occidente (1439-49). La lotta tra le tesi papiste e quelle conciliariste determinò un altro scisma all’interno della chiesa. Eugenio IV, infatti, successore di Martino V, dopo aver convocato un concilio a Ferrara e poi a Firenze per discutere con la chiesa greca la riunificazione delle due confessioni (cattolica e ortodossa), chiese che quello ecumenico di Basilea (già convocato da Martino V per discutere il problema dell’autorità del papa) fosse sciolto (a Basilea infatti si stavano affermando le tesi conciliariste). I prelati di Basilea opposero un netto rifiuto, deposero Eugenio IV ed elessero papa Amedeo VIII duca di Savoia col nome di Felice V. Questa volta però ebbe la meglio il papa di Roma, poiché da un lato poté far valere a suo prestigio il ritorno della chiesa greca alla disciplina di Roma (i bizantini speravano nell’aiuto dei latini contro i turchi), dall’altro riuscì ad ottenere l’appoggio dell’imperatore germanico Federico III d’Asburgo, che chiuse d’autorità il concilio di Basilea. Il papato poté così ripristinare il suo primato sul concilio. Fallì invece la riunificazione con l’ortodossia, poiché la sconfessarono immediatamente le popolazioni e il clero orientali.