Roma Caput Mundi

SPQR. Questa sigla significava Senatus PopulusQue Romanus, cioè "Il senato e il popolo di Roma".

L'espressione latina indicava quindi il popolo romano come unità politica ed era presente sui monumenti, sui cippi stradali e sugli stemmi.

Sotto questi stemmi, gli eserciti romani, partendo da un borgo di capanne circondato da paludi, mossero dapprima alla conquista della penisola italiana, poi del Mediterraneo, sino a fare di Roma la capitale di tutto il mondo allora conosciuto.

Vittoria sugli Etruschi, sconfitta con i Galli

Con la fine della monarchia (509 a.c.), ebbe inizio a Roma il periodo dell' età repubblicana, che durò sino al I secolo a.c., e durante il quale la città conobbe un grande sviluppo politico ed economico.

Roma era ormai da tempo la maggiore città del Lazio e controllava gli altri centri attraverso la lega delle città latine.

Nel corso del V secolo a.C. dovette combattere contro Volsci ed Equi, alleatisi con alcune città latine ribelli.

Uscita vittoriosa da questi conflitti, dovette affrontare una lunga e sanguinosa guerra contro la città etrusca di Veio, che ostacolava la sua espansione verso nord.

Le truppe di Roma, al comando del console Marco Furio Camillo, nominato dittatore, riuscirono a conquistare la città nemica nel 396 a.c.

La sconfitta di Veio rese evidente il declino della potenza etrusca.

Ne approfittarono i Galli o Celti, nomadi provenienti dalla Francia, che si erano stabiliti nella pianura padana e in Emilia.

I Galli attaccarono l'Etruria e giunsero sino a Roma (387 a.C), occupando la città. Resistette solo la rocca del Campidoglio, che i Romani avevano potentemente fortificato.

Tuttavia, poiché i Galli mantenevano costumi e tradizioni da nomadi e preferivano limitarsi a brevi spedizioni in cui potessero compiere razzie e saccheggi, Roma fu liberata dietro il pagamento di un ricco tributo in oro.

La sconfitta costituì unasalutare lezione per il popolo romano, anche se la storia "ufficiale" di Roma non volle mai ammetterla; nacque, infatti, una leggenda secondo cui Marco Furio Camillo sarebbe arrivato con le armi in pugno mentre si stava pagando il riscatto e avrebbe scacciato gli invasori.

Il durissimo scontro con i Sanniti

Dopo la guerra contro i Latini e le città etrusche, Roma era divenuta la maggiore potenza militare terrestre in Italia. Più organizzata e unita della lega etrusca e anche delle potenti città greche del Mezzogiorno (Napoli, Taranto e Siracusa, divise da rivalità e spesso in guerra fra loro), poteva inoltre contare su un vero e proprio esercito di cittadini, di gran lunga più fedele e motivato a combattere dei soldati mercenari assoldati da Etruschi e Greci.

A contrastare la politica di conquista di Roma erano ora i Sanniti, che abitavano le zone montuose della Campania e dell'Abruzzo. I Sanniti erano rudi e valorosi combattenti, fortissimi nei loro territori montuosi, che ben si prestavano agli attacchi di sorpresa e agli agguati. Proprio come Roma, miravano a espandersi verso l'Italia meridionale. Lo scontro, che ebbe inizio nel 343 a. C, fu dunque inevitabile e si rivelò lungo e sanguinoso. Roma poteva, però, contare sull' aiuto di Napoli, la cui ricchezza era continuamente minacciata dalle tribù sannitiche, mentre Etruschi e Galli si allearono ai Sanniti per tentare di contrastare insieme la potenza romana, che stava ormai dilagando in tutta Italia.
L'azione dei Romani fu estremamente efficace e coordinata: attaccarono separatamente gli eserciti dei tre popoli alleati. Dapprima sconfissero i Galli a Sentino, nell'Umbria, quindi combatterono gli Etruschi e i Sanniti, costringendo entrambi a divenire alleati di Roma.

Roma contro Taranto e il re Pirro

Dopo aver sconfitto i Sanniti, Roma si trovò di fronte le ricche città greche della Magna Grecia, alcune delle quali assai potenti, come Taranto e Napoli. Napoli scelse di allearsi con Roma, mentre Taranto decise di resistere.
Taranto era una città commerciale molto ricca e per contrastare la potenza dei Sanniti aveva chiamato in aiuto, più volte, truppe dell'Epiro (un regno a nord della Grecia) o truppe di Sparta. La guerra contro Taranto scoppiò nel 281 a.c. e in quell' occasione i Tarantini chiesero aiuto a Pirro, re dell'Epiro. Pirro, assai ambizioso, cercava di estendere il proprio dominio nell'Italia meridionale. Le sue truppe impiegavano in battaglia elefanti rivestiti di pesanti corazze. Forse anche grazie a questa novità militare, all'inizio Pirro sconfisse i Romani. Perse tuttavia un numero incredibilmente alto di soldati e non riuscì a rimpiazzarli, sia per la distanza dalla madrepatria, sia perché l'Epiro era un regno piccolo e poco popolato.
Taranto, inoltre, aveva sperato nell'aiuto delle altre città greche, compresa la potente Siracusa, ma Roma aveva da tempo stretto solide alleanze con queste.
Nel 275 a.C Pirro venne definitivamente sconfitto a Benevento e fu costretto ad abbandonare l'Italia. Taranto, Reggio Calabria e i territori di altre popolazioni meridionali, come i Bruzi (Calabria) e i Lucani (Basilicata), furono tutti incorporati nei domini di Roma.
Ormai era sotto il controllo dei Romani un territorio che si estendeva fino allo stretto di Messina e che contava una popolazione di almeno 4 milioni di abitanti.

Un ordinamento articolato: colonie, municipi e soci

Per quali ragioni tanti e così diversi popoli accettarono senza più ribellarsi il dominio di Roma?
Innanzi tutto occorre dire che Roma rifiutò di imporre tasse e tributi alle città vinte, comportandosi, in questo, in modo diverso da quasi tutti gli altri popoli conquistatori dell' età antica. Roma, infatti, richiedeva solo aiuti militari in caso di guerra, in modo da assicurare una difesa comune. Altrettanto efficace si dimostrò l'idea di sottoporre i diversi domini a differenti trattamenti politici. I romani suddivisero, infatti, i territori e le città conquistate in tre categorie:

- municipi,

- colonie,

- alleati (o soci).

Ecco in forma schematica l'ordinamento amministrativo della federazione romanotalica.
Roma:

i suoi cittadini godevano di pieni diritti, politici e civili.

Colonie:

- le città fondate a difesa di luoghi di interesse strategico da cittadini romani (colonie romane) o latini (colonie latine); i loro abitanti avevano gli stessi diritti di tutti i cittadini romani. Le colonie consentivano ai cittadini più poveri di migliorare le loro condizioni di vita grazie al trasferimento lontano dalla madrepatria; di fatto, esse controllavano i territori e le popolazioni sconfitte e contribuirono grandemente ad assicurare a Roma la fedeltà delle regioni in cui si trovavano.

Municipi:

- erano le città conquistate da Roma che conservavano però un' ampia autonomia amministrativa, governandosi da sé attraverso propri magistrati. I loro abitanti godevano degli stessi diritti civili dei Romani; non avevano, però, diritti politici e dovevano contribuire con truppe regolari alla difesa e offrire viveri, armi, carri e navi.
Soci:

- città socie o alleate, legate a Roma da trattati di alleanza (foedera). In genere questi trattati riservavano a Roma le decisioni sulla pace e sulla guerra, ma lasciavano alle città la libertà di gestire come credevano i loro affari interni.
In ogni caso i popoli conquistati potevano liberamente commerciare tra loro e con Roma, mantenevano buona parte delle loro proprietà fondiarie e potevano professare la loro religione. Le famiglie più importanti e ricche potevano essere ammesse alla cittadinanza romana e anche stabilirsi nella stessa Roma.
Con 1'espansione di Roma, il diritto romano, la lingua latina e i costumi dei Romani si diffusero progressivamente in tutta Italia. Si realizzò, cosÌ, un'unica civiltà: le comunicazioni furono rese più agevoli, si costruirono ponti, strade, acquedotti e nuove città.
Tutto questo favorÌ lo sviluppo dell'economia: la produzione e gli scambi commerciali fiorirono in tutta Italia.
Questo avveniva in un clima di pace interna che per quel tempo rappresentò una grande conquista: i trasporti via mare potevano realizzarsi senza timore di pirati; nei centri abitati veniva fatto rispettare l'ordine pubblico; chi subiva un torto poteva chiedere e ottenere giustizia.

I lunghi conflitti tra patrizi e plebei

Contemporaneamente alle guerre di espansione nella penisola, Roma dovette affrontare una lunga serie di lotte interne. Ne furono protagonisti patrizi e plebei. L'importanza di questi ultimi era cresciuta proprio grazie alle guerre di conquista. Si era reso infatti necessario arruolare un numero sempre più grande di soldati, e poiché gli aristocratici risultavano in numero insufficiente rispetto alle necessità dell'esercito, i plebei avevano contribuito in larga misura alle vittorie romane.
Questo loro successo sul piano militare ebbe grandi conseguenze anche sul piano politico e sociale. I plebei ricchi, infatti, cominciarono a premere per partecipare al governo della repubblica; i plebei poveri, invece, chiesero soprattutto migliori condizioni di vita. Con la proclamazione della repubblica, inoltre, accanto al senato, dove sedevano i soli patrizi, 1'assemblea popolare aveva cominciato a svolgere un ruolo importante.
In essa intervenivano anche i plebei, approvando e respingendo le decisioni più importanti formulate dai due consoli.
Le richieste della plebe diedero luogo anche a scontri molto aspri, e tuttavia mai tali da mettere in pericolo la solidità della repubblica.
I plebei ricorsero, infatti, a una sorta di sciopero, rifiutandosi di lavorare o anche abbandonando l'esercito. Essi rendevano evidente il loro malcontento riunendosi tra loro lontano dal centro della città, per mostrare che "si distaccavano" dalla città stessa e dai compiti che vi si svolgevano.
Gli storici romani scrissero più tardi che il primo sciopero, o meglio secessione, della plebe avvenne nel 494 a.C con l'occupazione del Monte Sacro, oggi un grande quartiere di Roma. Un racconto, la cui verità storica non è provata, ricorda che durante una di queste secessioni i plebei furono convinti a rinunciare alla lotta dal patrizio Menenio Agrippa, il quale disse che se le parti del corpo umano si rifiutano di fare il loro dovere, tutto il corpo si indebolisce, deperendo fino alla morte.

L' APOLOGO DI MENENIO AGRIPPA

Ecco il discorso con il quale, secondo quanto narra Tito Livio (59 a.C 17 d.C) Menenio Agrippa convinse i plebei a rinunciare alla loro protesta. L'apologo è una sorta di favola che contiene insegnamenti morali.
Fu dunque deciso di mandare alla plebe come parlamentare Menenio Agrippa, uomo facondo e, poiché da essa proveniva, caro alla plebe.
Egli, introdotto nell'accampamento, con quel parlare disadorno ch' era proprio degli antichi, non raccontò, a quanto si tramanda, altro che questo: nel tempo in cui nell'uomo non regnava come ora una perfetta armonia fra tutte le parti, ma ogni membro aveva un suo particolare modo di pensare, un suo particolare modo di esprimersi, si sdegnarono le altre parti che tutto ciò ch' esse si procuravano con la loro attività, con la loro fatica, con la loro funzione andasse a vantaggio del ventre, mentre questo se ne stava tranquillo nel mezzo, e ad altro non pensava che a godersi i piaceri che gli venivano offerti.

Fecero dunque una congiura, e convennero che le mani non portassero più cibo alla bocca, che la bocca rifiutasse quello che le veniva offerto, che i denti non masticassero quello che ricevevano. La conseguenza di questa ribellione fu che, mentre si proponevano di domare il ventre con la fame, non soltanto questo, ma insieme con esso anche le membra e tutto il corpo si ridussero a un estremo esaurimento.
Risultò quindi evidente che anche il ventre non se ne stava in ozio, ma aveva una sua funzione, e che non era nutrito più di quanto non nutrisse restituendo a tutte le parti del corpo, equamente distribuito per le vene, questo sangue cui dobbiamo la vita e le forze e che si forma con la digestione del cibo. Dimostrando con un paragone quanto la ribellione interna del corpo fosse simile al furore della plebe contro i patrizi, si dice ch'egli riuscisse a piegare l'animo di quella gente.

Una secessione dopo l'altra: i successi dei plebei

Più volte i plebei ricorsero alla secessione, in anni diversi, ottenendo notevoli conquiste. Dapprima essi nominarono propri capi, i tribuni della plebe, che furono riconosciuti come magistrati della repubblica. A loro fu concesso il diritto di veto, con il quale potevano annullare i provvedimenti contrari agli interessi della plebe.
In seguito i plebei ottennero che le terre via via conquistate fossero in parte distribuite anche a loro e non solo ai patrizi. Inoltre, nel 450 a.c., i tribuni della plebe obbligarono il senato a redigere e pubblicare una raccolta di leggi scritte, chiamate leggi delle Dodici Tavole perché incise su dodici tavole di bronzo. In questo modo l'amministrazione della giustizia diveniva più chiara e trasparente e si evitavano i possibili abusi da parte dei giudici legati ai patrizi. Pochi anni dopo, nel 445 a.c., venne abolita anche l'antica norma che impediva il matrimonio tra patrizi e plebei.
Più tardi fu abolita anche la schiavitù per debiti.
Ma il successo maggiore fu ottenuto dai plebei nel 367, quando Gaio Licinio e Lucio Sestio, tribuni della plebe, chiesero che anche i plebei potessero divenire consoli e far parte del collegio sacro dei sacerdoti. Proprio Lucio Sestio fu il primo console plebeo della storia di Roma. Da allora lo stesso senato fu aperto a tutti coloro che avevano ricoperto tale carica, e quindi anche ai plebei abili e capaci.

Una società più aperta, non una democrazia

Non si deve, però, credere che con questi provvedimenti la società romana divenisse una democrazia simile a quella ateniese. Nell'Atene di Periele tutti i cittadini avevano, almeno in teoria, uguale peso politico. Al contrario, nella Roma repubblicana, i privilegi dei patrizi furono estesi non a tutti i cittadini ma solo ai plebei ricchi, che potevano permettersi di dedicare alla carriera politica tutto il tempo e il denaro che la stessa richiedeva.
Questa era lunga e complessa: iniziava con le cariche più basse e necessitava del voto favorevole dei clienti nelle assemblee.
Chi doveva lavorare per vivere e chi non disponeva di vaste clientele non aveva, di fatto, alcuna possibilità di essere eletto. Si può dire, dunque, che la Roma repubblicana fu un regime aristocratico.
A differenza di Sparta, però, l'aristocrazia di Roma fu composta sia da patrizi, sia da plebei abbienti. Essa consentì, cioè, anche l'affermazione di quelli che Roma stessa chiamava uomini nuovi. Questi portavano nuove idee e un maggior dinamismo, consentendo alla classe dirigente romana un' evoluzione in armonia con le necessità dei tempi, che via via mutavano.

Cartagine, un nemico sempre più potente

Mentre Roma occupava vittoriosamente gran parte della penisola italiana, Cartagine, una colonia fenicia fondata nell'814 a.C sulla costa settentrionale dell'Africa presso l'odierna Tunisi, accresceva il suo dominio sul Mediterraneo occidentale. Cartagine era una grande potenza marittima. Le sue flotte controllavano i mari e la sua espansione coloniale toccava ormai molti paesi mediterranei: Spagna meridionale, Sardegna, Corsica e Sicilia occidentale.
I suoi commerci si spingevano anche verso Oriente, sino alla Persia. Le navi cartaginesi avevano varcato audacemente lo stretto di Gibilterra (le cosiddette" colonne d'Ercole"), esplorando le terre africane a sud e giungendo a nord fino alle coste dell'Inghilterra. Ben consapevoli della crescente potenza romana, i Cartaginesi avevano già stipulato diversi trattati con Roma, anche in occasione delle guerre contro Pirro. Ma appariva chiaro, a un certo punto della loro espansione, che le due grandi città si sarebbero trovate l'una contro l'altra.
Cartagine, tuttavia, aveva due grandi limiti: uno politico, l'altro militare. Politicamente essa imponeva ai popoli soggetti un potere assoluto, diversamente da Roma. Questo comportava a volte dure e aspre rivolte, che Cartagine reprimeva con ferocia e crudeltà. Sul piano militare, inoltre, essa disponeva di un esercito di terra e di mare composto da mercenari, soldati e marinai arruolati in diverse regioni del mondo, i quali, quando non venivano pagati, si rifiutavano di combattere.

Contro i Cartaginesi la prima guerra punica

La prima guerra tra Roma e Cartagine (la prima guerra punica ) scoppiò quasi casualmente. La città di Messina, che controllava lo stretto fra la Sicilia e l'Italia meridionale, era stata occupata da gruppi di ex mercenari ribelli di origine italica, chiamati Mamertini (da Mamerte, nome latino di Marte, dio della guerra). Attaccati dal tiranno di Siracusa, Gerone II, i Mamertini chiesero aiuto a Roma, vantando la loro comune origine italica.
Nel 264 a.C Roma inviò quindi un esercito. Cartagine, preoccupata per una possibile occupazione romana della Sicilia, mandò sue truppe per contrastarlo. Ma i Romani in breve tempo sconfissero sia le truppe cartaginesi che quelle siracusane. Dopo l'alleanza di Gerone II e altre città greche con i Romani, la città di Agrigento fu occupata (261 a.C) e i Cartaginesi vennero battuti nelle battaglie navali di Milazzo e Capo Ecnomo. All' origine della vittoria della flotta romana sta l'invenzione di un'ingegnosa macchina: il corvo. Si trattava di un ponte in legno, collocato a prua e munito di un solido arpione, che veniva abbassato di colpo sulle navi cartaginesi affiancate e le agganciava. I fanti romani, armati di gladio (una spada a lama larga e corta, tagliente su entrambi i lati e appuntita) e di scudo, vi passavano sopra e invadevano la nave nemica.
Nacque così l'arrembaggio, una nuova tecnica di combattimento navale. Resi imprudenti dalle vittorie riportate, i Romani sottovalutarono la reale forza di Cartagine e inviarono in Africa due successive spedizioni per attaccarla nel suo territorio.
La prima riportò un insuccesso sia in mare che a terra e il console Attilio Regolo fu catturato e ucciso. Nella seconda, a causa di una furiosa tempesta, la flotta romana naufragò e con essa parte dell'esercito. I Romani, tuttavia, non si scoraggiarono e allestirono una nuova flotta. Questa, al comando del console Gaio Lutazio Càtulo, ottenne, nel 241 a.C, una schiacciante vittoria presso le isole Ègadi, ponendo così fine alla guerra.
Cartagine dovette abbandonare completamente la Sicilia, restituire tutti i prigionieri romani e pagare un'enorme indennità di guerra a Roma, pari a oltre 40.000 chilogrammi d'argento.
La prima guerra punica fu forse una delle più distruttive del mondo antico. Lo storico greco Polibio la definì "la più grande guerra della storia per durata, violenza e vastità delle operazioni".

Contro Annibale la seconda guerra punica

L'espansione romana continuò: furono occupate la Sardegna, la Corsica e l'Illiria (l'attuale Dalmazia). Nella pianura padana fu presa ai Galli Mediolanum (Milano). Per parte loro, i Cartaginesi iniziarono una serie di campagne militari per occupare la Spagna meridionale e compensare la perdita della Sicilia. Due grandi generali cartaginesi, Amìlcare Barca e Asdrùbale, fra il 237 e il 222 a. C. conquistarono i territori spagnoli posti a sud del fiume Ebro (fiume che, secondo gli accordi presi con Roma, Cartagine non doveva attraversare).

Nel 219 a.C. il nuovo generale cartaginese Annìbale attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma. I Romani chiesero ai Cartaginesi di ritirarsi, ma Annibale rifiutò. Cominciava così la seconda guerra punica.

Annibale decise subito di lasciare la Spagna e di marciare contro l'Italia, attraversando le Alpi con un esercito di 20.000 fanti e 6.000 cavalieri. Grazie all' aiuto delle tribù galliche, egli riuscì a sconfiggere l'esercito romano presso i fiumi Ticino e Trebbia. Poi, spostandosi rapidamente verso sud, batté di nuovo i Romani presso il lago Trasimeno, in Etruria.

Tuttavia, contrariamente a quanto sperava, gli alleati latini e dell'Italia centrale non si ribellarono a Roma. Così l'esercito cartaginese dovette dirigersi ancora più a sud. Nel 216 a.c. Annibale riportò un'altra clamorosa vittoria a Canne, in Puglia. Molte città del sud, come Capua, Taranto e Siracusa, passarono allora dalla parte dei Cartaginesi.
Nel 215 a.c. anche il re Filippo V di Macedonia si alleò con Annibale, ormai da tutti ritenuto prossimo vincitore. Roma, sostenuta dalle città alleate dell'Italia centrale, rifiutò ogni trattativa di resa. Il suo nuovo generale, Quinto Fabio Massimo, propose di prendere tempo e aspettare che l'esercito cartaginese, lontano dalla patria, si indebolisse. Capua venne quindi assediata e presa nel 211 a.c., mentre una grande spedizione navale riconquistava nello stesso anno Siracusa sotto il console Claudio Marcello, e un terzo esercito combatteva in Spagna riconquistando Sagunto, sotto il comando di Publio Cornelio Scipione. In soli tre anni, questo giovane generale conquistò la potente colonia di Nuova Cartagine e sconfisse Asdrubale prima che si ricongiungesse al fratello Annibale in Italia. La battaglia fu combattuta presso il fiume Metauro, ne1207 a.c. Annibale rimase così nell'Italia meridionale sempre più isolato, mentre Scipione riusciva a cacciare tutte le truppe cartaginesi dalla Spagna.

Per Scipione "l' africano" è il momento dell' attacco

Nel 204 a.c. Scipione ottenne dal senato l'autorizzazione a sbarcare in Africa per attaccare direttamente la stessa Cartagine. Annibale rientrò in Africa a difendere la sua patria, ma fu sconfitto nella battaglia finale, avvenuta a Zama (202 a.c.). Egli stesso dovette trattare la resa, incontrandosi con Publio Scipione.

Fu stabilito che Cartagine abbandonasse ogni conquista e ogni colonia fuori dalle coste africane; la sua flotta fu ridotta a sole dieci navi e i Cartaginesi si impegnarono a pagare in 50 anni un'indennità di oltre 100.000 chilogrammi d'argento. Nel 195 a.c.Annibale fu costretto ad abbandonare la patria perché i Romani ancora lo temevano, e si rifugiò presso i re orientali nemici di Roma. Sconfitti anche questi sovrani dagli eserciti romani, Annibale si avvelenò nel 183 a.c. per non arrendersi ai suoi nemici. Dopo la vittoria su Cartagine, i Romani si dedicarono alla riarganizzaziane dei territori conquistati.
Le città dell'Italia settentrionale che si erano ribellate, alleandosi con Annibale, vennero duramente punite. Per maggior sicurezza furono ingrandite e rinforzate le colonie romane già create e ne furono fondate altre, come Rimini e Aquileia. Anche la Spagna entrò a far parte del dominio romano ma, a causa delle continue ribellioni, pacificarla fu un'impresa lunga e difficile. La conquista definitiva di questo territorio si realizzò solo nel I secolo a.c., agli inizi dell'impero di Augusto.

La conquista della Grecia e la fine di Cartagine

La fine della seconda guerra punica aveva lasciato i Romani liberi di intervenire anche in Grecia e in Oriente. Inizialmente Roma andò in Grecia per punire Filippo V re di Macedonia, che si era alleato con Annibale e Cartagine. Tra il 200 e il 197 a.c. l'esercito romano del console Tito Quinzio Flaminino sconfisse le truppe macedoni e costrinse Filippo V che aveva occupato la Grecia, a rientrare in Macedonia.
Fu così che ai giochi sacri di Corinto nel 196 a.c. il console Flaminino poté proclamare a una folla entusiasta che Roma, avendo liberato il paese, intendeva lasciare alle città e agli Stati greci la loro indipendenza.

Questa soluzione, tuttavia, non poteva durare a lungo. Fu il re Pèrseo di Macedonia che per primo si pose a capo della lotta contro i Romani. Ma Perseo fu sconfitto a Pidna (168 a.C) e poco dopo il regno di Macedonia diventò una provincia romana. La presenza di soldati romani sul territorio greco divenne allora più assidua. Inoltre, l'indipendenza concessa alle città greche era limitata. Nel 146 a.C alcune città greche costituirono una lega contro Roma e riunirono un esercito, ma Roma le sconfisse. Corinto, che si era posta a capo della lega, fu saccheggiata e distrutta (145 a.C), e la Grecia divenne una provincia romana.

Nel frattempo Cartagine si era ripresa. Essa non costituiva in realtà una vera minaccia, ma il ricordo delle guerre precedenti era ancora molto vivo. Roma colse allora l'occasione rappresentata da una modesta guerra di confine fra Cartagine e Massinissa, re della Numidia (all'incirca l'attuale Algeria), per intervenire. Cartagine chiese la pace, ma Roma fu inflessibile e scoppiò la terza guerra punica. Dopo due anni di assedio e di difesa disperata, la città fu conquistata e distrutta (146 a.C) da Scipione Emiliano, nipote dello Scipione Africano vincitore di Zama. Sulle rovine di Cartagine fu passato l'aratro e sparso del sale, perché nulla vi potesse più crescere.

Roma e l'influenza della cultura greca

Per la prima volta nella storia del mondo antico, una repubblica aveva creato un esteso dominio simile a un impero. Tutto ciò provocò profondi cambiamenti nella vita politica, sociale ed economica di Roma e della stessa Italia. L'improvviso afflusso di ricchezze conquistate con le guerre e il contatto con la Grecia e l'Oriente cambiarono profondamente il modo di vita dei Romani delle classi agiate. Generali come Scipione e Flaminino, senatori, patrizi, plebei ricchi adottarono spesso gli usi e costumi greci e vissero immersi nel lusso. Così facendo, si attirarono le accuse di uomini austeri come Catone il Censore, che si atteggiò a difensore dei modi di vita semplici della vecchia repubblica. Un fortissimo influsso fu esercitato dalla cultura artistica e letteraria greca su quella di Roma. Un grande poeta latino, Orazio, scrisse in seguito: "La Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore".
Effettivamente la cultura latina era stata sino ad allora assai più semplice di quella greca. In particolare i Romani avevano sviluppato come creazioni proprie soprattutto alcune scienze nelle quali erano di primaria importanza aspetti tecnici o immediate utilità pratiche, come l'architettura o il diritto. Al contrario, le arti figurative, la poesia, il teatro si affermarono solo in seguito ai contatti con la Grecia e si ispirarono moltissimo a modelli greci. Di questo i Romani furono ben consapevoli. Secondo loro la letteratura latina aveva una precisa data di nascita: il 240 a.C In quell'anno Livio Andronìco, un greco di Taranto, autore di una traduzione in latino dell'Odissea, mise in scena una tragedia in lingua latina.

I ricchi speculatori creano i latifondi

Le lunghe guerre condotte da Roma furono un vero e proprio disastro per i piccoli proprietari agricoli della penisola. Costretti infatti ad arruolarsi, dovevano lasciare incolti i loro poderi, e molti furono indotti a vendere ai proprietari più ricchi. Si formarono così in tutta la penisola grandi proprietà agricole, i latifondi, lavorate dagli schiavi. Questi costavano meno dei cittadini liberi (non venivano pagati, ma solo nutriti) ed erano esentati dal servizio militare. Inoltre erano in prevalenza nemici catturati e quindi ce n'erano moltissimi a disposizione.
Le terre che i Romani conquistavano o confiscavano alle città ribelli entravano a far parte dell' ager publicus (il "terreno pubblico", di prorietà cioè dello Stato romano). La legge stabiliva che ogni individuo poteva farsi assegnare una certa quantità di questo "terreno pubblico"pagando una somma di denaro, e fissava limiti precisi; ma i proprietari più ricchi, violando tale legge, acquisirono molto più terreno di quanto fosse loro consentito.

D'altra parte i piccoli proprietari non erano in grado di sborsare le somme richieste; gran parte dell' ager publicus andò così ad accrescere le grandi proprietà.

Commercio, finanze e nuovi ceti sociali

Le nuove province conquistate furono costrette a pagare tributi annuali, mentre l'Italia era esentata dalle tasse. Le grandi somme di denaro che affluivano a Roma furono utilizzate da un lato per finanziare altre guerre e nuove conquiste, dall' altro per pagare il grande sviluppo edilizio di Roma e di altre città italiane. L'artigianato e molte piccole attività industriali si svilupparono in tutta Italia: nacquero fabbriche di armi e vestiario per l'esercito, di arredi e ceramiche, di tessuti. Le costruzioni civili (strade, ponti, acquedotti ecc.) e la loro manutenzione richiedevano molta mano d'opera specializzata. Nacquero così numerose aziende private di costruzioni, per lo sfruttamento delle miniere, per la riparazione degli edifici. Molto ambiti erano anche i contratti per le forniture all' esercito. Poiché i senatori erano esclusi per legge dalle attività commerciali, si formò un nuovo ceto sociale, quello dei pubblicani, cioè forni tori pubblici. Con loro lo Stato stipulava contratti per acquistare beni, per appaltare la costruzione di edifici, per la riscossione delle tasse. I pubblicani divennero ben presto un influente partito politico, a metà strada fra i plebei e i patrizi. Più tardi chiesero e ottennero di essere riconosciuti dalla legge. In base alla loro ricchezza erano obbligati a prestare il servizio militare nella cavalleria: da qui il nome di cavalieri che fu dato alla loro classe sociale.

La religione dei Romani

Spesso la religione romana viene confusa con quella greca, anch'essa una religione politeista. Effettivamente essa risentì della grande influenza che il mondo greco esercitò su Roma. Vi furono tuttavia alcune differenze, almeno all'inizio. Già le città del Lazio, prima ancora della fondazione di Roma, praticavano il culto di Giove Laziale. Giove era la divinità principale, che proteggeva la città e dominava il mondo e la natura. Giano e Vesta, tra le divinità più antiche accanto a Giove, proteggevano il primo la porta di casa e l'inizio di ogni lavoro, la seconda il focolare domestico. Quirino e Marte erano divinità guerriere. Saturno proteggeva la semina, Cerere il raccolto, Flora e Pomponia i fiori e i frutti. Altre divinità femminili si affiancarono a Giove: la moglie Giunone, regina degli dei, Minerva, dea della sapienza, Diana, dea della caccia, Venere dea dell'amore. Ogni casa aveva, infine, i suoi dei: gli spiriti antenati (Mani), i protettori della casa (Lari) e della famiglia (Penati). A capo del rituale religioso era un gran sacerdote o pontefice massimo. Altri sacerdoti erano gli àuguri, che predicevano il futuro leggendo i presagi, cioè la volontà degli dei, nei fenomeni naturali: il lampo, il tuono, il volo degli uccelli. Le sacerdotesse Vestali tenevano continuamente acceso il fuoco nel tempio di Vesta, che proteggeva la grande famiglia costituita dal popolo romano. In seguito, quando la cultura greca si diffuse a Roma, si verificò una specie di sovrapposizione fra divinità che presentavano caratteristiche simili. Quindi Giove si identificò col greco Zeus, Minerva con Atena, Venere con Afrodite ecc. Divennero popolari a Roma anche divinità solo greche, come Mercurio, Apollo o Esculapio, il dio della medicina. Ma la tendenza fu sempre quella di accogliere le divinità dei popoli conquistati e di integrarle con quelle romane.

UN RITRATTO DI ANNIBALE

Ecco il ritratto del generale cartaginese Annibale come emerge dalle pagine della Storia di Roma dalla sua fondazione dello storico romano Tito Livio.

Annibale, mandato in Spagna, al suo primo giungere attrasse le simpatie di tutto l'esercito [...]. Una stessa natura non fu mai più atta a due opposte cose: all'obbedire e al comandare. Pertanto, non avresti potuto giudicare se egli fosse più caro al comandante o all' esercito, poiché Asdrubale, ogni volta che vi era da prendere qualche iniziativa, non preferiva alcun altro che la guidasse,né isoldati in altro capitano avevano più fiducia, quando si trattava di osare qualche ardita impresa. Massima era la sua fiducia nell' affrontare i pericoli, massima la sua prudenza negli stessi frangenti, da nessun disagio il suo corpo poteva essere affaticato, né il suo coraggio poteva essere vinto. Sopportava parimenti il caldo e il freddo; la misura dei cibi e delle bevande era determinata dal desiderio naturale, non dal piacere; né di giorno né di notte vi erano per lui ore fisse per il sonno e per la veglia; quel tempo che restava, compiute le imprese, era dato al riposo, che non era procurato né da silenzio né da soffice letto; molti, infatti, scorsero spesso Annibale che giaceva in terra avvolto nel mantello militare, in mezzo alle sentinelle [...].

Il suo modo di vestire non era diverso da quello dei coetanei; davano nell' occhio solo le armi e i cavalli. Era Annibale di gran lunga il primo tra i fanti e i cavalieri: nell'avviarsi alla battaglia precedeva tutti; finita la zuffa, ne ritornava ultimo.
Tuttavia, grandissimi vizi pareggiavano virtù così grandi: una feroce crudeltà, una malafede più che cartaginese, una continua menzogna, nessun rispetto per la religione, nessun timore degli dei, lo spregio del giuramento, la mancanza di ogni scrupolo.