Gli Eschimesi - Inuit
Gli Inuit sono una popolazione derivata dal ramo della razza mongolica. Essi mostrano una corporatura tozza con bassa statura e arti inferiori corti (tutti caratteri atti a contrastare le basse temperature), il colorito è bruno-giallastro, la faccia appiattita con un grande cranio.
Il nome Eschimesi, una parola indiana del popolo Cree che significa mangiatori di carne cruda è un termine dispregiativo, non usato da molto tempo. Essi chiamano se stessi Inuit (o Yuit in siberiano e in alcuni dialetti dell'Alaska), cioè “il popolo” in lingua Inuktitut.
Tale lingua è una lingua polisintetica, tende cioè a concentrare intorno ad un nucleo logico-semantico, intere frasi, dando come risultato a parole spesso esageratamente lunghe, per noi. Ad esempio qasuiigsagbigsagsinnitluinagnag pug significa “non siamo riusciti assolutamente a trovare un luogo in cui riposare”.
la loro alimentazione è legata essenzialmente al caribù in estate, alle trote e salmoni in autunno ed alle foche in inverno.
Anche l’abbigliamento dipende da questi animali: il caribù li fornisce di leggere e calde pellicce invernali, mentre dalle foche derivano degli abiti sottili, ma impermeabili, ideali per luoghi molto umidi; tutti gli indumenti sono cuciti proprio con quel tendine che si credeva usato solo per gli archi.
il compito di procurare il cibo per tutta la famiglia è demandato all’uomo, il cacciatore per eccellenza, ma che da solo non sopravvivrebbe a lungo senza l’appoggio di una donna: moglie o madre, poiché costei è l’unica esperta nella macellazione degli animali, delle foche in particolare. Con grande abilità essa squarta, spella, divide la carne ed il grasso e utilizza tutto per le esigenze famigliari, quali abiti, calzature, ecc.
È difficile digerire l’idea che si possa vivere felici dentro una casa in pietre e torba o in un igloo pressoché nudi, a qualche grado sotto zero, e che la vita vi si svolga intorno a una lampada alimentata dal grasso, che assolve la funzione di cucina, asciugatoio, fonte di luce e di calore. Si stenta a credere che un popolo che non conosce materiali ferrosi e basa la sua esistenza essenzialmente sull’osso e sul corno, possa con questi mezzi costruire utensili funzionali, barche e slitte di così squisita fattura, per non parlare del loro grande senso artistico.
Vivere isolati in piccoli gruppi non è certo agevole, e non è facile comprendere come la loro razza non si sia estinta e sia arrivata fino a noi; a volte hanno dovuto applicare un severo controllo demografico per mancanza di cibo, altre volte hanno dovuto aumentare il gruppo.
Fa sorridere l’idea che spesso i cacciatori Inuit, specialmente durante l’inverno, si scambiavano fra di loro le mogli o che le offrivano all’ospite: non sarà mica dovuto al fatto che inconsapevolmente avevano messo in atto un meccanismo che salvaguardasse la razza dalla ridotta virilità e dalle numerose sterilità legate all’ambiente?
Con rincrescimento si apprende che è bastato un niente per por fine alla loro cultura millenaria: è arrivato l’uomo bianco, con i suoi missionari, con le malattie e con le armi da fuoco, e tutto è finito.
Gli Inuit hanno subito imparato ad usare queste ultime, ma altrettanto in fretta hanno dimenticato come costruire quelle tradizionali, legate alla cultura dei loro padri: di un popolo estremamente povero, ma felice, non restano che uomini senza identità e pieni di angosce.