Usi e Costumi degli Antichi Romani

L’EDUCAZIONE DELLA RAGAZZA

VESTI E ORNAMENTI FEMMINILI

L’EDUCAZIONE DEL RAGAZZO

 L’ABBIGLIAMENTO MASCHILE

 BARBA E CAPELLI

 L’INSEGNAMENTO A ROMA

 CIBI E BEVANDE

GLI SCHIAVI A ROMA

 I GIOCHI OLIMPICI

I CULTI ORIENTALI


L’EDUCAZIONE DELLA RAGAZZA

I padri romani erano molto affezionati alle loro figlie; davano loro nomignoli gentili quali Uccellino o Mammina.

Agli inizi della Repubblica, le figlie erano considerate effettivamente delle piccole madri: apprendevano a cucinare, a filare e a tessere.

Più tardi, nelle famiglie tradizionaliste, le figlie continuavano a filare e a tessere; fierissimo, il padre faceva ammirare agli amici la toga tessuta dalla figlia.

La figlia di una famiglia agiata era affidata alle cure di una nutrice greca che le raccontava le prime favole in lingua greca.

La ragazza doveva imparare a dipingere, poiché la madre pensava che ciò le sarebbe più tardi servito nella scelta dei tappeti e dei tendaggi per la sua casa. Imparava anche a cantare, a danzare e a suonare alcuni strumenti.

Se la famiglia non aveva precettore, a 6 anni la fanciulla veniva mandata a scuola per imparare a leggere e a scrivere.

Verso i 10 anni veniva fidanzata dal padre o dal tutore, che le sceglievano il futuro sposo, a volte anche con l’aiuto di un sensale di matrimoni.

Il futuro sposo regalava alla fidanzata un anello di fidanzamento d’oro o di ferro su cui aveva fatto incidere due mani che si stringevano.

Il matrimonio avveniva alcuni anni dopo. Alla fine della Repubblica, essendo divenuto il divorzio un fatto assai comune, non era difficile vedere uomini o donne che si sposavano quattro cinque o volte.

Cesare si sposò quattro volte; Cicerone divorziò da sua moglie per sposare un’ereditiera più giovane della figlia Tullia. Sua moglie però non si disperò a lungo. Si risposò infatti per ben due volte.

Quando il matrimonio veniva celebrato religiosamente, la futura sposa portava sul capo un velo arancione sormontato da una corona di fiori d’arancio.

Dopo aver firmato il contratto di matrimonio, una matrona la conduceva dal suo sposo. Anche presso i Romani, come presso i Greci, la sposa superava la soglia della casa fra le braccia del marito.

Verso la fine della Repubblica, il matrimonio generalmente si limitava a una cerimonia civile. Lo sposo, davanti ai testimoni, domandava alla sposa se voleva diventare "madre di famiglia": ella rispondeva di sì e a sua volta domandava allo sposo se voleva diventare " padre di famiglia": Dopo di che, essi erano legalmente marito e moglie. Benché la sposa potesse disporre liberamente dei propri beni e della propria dote, in realtà il capo di casa era sempre il marito. Ma secondo quanto diceva un romano: "Noi governiamo il mondo, ma sono le nostre mogli a governare noi".

Non era cosa rara che una sposa dodicenne abbandonasse la casa paterna per stabilirsi nella propria, passando per così dire dalla balia alla vita pubblica. Altre donne si occupavano di politica, preparavano le campagne elettorali in occasione delle elezioni e addirittura dipingevano frasi di incitamento sui muri delle case. Dopo le elezioni, iscrizioni del genere venivano cancellate con una mano di calce. Avendo il Senato proposto un giorno una legge tendente a limitare i gioielli di proprietà di una donna, una matrona infuriata tenne nel Foro, il luogo delle pubbliche riunioni, un discorso così violento che la legge fu subito abrogata. Negli ultimi anni della Repubblica vi furono perfino avvocatesse che difendevano i loro clienti nei tribunali.

Durante l’Impero, donne di nobili famiglie lottarono come gladiatori nell’arena, parteciparono a incontri di lotta e guidarono carri durante la caccia al cinghiale. La matrona romana formosa era ormai una figura del passato: le ragazze portavano busti fin dall’infanzia . Quelle che non avevano forme snelle e aggraziate erano considerate "lottatrici". Tuttavia le matrone romane non persero mai il oro coraggio. Quando l’imperatore Claudio ordinò a Cecina Peto di uccidersi e questi esitò per paura, la sua sposa si pugnalò, estrasse il pugnale dalla ferita e lo tese al marito dicendo:

" Non fa male, Peto": Sulla tomba delle loro spose i Romani facevano incidere epitaffi di questo genere: "Viandante, breve è il mio messaggio; arrestati leggi ! Questa pietra odiosa copre una bella donna".

VESTI E ORNAMENTI FEMMINILI

 Mentre nel mondo moderno l’abbigliamento della donna si distingue nettamente da quello dell’uomo, in Roma la differenza non consisteva tanto nella foggia del vestire quanto piuttosto nei tessuti impiegati e nella varietà dei colori. Anche le donne usano la tunica, più lunga di quella maschile; su di essa indossano la "stola" che è la veste caratteristica della matrona romana, così come la toga è il costume nazionale degli uomini.

La stola, che ha subito attraverso il tempo vari mutamenti a seconda della moda, è una sopravveste molto ampia che scende sino ai piedi; è stretta in vita da una cintura (talvolta le cinture sono due, una più alta e l’altra sui fianchi) ed è chiusa sul petto da una fibbia, oppure sulle spalle da bottoni ornati di pietre preziose; le maniche possono essere lunghe o corte: nella parte inferiore la stola è ornata da una striscia di porpora o da una balza ricamata in oro.

Per uscire in pubblico, nei primi secoli dell’età repubblicana le matrone usavano gettare sulla stola un mantello quadrato di dimensioni piuttosto limitate, cui si va sostituendo, con il passar del tempo, la "palla" ossia un grande manto rettangolare che, a differenza della toga maschile, copre entrambe le spalle; può essere lungo fino ai piedi, ma generalmente scende fin sotto le ginocchia. In pubblico la donna talvolta si copre la testa con un lembo della palla; nei tempi antichi lo faceva sempre, poiché alla lana ed al lino vanno sostituendosi nell’età imperiale i tessuti misti: lana e cotone; cotone e lino, cotone e seta. Le donne amano soprattutto le stoffe fini e leggere, come la seta che rappresenta il massimo dell’eleganza e della raffinatezza.

Anche nell’ambito dei colori vi è una larga possibilità di scelta: abilissimi tintori hanno creato tutta una gamma di sfumature che soddisfano qualsiasi esigenza.

I gioielli: ecco la grande passione delle donne romane! Un tempo, nei primi secoli della Repubblica, il lusso eccessivo delle vesti e degli ornamenti era severamente riprovato dai Censori; allora l’austerità e la semplicità caratterizzavano ancora la vita del popolo romano. Poi vennero le grandi conquiste degli ultimi due secoli prima di Cristo e con le conquiste si operò una profonda trasformazione materiale e morale nella vita e nei costumi dei cittadini: la ricchezza ed il lusso ebbero un enorme incremento, le leggi che ogni tanto venivano emanate dal Senato per limitare le spese del vestiario, dei banchetti, degli ornamenti, rimanevano senza alcuna efficacia pratica: nessuno si curava di osservarle.

Patrizi e grossi borghesi vanno a gara nel coprire di ornamenti preziosi le mogli e le figlie, per ostentare davanti a tutta la città la loro ricchezza ed il loro sfarzo; le donne, dal canto loro, si danno da fare per non rimanere indietro in questa competizione che solletica la loro vanità: pretendono pietre sempre più rare, le gemme più costose e si mettono addosso interi patrimoni. E naturalmente c’è chi esagera in questo sfoggio di gioielli e si trasforma in una specie di vetrina ambulante con risultati ridicoli.

La varietà degli ornamenti femminili è enorme: vi sono diademi di metallo prezioso, nastri ornati di gemme che si inseriscono tra i capelli; spille e fibbie in oro e argento; anelli con pietre preziose che si portano

non solo alle dita delle mani, ma anche a quelle dei piedi o intorno alla caviglia; braccialetti in oro massiccio; collane di perle e pendenti in smeraldo che adornano il collo ed il petto.

Fra gli orecchini sono di gran moda i "crotalia" e cioè dei pendenti doppi che hanno all’estremità una perla; quando la donna cammina, producono un piacevole tintinnio.

Affinché i l quadro sia completo ricordiamo ancora alcuni accessori che una signora veramente elegante non dimentica mai quando esce di casa: la borsetta, il ventaglio e l’ombrellino.

I ventagli non sono pieghevoli come i nostri, ma rigidi: sono fatti di piume di pavone dai brillanti colori, oppure di foglie di loto. In quanto all’ombrello è una…

 L’EDUCAZIONE DEL RAGAZZO

 Nove giorni dopo la nascita, il padre dava al figlio un nome, poi gli poneva al collo un piccolo amuleto d’oro o di bronzo o di cuoio, chiamato bulla e destinato a scacciare il " malocchio"; il ragazzi lo conservava fino alla maggior età.

Nei primi tempi della repubblica il ragazzo veniva allevato dalla madre o da una vecchia parente; in seguito se la sua famiglia poteva permetterselo, egli veniva educato da una schiava greca apprendendo cosi’ a parlare il greco contemporaneamente al latino.

I suoi passatempi erano il gioco a mosca cieca, la trottola, il cavallo di legno, i trampoli.

Di solito era il padre che gli insegnava a leggere, scrivere nuotare e cavalcare.

Un padre ricco poteva servirsi di un liberto o comperare uno schiavo colto perché facesse da precettore al figlio; altrimenti a sette anni il ragazzo veniva mandato a scuola.

Le lezioni non si svolgevano in un edificio apposito; il maestro stesso affittava una stanza in qualche retrobottega oppure faceva lezione sul tetto a terrazza di una casa qualsiasi.

Chiunque poteva aprire una scuola purché naturalmente trovasse allievi paganti. Le lezioni cominciavano piuttosto presto. Il ragazzo usciva di casa prima dell’alba, rischiarandosi il cammino con una lanterna. Il povero portava da se stesso il sacco con le tavolette incerate e comperava per via un pezzo di pane per la colazione; il ricco invece, si faceva accompagnare da uno schiavo che gli portava i libri. Il problema principale del maestro era quello di mantenere la disciplina.

Se insegnava in una bottega, l’aula era separata dai rumori della strada soltanto da una tenda.

L’insegnante era spesso un liberto che aveva imparato a leggere e scrivere quando ancora era schiavo; ma poteva anche essere un ex lottatore oppure un mimo, che i figli dei liberi cittadini non rispettavano minimamente.

Le lezioni duravano sei ore, con una pausa per la colazione a mezzogiorno . A volte invece di tornare a scuola dopo l’intervallo gli allievi si intrufolavano nel circolo per vedere le corse dei carri.

Durante la repubblica l’anno scolastico contava più di un centinaio di giorni festivi durante i quali la scuola era chiusa, senza tener conto naturalmente delle vacanze estive.

Per cinque anni l’allievo imparava a leggere a fare di conto (addizioni sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni fatte con l’aiuto di un abbaco).

L’abbaco più semplice era costituito da una scatola di sabbia con dischi metallici mobili.

Gli abbachi più complicati, o pallottolieri, erano composti o di asticelle sulle quali si facevano scorrere alcune palline di legno colorate. L’insegnante stava seduto su una sedia, mentre gli allievi sedevano su panche e tenevano sulle ginocchia le tavolette per scrivere. Incidevano le lettere sulla cera mediante una cannuccia appuntita di ferro chiamata stylum (da cui e’ derivata la parola "stilografica"). Le lettere che essi tracciavano, erano praticamente identiche a quelle in cui noi ci serviamo oggi.

A dodici anni il ragazzo iniziava lo studio, a casa o a scuola, della letteratura sotto la guida di un grammatico, generalmente greco, dell’Asia o di Egitto.

Gli allievi dovevano arrivare a parlare, a leggere e a scrivere il greco correttamente come il latino.

I Romani si burlavano di quei grammatici che tenevano corsi di lezione su argomenti assurdi:

per esempio su quali fossero i canti delle sirene.

Nei primi tempi della Repubblica, il ragazzo diventava ufficialmente uomo a 17 anni.

Deponeva allora la "bulla" e la toga praetexta con un fregio rosso, per indossare la toga tutta bianca o toga virilis. Ormai era un cittadini che doveva prestare servizio nell’esercito.

Verso la fine della Repubblica e sotto l’Impero, il ragazzo poteva a volte indossare la toga virilis gia’ a 14 anni senza per questo dover servire nell’esercito.

Dopo aver rivestito la toga virile, il giovane studiava la filosofia e l’oratoria.

Alla fine della Repubblica si recava anche all’estero: ad Atene ad Alessandria e Rodi.

Cesare Cicerone e il poeta Orazio studiarono all’estero.

Più tardi, ai tempi dell’impero il giovane poteva ricevere questa formazione "universitaria" anche nel suo paese, poiché gli imperatori favorirono l’istruzione superiore fondando nuove scuole e distribuendo borse di studio agli studenti poveri.

 L’ABBIGLIAMENTO MASCHILE

Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta e a diretto contatto con la pelle, il romano infila la "tunica", ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi; la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga dietro. Le maniche o mancano del tutto o non arrivano all’altezza del gomito; solo gli effeminati usano tuniche lunghe fino alla caviglia, senza cintura e con maniche fino ai polsi, il che è considerato, almeno nell’età repubblicana e nei primi secoli dell’Impero cosa assai riprovevole.

La tunica è la veste che si indossa nell’intimità della casa, in campagna, in provincia ; è la veste che usa la gente che lavora, perché è semplice e pratica.

Quando fa freddo si mettono due o più tuniche l’una sull’altra.

Ornamento più comune della tunica è una striscia di porpora che serve a determinare l’ordine o la

classe sociale cui si appartiene: quella dei senatori è molto larga, più ridotta quella dei cavalieri.

Vi è poi la tunica "palmata" adorna di splendidi ricami che indossano i generali vincitori durante il trionfo.

Il cittadino romano prima di uscire di casa si avvolge nella "toga": è questo l’abito ufficiale dei romani, inseparabile da tutte le manifestazioni della loro attività civica.

La toga è stata usata fin dai tempi antichissimi; essa costituisce il costume nazionale e distintivo dei romani.

La toga è un manto di lana bianca pesante, tutto di un pezzo; le sue dimensioni e il modo con cui si avvolge intorno al corpo hanno subito vari mutamenti attraverso i secoli.

Alle origini doveva essere una specie di coperta di forma quadrata che si gettava semplicemente sulle spalle; poi, con il passare del tempo, quel manto fu tagliato in modo da permettere un drappeggio menu rudimentale.

Intorno al terzo secolo a.C. la forma che la toga ha assunto è grossomodo quella di un trapezio con i lati arrotondati.

Nell’età di Augusto è di moda una toga molto ampia tagliata a forma di ellisse, che avvolge il corpo con una sapiente drappeggiatura, lasciando libero il braccio destro.

Mettersi addosso la toga in modo che cada bene, che avvolga armoniosamente il corpo, richiede una notevole abilità; chi può si fa aiutare da uno schiavo che ha provveduto fin dalla sera prima a preparare l’abito disponendo in ordine le pieghe; gli altri si arrangiano da soli, ma talvolta non possono evitare che la toga, come dice Orazio, cada male, esponendo chi la porta ai commenti maligni del prossimo.

Bello e dignitoso è questo abito, ma assai poco pratico: quando si cammina, quando si gesticola, quando ci si fa largo nelle vie e nelle piazze formicolanti di gente, è difficile mantenerlo composto ed in bell’ordine! E inoltre, quanti lavaggi sono necessari per conservare il suo candore immacolato! La lana a furia di lavarla, si rovina…

Poiché la toga è veramente poco pratica, non c’è da stupirsi se i Romani cercano di limitarne l’uso alle situazioni in cui è strettamente indispensabile e se, con il passare del tempo, vanno via via sostituendola con manti più semplici e più comodi, alcuni dei quali, si possono indossare anche sulla toga, quando fa freddo. Così, soprattutto nell’età imperiale il cittadini romani comincia ad usare il "pallium", una sopravveste più corta, meno ampia della toga e che perciò non impaccia i movimenti. Quando ci si mette in viaggio, o in città quando fa molto freddo, si indossa sopra la tunica una specie di blusa interamente chiusa davanti, fornita di cappuccio, che si infila passando la testa attraverso una apertura centrale.

Esaminiamo ora gli altri elementi che completano l’abbigliamento maschile: scarpe e capelli.

Quando il romano indossa la toga o esce in pubblico, porta i "calcei", stivaletti alti fin quasi al polpaccio che coprono interamente il piede; neri sono i calcei dei senatori, rossi quelli dei patrizi generalmente i romani vanno a capo scoperto; solo quando si mettono in viaggio o a teatro quando stanno lunghe ore fermi al sole, si riparano con un cappello di feltro a larghe tese annodato sotto il mento o sulla nuca che si chiama "petasus".

L’unico ornamento che gli uomini usano sono gli anelli. Nell’età imperiale si diffonde la consuetudine di portare anelli esclusivamente come ornamento; certi tipi stravaganti giungono al punto di metterne uno ad ogni dito e persino parecchi allo stesso dito; altri più bizzarri ancora sfoggiano anelli "d’estate" e anelli "d’inverno"…

 BARBA E CAPELLI

 Prima di uscire di casa il cittadino romano dedica pochissimo tempo alla cura della propria persona: siccome al pomeriggio farà il bagno alle Terme, oppure in casa sua, al mattino si limita a lavarsi il viso e le mani nell’acqua fresca. Così, dopo che ha consumato una rapida colazione consistente in cibi leggeri quali pane, formaggio, miele, datteri, può uscire e dedicarsi alle sue occupazioni.

Nel corso della mattinata egli farà certamente una sosta nella bottega del barbiere.

Nei tempi antichissimi, i Romani si lasciavano crescere liberamente barba e capelli.

Quando si diffuse l’influenza del mondo greco cominciò a farsi sentire nei costumi e nelle usanze, si diffuse tra i Romani la consuetudine di tagliarsi i capelli e radersi le guance. Soltanto in segno di lutto o in occasioni di calamità e sventure che colpivano la città, i cittadini tralasciavano per qualche tempo di tagliarsi capelli e barba.

I giovani aspettavano che la barba diventasse bella folta, allora si sottoponevano per la prima volta all’opera del barbiere e l’avvenimento veniva festeggiato in modo solenne. Assumeva infatti il carattere di una cerimonia sacra: la barba deposta in una pisside d’oro, di vetro, o in un vaso di semplice fattura veniva offerta come primizia agli dei; in casa del giovane si faceva gran festa, si invitavano gli amici si scambiavano doni.

La bottega di un barbiere dall’alba fino alle prime ore del pomeriggio è un continuo via vai di gente:

chi si siede sulle panche che circondano la bottega, chi si rimira negli specchi appesi al muro, chi si ferma ad oziare, a pettegolare, a raccontare le ultime novità.

All’interno avvolto in un accappatoio di mussola o di lino, oppure protetto da un asciugamano intorno al collo, sta il cliente di turno seduto su di uno sgabello; intorno a lui si affaccendano il barbiere e i suoi aiutanti.

Gli strumenti che vediamo nelle loro mani(forbici e rasoio) ci danno un’idea della difficoltà dell’impresa.

Poiché nessuna testimonianza accenna ad una qualche operazione preliminare per lubrificare la pelle con olio o con altre sostanze emollienti, è probabile che il barbiere si limitasse a passare sul viso del cliente un po’ d’acqua, prima di cominciare il suo lavoro.

Chi non aveva il tempo di far lunghe sedute dal barbiere poteva ricorrere ad un altro sistema: si faceva strofinare la faccia con uno dei tanti linimenti depilatori. Si tratta di unguenti a base di resina e di pece, oppure di grasso d’asino o fiele di capra, o sangue di pipistrello, bava di rana, polvere di vipera…

Sulla loro efficacia non possiamo pronunciarci, sappiamo soltanto che l’autore consiglia in ogni caso di far ricorso anche alle pinzette per strappare i peli ribelli della barba: i due sistemi combinati

Insieme dovevano pur dare qualche risultato ed erano probabilmente preferibili al supplizio del rasoio. Ognuno si arrangiava come poteva; vi era persino chi usava in una sola volta, sulla propria faccia, tutti e tre gli strumenti del barbiere: forbici rasoio e pinzette.

Il barbiere ha anche il compito di tagliare o arricciare i capelli; la grande maggioranza dei romani usa portarli né troppo lunghi, né troppo corti; solo la gente di campagna e gli schiavi di fatica si fanno rasare; gli schiavi di lusso ed i giovinetti liberi portano lunghi capelli ondulati sulle spalle.

Naturalmente accanto ai comuni mortali che si accontentano di un taglio e di un colpo di pettine non mancano nella variopinta società romana quelli che noi oggi chiameremmo "gagà": bellimbusti dalle chiome arricciate e abbondantemente profumate con oli e balsami vari.

Sono passati molti secoli e i costumi sono mutati; eppure, come ci appaiono vivi e attuali i "gagà" del mondo romano, con le loro ridicole pose e la loro eleganza di dubbio gusto!

Il barbiere deve cercare di accontentare sempre il cliente: gli elegantoni vogliono la pettinatura all’ultima moda; coloro che hanno i capelli grigi e bianchi vogliono illudersi di essere ancora giovani e allora bisogna ricorrere alla tintura; quelli che sono calvi o quasi calvi, devono essere aiutati a nascondere i danni che il tempo ha provocato, con risultati talvolta piuttosto ridicoli.

Quello del barbiere è un mestiere assai redditizio; chi è particolarmente abile può arricchire facilmente, come ci dimostrano gli accenni nelle opere di Marziale e di Giovenale alla rapida ascesa di tanti barbieri, divenuti ricchi proprietari di fondi, o entrati nell’ordine dei cavalieri.

Qualcuno salito in gran fama per la sua perizia ha persino l’onore di essere celebrato dai poeti.

 L’INSEGNAMENTO A ROMA

La primissima educazione avveniva in famiglia e comprendeva oltre a leggere, scrivere e far di conto anche nozioni musicali, poiché’ le gesta degli antenati – cosi’ come alcune cerimonie religiose – venivano cantilenate. Siccome l’ignoranza della legge non scusava nessuno, si imparava presto a compitare i caratteri e a tracciare le prime righe di scrittura, naturalmente con uno stilo su tavolette che più’ tardi furono chiamate codicilli da codex, che era il libro dei conti. Quindi, una volta esercitatisi in casa con stilo e tavoletta di cera, ragazzi e adulti erano in grado di usare il càlamo e scrivere sui rotoli di papiro, poi di pergamena romani appresero a usare rotoli e codici a seguito della diffusione della cultura greca e della costituzione di biblioteche asportate dalla Macedonia, da Atene, dal Ponto e da Alessandria d’Egitto. La prima biblioteca pubblica a Roma fu allestita soltanto nel 39 a. C. dal coltissimo funzionario Gaio Asinio Pollione.

 CIBI E BEVANDE

 Due erano i pasti principali dei romani antichi .Il prandium e la cena. anche dopo poco il risveglio si mangiava qualcosa, generalmente pane, frutta secca e formaggio, ma questa prima colazione non era di tutti. C’era chi beveva soltanto una ciotola di latte. I cibi fondamentali erano ottenuti dai cereali e dai vegetali, per quanto riguarda la generalità della popolazione, che faceva poco uso di carne se non in particolari occasioni. La base della nutrizione era una pappa di cereali bolliti , farro o miglio o semola. Frequente era anche l’uso di pane bollito insieme ai vegetali. Chi poteva permetterselo, aggiungeva a questa pappa uova, formaggio o miele, ottenendo, cosi’, la cosiddetta puls punica. Col nome di polenta si indicava l’orzo bollito, se tale orzo già molle veniva allungato con miele e un po’ d’acqua si otteneva la tisana, una bevanda rinfrescante, altrettanto medicamentoso era il decotto di riso trattato con miele, che però veniva preparato raramente, poiché il riso era importato dall’India e costava un occhio.

GLI SCHIAVI A ROMA

 Grazie alla disponibilità di prigionieri e alle leggi che consentivano di ridurre in schiavitù’ I debitori insolventi, la società romana assunse una struttura insolita per il mondo mediterraneo. In Grecia infatti, la schiavitù’ non era mai stato un fenomeno di massa. Ma di cosa si occupavano queste disgraziate persone. Essi formavano la mano d’opera per qualsiasi tipo di lavoro, le aziende agricole, in particolare potevano produrre solo se si sfruttava il lavoro degli schiavi. Del resto, i Romani liberi preferivano fare il bottegaio o il pastore che lavorare alle dipendenze di un padrone. Questo, però, portava a clientele limitate per gli artigiani liberi, perché le aziende erano autosufficienti e inoltre siccome uno schiavo costava meno di un uomo libero, si giunse al fenomeno di persone che si davano volontariamente in schiavitù’ per sopravvivere.

 I GIOCHI OLIMPICI

 I giorni festivi erano tali per tutti; in Atene in un anno vi erano ben 70 giorni festivi. Ogni 4 anno, gli Ateniesi davano in onore della loro dea protettrice, Atena ,una festa che durava da 6 a 9 giorni consecutivi. Questa veniva aperta con giochi e gare atletiche, fra cui una corsa di barche e una con le fiaccole; quest’ultima era una corsa a staffette fra due squadre i cui componenti dovevano passarsi le fiaccole. Il vincitore dei giochi riceveva in dono una giara decorata e piena di olio ottenuto da olive sacre .Questa consuetudine esiste ancor oggi, quando nelle competizioni sportive viene data in dono una coppa.

I CULTI ORIENTALI

Le religioni orientali che si diffusero a Roma e nelle provincie occidentali verso la fine del periodo repubblicano e all’inizio dell’età imperiale appartenevano a un mondo di idee completamente estraneo alle credenze e alle pratiche del paganesimo romano tradizionale. La religione tradizionale era nata dalle necessità di una semplice società rurale e nella sua forma più progredita veva sancito le attività politiche e l’imperialismo sempre più spinto dal governo repubblicano di Roma; tuttavia, all’interno della cosmopolita società urbana dell’impero romano, era considerata sempre più insufficiente. Dapprincipio, i culti orientali furono diffusi in occidente dai mercanti e soprattutto dagli schiavi; è significativo, per esempio che Euno Antioco, capo della prima rivolta degli schiavi in Sicilia fosse un seguace di Atargatis, la "dea siriana", e dovesse gran parte del suo carisma nel presentarsi come un suo protetto.

L’immigrazione spontanea provocata dal commercio fece nascere comunità greche e orientali di notevoli dimensioni in tutte le principali città occidentali dell’Impero; questi nuclei divennero dei centri di diffusione dei culti orientali, esattamente come le comunità ebree della diaspora furono gli agenti iniziali della diffusione del cristianesimo.

Le religioni misteriche divennero sempre più popolari, una delle più importanti era il culto della "dea siriana". Fra gli altri ricordiamo i culti frigi di Cibele e Sabazio, quello egizio di Iside e quello persiano di Mitra. Si potrebbe anche aggiungere il culto ebraicopalestinese del cristianesimo che, sebbene per certi aspetti fosse unico, aveva molti tratti comuni con gli altri culti orientali, di cui per un certo periodo subì la concorrenza.

I culti orientali differivano dal paganesimo tradizionale perché si rivolgevano direttamente all’individuo offrendogli una possibilità di redenzione personale attraverso la comunione con i poteri divini. L’appello alle convinzioni personali dell’individuo introdusse il concetto di conversione; essa avveniva tramite la cerimonia di iniziazione e la rivelazione dei misteri noti solo a un gruppo di ristretto e privilegiato. Grande importanza era data ai pasti rituali, alla sofferenza come mezzo di espiazione e alle cerimonie di purificazione. Tra queste ultime la più impressionante era senza dubbio il taurobolium il fedele veniva posto in una fossa e lavato con il sangue di un toro sacrificato sopra di lui. Da questo rito l’iniziato usciva in uno stato di purificata innocenza.

Parte dell’attrattiva esercitata da culti misterici stava nell’uguaglianza con gli altri credenti; tra iniziati non si teneva più conto delle barriere sociali ed etniche. Tutti i culti misterici avevano rituali e liturgie complessi, un’elaborata teologia e una dottrina dell’immortalità; in parole povere erano in grado di soddisfare le necessità estetiche, intellettuali e spirituali di qualsiasi tipo di persona, offrendo rifugio dalla realtà che spesso era dura ed ingiusta.