L'orrore della guerra
L’uomo è ormai comparso da diversi secoli su questo pianeta e si vanta di aver raggiunto con le sue sole forze un altissimo livello tecnologico, culturale e sociale: in altre parole, gli uomini affermano con arrogante presunzione di esser progrediti, di aver imparato dai propri errori e di esser proiettati verso un radioso futuro.
Certamente è innegabile che oggi non si usino più due pietre per accendere il fuoco, ma si può veramente affermare che l’uomo sia significativamente progredito dal giorno della sua comparsa su questa terra?
Oppure non è forse vero che quest’essere è ancora oggi governato, tiranneggiato, dalle stesse passioni, dagli stessi istinti animali, che lo spinsero a muovere i primi passi?
A mio avviso, il progresso di un popolo, di una razza, meglio di un’intera specie, non si misura dal numero di satelliti che riesce a mettere in orbita, ma dai semplici gesti quotidiani, dagli affetti che vive e dalle sofferenze che patisce. Il progresso dell’uomo risiede nell’aver posto una linea di demarcazione tra bene e male, tra accettabile e inaccettabile: purtroppo, però, gli uomini non riescono a rispettare quel confine da loro stessi instaurato e tradiscono i loro principi più profondi, i loro valori più sacri.
Cosa può esserci di più sacro della vita stessa, quando tutte le culture umane adorano un Dio che è creatore e signore della vita?
Eppure, non mancano nelle cronache quotidiane episodi d’inaudita violenza che spezzano fragili vite d’indifesi innocenti.
L’uomo è come rinchiuso in un bellissimo e delicatissimo giardino: egli n’ammira l’infinita bellezza, s’inebria della vita e della gioia che sprigiona, ma non appena sfiora un fiore, non appena tenta di coglierlo, ecco che questo appassisce, quasi rabbrividisse ad un simile contatto. Non nego che le persone siano piene di buone intenzioni, ma non riescono a –metterle in pratica, anzi nel tentativo di realizzarle concretamente distruggono, senza accorgersene, tutto ciò che hanno intorno.
L’esempio più eclatante e terrificante della brutalità umana, della sua violenza, della sua disperata ipocrisia, è la guerra: uccidere per uccidere, uccidere per rimanere soli, uccidere per essere uomini, ridiventando uomini, tornando alla natura primaria del nostro vero essere.
La storia degli uomini è costellata e puntellata di guerre: senza la guerra la nostra società attuale non esisterebbe, tutte le conquiste di cui noi oggi godiamo sono frutto di qualche guerra. La nostra stessa vita quotidiana è ormai una guerra di sopravvivenza, in cui sfidiamo e sfruttiamo tutto e tutti per il nostro tornaconto personale.
I frenetici ritmi che ci sono imposti dall’ambiente lavorativo, dalla scuola e dalla stessa famiglia, generano segreti, profondi, repressi rancori, che covano nel nostro animo, attendendo pazientemente di traboccare da noi stessi con inimmaginabile irruenza, violenza ed aggressività. Sempre più giovani commettono atti efferati, apparentemente senza alcuna spiegazione, senza motivo; la ragione, invece, è molto semplice: sono soldati creati ed addestrati dal mondo, che combattono le loro battaglie per sopravvivere, seguendo l’istinto che ha sempre guidato tutti noi, non permettendoci di dimenticare che siamo soltanto animali…
Siamo creature fondamentalmente selvagge e pavide, che trovano tutte le risposte nell’attaccare per prime, nel dare libero sfogo alla nostra sadica capacità distruttiva, nell’annientare chiunque possa rappresentare una minaccia, vera o presunta che sia. Quante guerre sono state fatte nel nome della pace?
Quanto sangue è stato versato nel nome della vita? Quante bugie sono state dette nel nome della verità?
L’uomo ha saputo dividere il bene dal male, si è dato un’etica ed una morale, dei principi religiosi, che professa essere inviolabili, eppure non riesce a vivere all’interno di quei confini, quasi fossero una gabbia che imprigiona la sua parte animale.
Sappiamo cos’è il bene, ma non riusciamo ad accettarlo e seguirlo: questa è la gran contraddizione degli essere umani, questo il motivo del rancore, dell’odio, che proviamo contro noi stessi, poiché non riusciamo ad accettare la nostra vera natura. Abbiamo così paura del demone che è in ognuno di noi da non riuscire a guardarlo negli occhi: vorremmo così disperatamente essere buoni che odiamo ciecamente la malvagità insita nel nostro animo, cercando di nasconderla e mascherarla, per non essere costretti ad ammetterla.
Grandi statisti potrebbero affermare che sebbene alcune guerre siano state effettivamente “sbagliate”, altre, la maggior parte, siano state “giuste e dovute”, fatte per proteggere il mondo libero e civile dalla follia di spietati tiranni. Ma quale guerra è “giusta”? Quale territorio o risorsa economica vale la vita di migliaia di persone?
E quale diritto inalienabile della persona giustifica la carneficina di massa comunemente chiamata guerra? Cos’altro è la guerra se non morte, distruzione, devastazione e umiliazione a profusione? Cos’altro se non la più vera e raccapricciante testimonianza di quanto possano essere malvagi gli uomini?
La storia avrebbe dovuto insegnarci gli orrori di cui la paura, l’ignoranza, la rabbia e l’arroganza sono capaci: eppure, nulla abbiamo imparato ed anche i delitti più efferati si sono ripetuti nello stesso identico modo, con fredda, calcolata, pianificata razionalità. Persino la ragione è asservita ai più brutali istinti animaleschi, per compiacere esseri che godono del sangue versato, quasi n’empissero la coppa con cui brindano al proprio successo, alla propria perversione, alla propria superbia e vanagloria. Sui libri di storia restano le battaglie memorabili, le grandi strategie, le vittorie e le sconfitte, ma non c’è nessuna traccia del dolore delle famiglie, del gelido silenzio della morte, dell’insensatezza di tutte le battaglie.
Sul nudo suolo, devastato dal conflitto, invece, restano le macerie fumanti, imbrattate di sangue e coperte di corpi inerti; restano le urla disperate di bambini, donne e padri, che hanno perso tutto, che si sentono impotenti e pieni di rabbia. Sopravvivere può essere peggio che morire, poiché si deve affrontare la realtà; la realtà di vedere ogni proprio affetto distrutto, calpestato, sepolto, la realtà di essere rimasti soli, attorniati soltanto dal pianto e dalla disperazione: la realtà di non aver potuto far nulla per evitare che accadesse… Quale uomo può avere la forza di ricominciare daccapo, dopo aver perso tutto, persino la propria dignità?
Il recente e sin troppo vicino conflitto nei Balcani dovrebbe farci riflettere su quanto siamo fortunati a vivere in una realtà imbottita d’ovatta, entro cui non sono permeati i terribili suoni della guerra. In realtà, la guerra in quelle regioni ha origini assai lontane nel tempo: per secoli i popoli slavi ed albanesi sono stati oppressi dall’impero Ottomano, covando un odio feroce per coloro che li tenevano in soggezione e governavano la loro terra pur essendo stranieri. Nel XIX sec. la Questione d’Oriente era un nodo nevralgico della politica europea, e nel 1817, dopo anni di dura guerriglia, i Serbi riuscirono a scacciare gli oppressori Turchi, forti dell’appoggio dello zar Alessandro I di Russia.
Tutte le più grandi potenze europee hanno sempre avuto forti interessi nell’area balcanica: la Russia per un libero accesso al Mediterraneo; l’Austria per avanzare a sud del Danubio; l’Inghilterra per espandere i propri traffici e consolidare il dominio strategico sul Mediterraneo; ciò, naturalmente, ha contribuito a renderla una regione altamente instabile e sempre sul punto di esplodere.
Da questo punto di vista non ha certo giovato la ben nota bellicosità dei Serbi, infatti, questo popolo ha antiche origini guerriere, e prima di essere sottomesso da Turchi nel 1371, costituiva un potente impero. La guerra sembra essere profondamente legata a questa terra e a questo popolo, basti pensare che la prima guerra mondiale scoppiò in seguito ad un attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono austro – ungarico, compiuto da due nazionalisti serbi mentre il principe era in visita a Saraievo. Il problema del conflitto attuale nasce da un profondo odio etnico tra Serbi ed Albanesi, che ha un altro triste precedente nella guerra tra Serbi e Croati, scoppiata in seguito al disfacimento della federazione jugoslava. Infatti, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il leader socialista Tito unì nel 1945 sei repubbliche diversissime fra loro: Croazia, Slovenia, Bosnia – Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Serbia, e due regioni autonome, Vojodina e Kosovo.
Dopo la morte di Tito nel 1980, risorsero feroci e violenti odi etnici, che culminarono con la guerra nell’ex Jugoslavia. La guerra del Kosovo è quasi una naturale prosecuzione di quel conflitto, generato e diretto dall’odio etnico serbo, che prima era rivolto contro i croati e che dopo ha avuto libero sfogo contro gli albanesi. Questo tipo di conflitto è la vera essenza della guerra e della malvagità umana, poiché non ha avuto bisogno di nessuna “scusa” ammissibile: i Serbi volevano eliminare un’etnia diversa dalla loro e l’hanno fatto spietatamente, razionalmente e con agghiacciante premeditazione. Il mondo è impallidito alla notizia delle violenze commesse in Kosovo e si è impietosito per le vittime, poiché è stato messo di fronte a fantasmi che credeva sepolti con i nazisti, dimenticando che quei tedeschi erano soltanto uomini e che uomini sono anche i Serbi, e, soprattutto, tutti noi… La storia ci insegna che gli uomini non sanno imparare dai propri errori e che dimentica troppo in fretta, crogiolandosi in dolci illusioni di fratellanza e pace.
Ora, finiti gli orrori, messi a tacere i cannoni, bisogna ricostruire le case distrutte, poiché è impossibile ed impensabile ricostruire le vite spezzate.
Le cicatrici lasciate da una guerra si rimarginano molto lentamente, di generazione in generazione, ma l’odio ed il rancore non si arrestano mai: crescono continuamente e divorano coloro che ne sono affetti, fino a sfociare in nuova, inaudita, incontrollata violenza. È molto facile premere un grilletto e vendicarsi in un istante di tutto il male subito, è molto vicino alla natura umana colpire il “nemico”, ciò che è difficile è perdonare, è capire le ragioni di quello che è accaduto, per evitare che si ripeta. Sin troppe volte questo non è stato fatto e puntualmente da ogni guerra ne è nata un’altra, ancora più atroce, ancora più sanguinosa. Non si deve permettere che i forti interessi economici che ruotano intorno al mondo delle armi decidano la sorte di migliaia di soldati e di civili.
Non si deve permettere che la violenza chiami altra violenza: l’Occidente si è sentito in dovere di intervenire, ma per farlo ha dovuto varcare la soglia del bene e del male, generando, a sua volta, odio e risentimento. Forse non era possibile evitare l’intervento armato, così come non è stato possibile evitare che lo sterminio avesse inizio, ma ci si deve sempre chiedere fin dove è lecito spingersi, senza farsi accecare dall’arroganza e dalla superbia. Sarebbe forse lecito colpire Caino affinché non uccida Abele? Forse, si; ma quanto forte dovrebbe essere quel colpo? E chi dovrebbe sferrarlo? Chi può arrogarsi il diritto di far del male al prossimo in nome del bene? Forse tutte queste giustificazioni non sono altro che ipocrisie, menzogne, illusioni, chimere che vogliono distrarci dalla realtà, dalla verità… Ma non siamo forse noi a crearle, in modo da avere la coscienza pulita, evitando di confrontarci con noi stessi?
Siamo quel che siamo e non possiamo essere diversi, dunque dobbiamo riuscire ad accettare la nostra natura, per poterla dominare e controllare. Il vero progresso per l’umanità tutta sarebbe porre un freno ai propri istinti omicidi, poiché eliminarli vorrebbe dire eliminare gli stessi uomini, essi possono soltanto venire domati dalla ragione e dal cuore. Lasciamoci invadere da quel sentimento chiamato pietà, proviamo compassione per chi soffre, e soprattutto impariamo a non temere chi è “diverso”. Solo così potremo vantarci a pieno titolo di essere una specie progredita, di avere saputo cogliere il meglio del creato, apprezzando il dono di Dio stesso: il fiore della vita…