Nascita e sviluppo dei Sindacati in Europa

I LAVORATORI DELLA TERRA E IL PROLETARIATO URBANO

Alla metà dell’'800, in tutta Europa i lavoratori della terra costituivano il grosso della popolazione attiva. Il mondo contadino comprendeva una miriade di realtà economiche e di figure sociali diverse, con forti differenze fra i vari stati e anche all’interno delle regioni.

La Gran Bretagna, con una popolazione agricola costituita da lavoratori salariati, rappresentava un caso isolato, così come un caso-limite era costituito dalla Russia con i suoi servi della gleba.

In Francia la tendenza all’aumento della piccola proprietà contadina continuò a manifestarsi per tutto l’'800.

Negli stati tedeschi e nei paesi dell’Impero asburgico una serie di leggi d’emancipazione, emanate fra il 1815 e il 1850, aveva gradualmente abolito le ultime forme di lavoro servile e stimolato il processo di privatizzazione della terra.

Nel Mezzogiorno dell’Italia e più in generale nell’intera Europa mediterranea la privatizzazione delle terre andò a vantaggio dei latifondisti, mentre la maggior parte dei contadini si ritrovarono a lavorare come braccianti senza terra.

I progressi realizzati dall’agricoltura europea, in coincidenza col generale sviluppo economico degli anni ’50 e ’60, non servirono a modificare nella sostanza le condizioni di vita delle masse contadine.

La novità più rilevante di questo periodo fu lo sviluppo industriale e la rivoluzione dei trasporti, che offrirono ai lavoratori della terra maggiori possibilità di allontanarsi dal luogo d’origine. Masse di disperati abbandonarono definitivamente le campagne per cercare nuove occasioni di lavoro nei grandi centri industriali, oppure emigrarono verso il nuovo continente.

In un primo momento ovunque tranne che in Inghilterra gli operai costituivano ancora una minoranza fra gli stessi lavoratori urbani, però con lo sviluppo della grande industria e la decadenza della piccola impresa artigiana, il proletario di fabbrica assunse sempre maggior consistenza.

Cominciò a maturare una nuova coscienza di classe, ossia la consapevolezza di una condizione comune, unita alla spinta ad associarsi per mutare questa condizione.

IL MOVIMENTO OPERAIO DOPO IL ‘48

Le prime forme d’associazioni operaie, che avevano cominciato a svilupparsi in Europa già prima del ’48, si rivolgevano soprattutto ai lavoratori più evoluti e meglio pagati, si collegavano spesso alla tradizione delle antiche corporazioni artigiane e si dedicavano più alla cooperazione e al mutuo soccorso fra i soci che non alle lotte rivendicative contro i datori di lavoro.

Dopo le repressioni del ’48-49 il movimento associativo fra i lavoratori appariva ovunque indebolito. Il movimento operaio inglese aveva rinunciato ai progetti politici di largo respiro popola sconfitta del cartismo, concentrandosi sul rafforzamento delle organizzazioni sindacali come le TRADE UNIONS, che nel 1868 ottennero la costituzione del Trade Unions Congress, che riuniva i delegati di tutti i maggiori sindacati e che rappresentò da allora il nucleo basilare del movimento operaio britannico.

In Francia i pochi gruppi organizzativi rimasti dalle sconfitte del ’48 e del ’51 erano influenzati dalle teorie di Proudhon, fautore di una sorta di federalismo a sfondo anarchico, che basava le proprie idee sull’avversione ad ogni forma di collettivismo. Queste teorie, però, si adattavano bene alla struttura sociale di questo paese, in cui i contadini per lo più erano piccoli proprietari e in cui l’artigianato e il commercio minuto conservavano un peso notevole anche nelle città.

Per motivi analoghi, le dottrine di Proudhon ebbero una certa fortuna anche in Italia, dove il proletariato di fabbrica era ancora quasi inesistente e i pochi nuclei d’operai e artigiani organizzati in società di mutuo soccorso subivano soprattutto l’influenza di Mazzini, fautore della cooperazione e avverso alla lotta di classe e ad ogni forma di collettivismo.

In Germania invece si stava formando rapidamente una forte classe operaia e con essa anche un movimento socialista. Alla fine degli anni ’50, questo movimento trovò un leader abile e autorevole in Lassalle, che basava le sue concezioni socialiste su una teoria dello sfruttamento capitalistico molto simile a quell’elaborata da Marx. Nel 1863, fu legalizzata l’Associazione generale dei lavoratori tedeschi, che rappresentò il primo importante esempio di partito operaio organizzato su scala nazionale.

LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI SINDACATI

I SINDACATI

Il movimento operaio ha manifestato una notevole pluralità d’obiettivi, la sua azione si è sempre espressa in modo articolato; i tratti specifici e predominanti della loro funzione vanno comunque ricercati nella volontà di migliorare la situazione economica e sociale degli operai. Infatti, con il procedere del sistema capitalistico, il dinamico andamento della domanda e dell’offerta, spazzati via i tradizionali e complessi patti tra imprenditori e dipendenti, regolati dalle corporazioni di mestiere che riunivano padroni e operai, sempre più s’imponeva quale astratta legge dominatrice dell’economia in generale e del mercato del lavoro in specifico. Emerse la necessità da parte operaia di poter usufruire di un organismo adeguatamente rappresentativo in grado di contrapporsi e di frenare l’aggressività degli imprenditori.

Lo strumento principale della lotta sindacale fu individuato nello sciopero, attuabile in varie forme: dalla classica astensione dal lavoro, alla sospensione del lavoro senza però abbandonare il posto (sciopero bianco), dall’astensione ad intervalli premeditati (sciopero a singhiozzo), a quello per reparti della medesima fabbrica (sciopero a scacchiera).

La risposta padronale può giungere, com’estrema arma di ritorsione, alla serrata generale, ovvero alla chiusura totale delle fabbriche e degli uffici, con la conseguente impossibilità da parte dei dipendenti di lavorare e pertanto di percepire la corrispettiva retribuzione.

Possiamo individuare le seguenti caratterizzazioni del sindacato:

I sindacati d’ispirazione marxista

Secondo Marx, i sindacati sono “centri di raccolta e d’organizzazione dei lavoratori; associazioni difensive contro il capitale; scuole preparatorie di socialismo; strumenti subordinati e ausiliari del partito politico operaio, teso alla conquista dello stato borghese per distruggerlo e instaurare sulle sue rovine il socialismo” (F. Ferrarotti).

Queste erano le prime considerazioni marxiste, che poi furono rivisitate in due diversi modi: il primo riteneva opportuno limitare il ruolo dei sindacati, così da ritenerli solo in grado di determinare il graduale superamento stesso del capitalismo. Nel secondo caso, l’accentuazione espressa in particolare da Lenin è ben evidente nell’esperienza del bolscevismo rivoluzionario russo. Per Lenin, infatti, il sindacato è da intendersi rispetto al partito, che è la guida della classe operaia.

I sindacati riformisti

I sindacati riformisti intendono pragmaticamente agire al di fuori dei condizionamenti ideologici, convinti che la lotta sindacale debba essere condotta nell’intento di migliorare con gradualità le condizioni di vita dei lavoratori. I tratti peculiari del riformismo sindacale sono rappresentati dalla consuetudine della Trade Union moderata inglese, ben espressa dal laburismo e dalla riflessione “Fabiana”.

I sindacati cristiano-sociali

La diffusione, in modo significativo, dei sindacati cristiano-sociali, i cosiddetti sindacati “bianchi”, è da ricondurre all’apertura attuata a questo proposito dall’enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII. In precedenza, la Chiesa cattolica aveva sempre mostrato di preferire la tradizionale soluzione delle corporazioni. Il sindacalismo cristiano-sociale, pur nel riconoscimento della legittimità di salvaguardare i diritti dei lavoratori, al di fuori della prospettiva marxista della lotta di classe, ricercava per contro, grazie all’intervento dello Stato e alla moderazione padronale, quell’armonia sociale possibile solo con lo scioglimento della questione operaia.

I sindacati inarco-rivoluzionari

I sindacati anarco-rivoluzionari, rivendicando la centralità dell’azione rivoluzionaria della base sindacale, si sono in specifico contraddistinti per il rifiuto d’ogni forma di subalternità del sindacato ai partiti socialisti. I riferimenti teorici del sindacalismo anarchico vanno ricercati in PROUDHON e BAKUNIN, mentre per quello rivoluzionario in SOREL. Quest’ultimo si opponeva alle nebulose strategie parlamentari dei partiti socialisti ed indicava nello sciopero generale non tanto un’azione decisiva quanto un’idea di forza, così da liberare appieno l’energica violenza proletaria.

LA I E LA II INTERNAZIONALE

Il movimento operaio avvertì presto l’esigenza di dar vita ad un’organizzazione internazionale di coordinamento. La riunione inaugurale del nuovo organismo, che prese il nome d’Associazione internazionale dei lavoratori, si tenne a Londra nel settembre 1864.

Assuntosi il compito di redigere lo statuto provvisorio, Marx riuscì ad inserire nel documento alcuni punti che qualificavano l’Associazione in senso classista, nonostante l’opposizione del rappresentante italiano (da allora i mazziniani non ebbero più parte alcuna nell’Internazionale).

Risultava evidente l’affermazione dell’autonomia del proletariato e la priorità data alla lotta contro lo sfruttamento.

La sua capacità di rappresentare realmente le organizzazioni operaie dei singoli paesi e di guidare la loro attività fu assai scarsa, e il suo funzionamento fu gravemente compromesso dall’eterogeneità delle sue componenti e dalle aspre rivalità che dividevano i suoi capi. Fino alla fine degli anni ’60, il dibattito ai vertici dell’Internazionale vide contrapporsi da un lato i socialisti veri e propri (a favore della socializzazione dei mezzi di produzione), dall’altro i proudhoniani, fautori di un sistema fondato sulle cooperative e sulle autonomie locali.

Le tesi dei pruodoniani furono ripetutamente sconfitte.

Ma con MICHAIL BAKUNIN, massimo teorico dell’anarchismo moderno, le teorie ripresero vigore sotto una forma più rivoluzionaria. Era stato inizialmente in buoni rapporti con Marx e ne aveva appoggiato le battaglie in seno all’Internazionale. Per Bukunin, l’ostacolo principale che impediva all’uomo il conseguimento della piena libertà era costituito non tanto dai rapporti di produzione, quanto dall’esistenza stessa dello Stato. Lo stato era, assieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande maggioranza della popolazione in condizioni d’inferiorità economica e intellettuale. Abbattuto il potere statale, il sistema di sfruttamento economico basato sulla proprietà privata sarebbe inevitabilmente caduto e il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente.

Anche Marx vedeva nello Stato e nella religione degli strumenti al servizio delle classi dominanti; ma collocava l’uno e l’altra nella sovrastruttura, li considerava cioè come un prodotto della struttura economica basata sullo sfruttamento: solo la distruzione di quella struttura avrebbe reso possibile la distruzione dello Stato borghese. L’avvento del comunismo sarebbe comunque stato possibile solo dopo una fase transitoria di “dittatura del proletariato”, necessaria per neutralizzare la reazione delle classi dominanti. Per Marx, inoltre, il protagonista del processo di rivoluzione non poteva che essere il proletariato industriale dei paesi più avanzati. Per Bakunin, invece, il vero soggetto della rivoluzione erano le masse diseredate poiché tali e l’unica forma possibile di lotta era la rivolta armata.

Il contrasto fra marxisti e bakuniniani, esploso all’inizio degli anni ’70, mise in crisi le fragili strutture dell’Internazionale. Nel settembre 1872, Marx ed Engels riuscirono a mettere in minoranza i seguaci di Bakunin e a far approvare una risoluzione che trasferiva la sede centrale dell’Internazionale da Londra a New York. Gli anarchici non riconobbero la validità di questa decisione. In realtà, decidendo il trasferimento degli organi centrali lontano dall’Europa, Marx aveva consapevolmente decretato la morte dell’Internazionale, in quanto la giudicava ormai uno strumento inefficace e inadeguato ai tempi e puntava invece sullo sviluppo nei vari Stati di forti partiti socialisti che fossero in grado di inquadrare la maggioranza della classe operaia.

Superato lo smarrimento per la sconfitta, le classi lavoratrici seppero utilizzare le contraddizioni insite nei processi di ristrutturazione dell’apparato industriale per riorganizzare le proprie file. Spesso i governi dovettero attenuare le normative le normative anti-operaie e in certi paesi anche a riconoscere giuridicamente le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori.

In Germania, nel 1875, nacque il partito socialdemocratico, richiamandosi alle concezioni marxiste. Questo partito formulò un programma minimo, che faceva proprie le rivendicazioni più sentite dai lavoratori, ma non incompatibili con gli ordinamenti esistenti, rimandando l’attuazione del programma massimo, cioè del socialismo, a fasi successive più adeguate.

La socialdemocrazia poté diventare un modello al quale ispirarsi per la maggior parte dei nuovi partiti operai. Si dovette ad essa anche la riorganizzazione dell’Internazionale, sancita a Parigi nel 1889. Tra le prime decisioni della II Internazionale ricordiamo la proclamazione del 1° Maggio quale momento di mobilitazione internazionale, con sciopero generale e manifestazioni pubbliche.