La mafia e la criminalità organizzata
«La chiamano onore, ma è disprezzo, ferocia, tradimento...»
La definizione è del vescovo di Agrigento, ed è stata pronunciata ai funerali di un giudice (uno dei tanti, dei troppi) ucciso dalla criminalità organizzata: «Peggio di Hitler. La chiamano onore, ma è vestita di ferocia, di disprezzo, di tradimento».
Non meno dura, circostanziata la denuncia che fece il Presidente della Repubblica, Cossiga: «Questo tipo di criminalità organizzata sembra aver acquistato il controllo di parte del territorio nazionale. Non si tratta più di crimini comuni, ma di un attentato alla sicurezza dello Stato e della Repubblica... L’unità nazionale è aggredita e minacciata».
Nelle regioni dove questa è più organizzata, secondo dichiarazioni del capo della polizia rese al Senato, esistono 434 «cosche», quasi sempre in conflitto tra loro, comprendenti più di 15.000 delinquenti attivi. 19.000 sono i latitanti, in aumento delitti e guadagni, sangue e miliardi. Ecco una prima «mappa» (cioè descrizione) del fenomeno.
La malavita organizzata prospera sugli spaventosi guadagni consentiti dal traffico di droga, dispensando disperazione, vizio, morte. Ma questa non è la sua sola fonte di profitto.
La «grande rapina» è stata possibile anche grazie alle ingenti somme (decine di migliaia di miliardi) stanziate agli inizi degli anni ‘80 per ricostruire i paesi distrutti o danneggiati nel Sud dal terremoto. Lo Stato ha fornito i fondi, i Comuni hanno appaltato i lavori, la mafia e la camorra hanno fatto man bassa, ottenendo incarichi, concessioni ed esclusive «poco pulite» da amministratori compiacenti.
Fino a poco tempo fa la mafia viveva di estorsioni, cioè imponeva la sua «protezione» a ditte grandi e piccole che in cambio dovevano (e oggi ancora in gran parte debbono) versare una determinata somma alla settimana, pena l’incendio o la dinamite. Oggi, secondo la Magistratura e la Commissione parlamentare antimafia, la criminalità organizzata sta passando sempre più attivamente dalla «protezione» alla «partecipazione». In una città siciliana, ha accertato la Commissione antimafia:
«i mafiosi sono entrati con forza in tutte e principali attività commerciali. Acquistano grandi negozi, rilevano bar e boutiques, vogliono quote di società e si impadroniscono di grandi solide aziende che mai pensavano di andarli a cercare. Oppure si nascondono, dopo averla derubata di negozi e aziende, dietro gente insospettabile che è costretta anche a rapprcsernarli davanti al fisco e alla legge».
I vari gruppi mafiosi (le cosche costituite quasi sempre su base famigliare) si danno battaglia per il predominio sul territorio e per assicurarsi i migliori «carichi» di droga o di sigarette e gli appalti più redditizi. Ne consegue una «mattanza», cioè una strage incessante: ogni giorno i killer (molte volte giovanissimi) assassinano questo o quell’esponente del clan rivale e poi, a loro volta, cadono sotto i colpi degli avversari. La legge che vige è quella del più forte, del più feroce, del più spietato. Mafia e camorra infatti non risparmiano donne e bambini, se appartengono a un clan nemico o se rappresentano testimoni «scomodi».
In occasione delle elezioni amministrative prefetti e carabinieri hanno segnalato che le liste presentate in vari Comuni erano «inquinate» perché includevano i nomi di vari boss mafiosi. I quali sono stati eletti in diverse località e quindi ora decidono appalti, forniture e spese.
«Dire che tutti i politici siano inquinati non è giusto» ha affermato il vescovo di Acerra «Quello che però mi meraviglia è che i partiti siano restii a togliere di mezzo quelli che danno sospetto».
Tardiva, poco convinta e priva di una strategia adeguata: ecco l’opinione di gran parte della stampa. La giustizia, proprio nelle zone «calde», appare priva di mezzi e quindi vicina alla paralisi. In virtù di nuove norme di legge, quasi trentamila detenuti sono stati scarcerati perché erano trascorsi i termini dì tempo in cui si doveva celebrare il processo.
In tutto, sempre secondo le dichiarazioni del capo della Polizia, le persone «pericolose» messe in libertà erano molte decine di migliaia.
Ma vi è di più. Non sono poche le situazioni in cui magistrati e funzionari sono lasciati soli, in «prima linea», a condurre la lotta contro la criminalità organizzata e spesso pagano con la vita il proprio coraggio e attaccamento al dovere e la colpevole inerzia di altri. È' l'opinione di un combattivo giornalista, Giorgio Bocca: rievocando il sacrificio del generale Dalla Chiesa, commissario straordinario per la totta alla mafia, ricorda che egli fu «abbandonato da tutti» in special modo dal «potere, che gli aveva fatto il vuoto intorno», perché egli aveva bloccato «i passaggi obbligati che controllano gli affari e i voti». Il generale seguì la sorte di altri (Falcone, Borsellino, etc...) che avevano osservato fino agli estremi il giuramento di fedeltà alla Repubblica: nel settembre del 1982 venne assassinato dalla mafia insieme alla scorta e alla giovane moglie. Quella notte in diversi carceri italiani i mafiosi detenuti brindarono alla loro morte.
La lotta e la possibile vittoria contro la criminalità organizzata, è stato detto anche autorevolmente, sono legate ad alcune condizioni. Occorre fare leggi più severe; rafforzare la magistratura e le forze dell’ordine, creando anche uno speciale corpo investigativo e assicurando un coordinamento unitario; promuovere una «rivolta delle coscienze» di tutti gli italiani contro la degenerazione della nostra società e interventi atti a mutare le condizioni di alcune regioni meridionali. E ancora, passare dalla «cultura» della mafia, fatta di sopraffazione, corruzione e delitto, a una cultura della vita. Infine, superare la crescente sfiducia nelle istituzioni, cioè «moralizzare» la vita pubblica. Solo così potrà essere restituita ai giovani e ai giovanissimi la fiducia nei «grandi ideali di giustizia e di solidarietà», sono parole di Giovanni Paolo II, «per costruire una nuova umanità in un disegno di rinnovamento e di pace».