L'Impero di Roma

La pax romana

Con la vittoria di Ottaviano sui suoi avversari comincia per Roma un periodo di pace interna, che consentirà all'impero di raggiungere un livello di civiltà e uno sviluppo economico davvero eccezionali.

Nello stesso tempo fioriranno la letteratura e l'arte, si evolveranno la scienza e la tecnica.

Roma dunque conquista, oltre al primato militare e politico, anche quello culturale.

Il lungo regno di Ottaviano

Il lungo periodo di governo di Ottaviano, durato ben 45 anni (31 a.c.-14 d.c.), assicurò a tutto l'impero condizioni di pace e di tranquillità che corrisposero ai desideri di tutti e contribuirono a rinsaldare i legami fra le province e Roma.

Come Cesare, anche Ottaviano tolse il potere al senato e lo concentrò nelle proprie mani.

Ma, mentre Cesare non aveva nascosto l'intenzione di divenire capo assoluto di una nuova monarchia, Ottaviano fu molto più cauto e si presentò come colui che restaurava insieme la pace e la vecchia repubblica.

La grande intuizione di Ottaviano fu che il suo progetto di trasformare il regime di Roma in una struttura politica retta da un potere unico e assoluto doveva ottenere il consenso di tutti i gruppi sociali e attuarsi gradualmente nell' apparente rispetto delle leggi e delle tradizioni del popolo romano.

Così, tornato a Roma vittorioso e con un prestigio illimitato, dichiarò solennemente che restituiva al senato e al popolo romano tutte le proprie cariche eccezionali.

In realtà, le sue erano solo parole: come vedremo, se ufficialmente veniva restaurata la repubblica romana, il potere era destinato a rimanere totalmente nelle sue mani e con lui sarebbe sorto l'impero romano.

Ottaviano si dimostrò comunque sempre attento, almeno formalmente, al ruolo del senato e a quello dei cittadini romani.

Ai senatori, infatti, furono concessi molti privilegi, come gli alti comandi dell' esercito, l'amministrazione delle province e l'accesso a uffici che gestivano le ricchezze dello Stato o curavano la manutenzione delle opere pubbliche; tuttavia essi non ebbero più il controllo dell' esercito e della riscossione dei tributi.

Ottaviano, inoltre, ebbe cura di prendere per sé soltanto quei titoli che legalmente gli spettavano per i compiti che gli erano stati assegnati.

Si fece quindi nominare console e ottenne in questo modo il comando militare (in latino impèrium) delle più importanti province d'Occidente, in modo da mantenere legalmente il controllo sull'esercito: perciò venne chiamato imperàtor, imperatore, che allora significava semplicemente comandante delle truppe.

Si permise un solo titolo onorifico, quello di Caesar Divi Filius, cioè "figlio del divino Cesare". Fu anche chiamato prìnceps, cioè "primo cittadino" della repubblica.

Quando nel 27 a.C ricevette dal senato il titolo di Augusto, esso gli fu concesso perché contemporaneamente Ottaviano rinunciò ai poteri speciali che il senato stesso gli aveva prima affidato. In pratica egli divenne il capo supremo dello Stato romano, riunendo nella sua persona i poteri civili (grazie alla carica di tribuno della plebe che gli fu confermata a vita) e quelli militari (come imperatore proconsolare).

Un elemento di novità fu invece l'attenzione riservata alle province. Augusto si circondò di uomini nuovi, molti dei quali provenivano appunto dalle diverse città dell'impero. Inoltre, un particolare sforzo di propaganda fu dedicato a far sì che i popoli dell'impero romano sentissero di far parte di una superiore civiltà, erede di quella greca. In ciò si impegnarono molti letterati.

Suddivisione e amministrazione dell'impero

Augusto divise l'amministrazione dei domini secondo due categorie di province:

le province senatorie (Africa, Grecia, Sicilia, Asia e altre regioni minori), che generalmente erano quelle conquistate da più tempo; venivano governate da pretori o consoli nominati dal senato;

le province imperiali (Egitto, Gallia, Spagna, Germania, Rezia, Norico, Pannonia e Dalmazia e altri regni orientali minori), di solito poste in regioni di confine, i cui governatori erano nominati direttamente dall'imperatore.

Fu soprattutto grazie all' esercito che furono rafforzati i legami culturali e affettivi tra Roma e le province. Infatti, molti dei soldati che avevano prestato servizio per venti anni (i veterani) ricevevano, una volta congedati, terreni nelle province o lungo i confini. Qui essi diffondevano la lingua, la cultura e le tradizioni di Roma.

Importanti mutamenti per le classi sociali

Augusto e i suoi successori fecero molta attenzione a evitare i conflitti fra le diverse classi sociali.
Se i senatori, come abbiamo visto, mantennero un ruolo in qualche modo privilegiato' anche la classe dei cavalieri fu favorita dal potere imperiale. Essa fu ufficialmente riconosciuta come la seconda classe dello Stato. I cavalieri avevano diritto a determinati titoli e onori, a molte cariche ufficiali, ad alcuni comandi nell' esercito, a diversi governi di importanti province (tra cui quello dell'Egitto). Essi inoltre continuarono a occuparsi del commercio e della banca, mentre persero in parte il privilegio della riscossione delle imposte, che Augusto preferiva controllare attraverso funzionari imperiali.
L'imperatore si dimostrò attento anche nei confronti della plebe di Roma, in gran parte formata da nullatenenti e disoccupati. La politica del governo romano nei confronti di queste masse è ben sintetizzata nel celebre motto del poeta GiovenaIe (nato tra il 50 e il 65 d.c., morto intorno al 140): "pane e spettacoli da circo" (panem et circenses). Infatti, per tenerla tranquilla, venivano garantite alla plebe razioni gratuite di cibo, distribuzioni di denaro, e l'organizzazione di un numero sempre crescente di giochi e spettacoli. Il costo di tutto ciò era indubbiamente alto, ma Roma poteva permettersi di coprirlo con le ricchezze e con le tasse che provenivano dai territori dell'impero.
Nel complesso, tutti gli abitanti dell'Italia furono favoriti dal nuovo assetto imperiale. I più abili potevano divenire facilmente cavalieri o senatori. Potevano prestare servizio nell' esercito come ufficiali, esercitare il commercio e l'industria, divenire fornitori dell' esercito, o anche professionisti: avvocati, architetti, magistrati. Il favore dell'imperatore poteva assicurare a chiunque, persino agli schiavi, il successo e la ricchezza.
Sotto l'impero infatti la schiavitù era notevolmente aumentata; a Roma, per esempio, gli schiavi erano diventati un quinto della popolazione (200.000 su circa un milione di abitanti), e in questo periodo la loro condizione subì profonde trasformazioni.
Già in precedenza lo schiavo poteva essere manomesso, cioè liberato dal padrone: egli diventava allora liberto, acquistava la cittadinanza romana e i diritti politici, anche se restava ancora legato all' ex padrone come cliente.
Ma, ancor prima di venire liberato, lo schiavo che si rivelava intelligente e capace poteva essere avviato dal padrone a un lavoro o a una professione. Il padrone gli affidava un piccolo patrimonio (peculium), permettendogli di diventare così un piccolo imprenditore. Allora, pur restando schiavo, gli era concesso di esercitare la sua attività e anche un' autorità sui sottoposti. I guadagni che ne derivavano venivano divisi fra padrone e schiavo, in misura certo assai più favorevole al padrone. Questo fenomeno, dapprima limitato e casuale, durante l'impero divenne estremamente diffuso. Moltissimi schiavi si arricchirono a tal punto da comprarsi la libertà, versando al padrone una forte somma. Le loro capacità e le loro abilità furono tanto apprezzate, che molti liberti o schiavi diventarono funzionari dell'imperatore, spesso di alto livello, garantendo anche ai propri figli una brillante carriera. Nel I secolo d.c. molti senatori discendevano da famiglie di liberti, e il fenomeno divenne ancora più diffuso nel II e III secolo d.c.

Una lunga lista di successori per Augusto

Alla morte di Augusto (14 d.c.) si pose il problema di chi avrebbe preso il posto del defunto imperatore.
Durante il I secolo d.c.la successione al trono imperiale avvenne per eredità: all'imperatore succedeva il figlio o un parente diretto.
Ad Augusto, che non aveva figli, seguirono il nipote Tiberio (14-37), quindi Calìgola (37-41), Claudio (41-54) e Nerone (54-68), tutti membri della famiglia Giulio-Claudia. Nessuno di essi ebbe le doti diAugusto e qualcuno, come Caligola e Nerone, si distinse anche per la sua eccezionale crudeltà.
Nel frattempo la corte imperiale diventava sempre di più un luogo di intrighi e di congiure. Poiché la successione non era regolata in maniera precisa, molti tramavano per prendere il posto dell'imperatore in carica. In questa situazione prese grande potere una nuova figura, il prefetto del pretorio, cioè il capo della guardia personale dell'imperatore, costituita da militi chiamati pretoriani.
Restava fortissimo, naturalmente, il potere dell'esercito, che spesso influenzò la scelta dell'imperatore indirizzandola su un generale di particolare fama e valore. Nel 69 d.c., dopo la rivolta di alcune legioni, conquistò il trono imperiale il generale Vespasiano, della famiglia Flavia. A lui seguirono i figli Tito e Domiziano. Ma, dopo la morte di quest'ultimo, assassinato nel 96 d.c., l'imperatore Nerva (96-98) sostituì il principio dell' adozione a quello ereditario: ogni imperatore avrebbe "adottato" il suo successore, scegliendolo fra i candidati ritenuti più degni.
E, in effetti, durante il II secolo dell'impero, salirono sul trono alcuni grandi imperatori: Traiano (98-117), Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180), chiamato "l'imperatore filosofo", e, più tardi, gli imperatori della famiglia dei Severi: Settimio Severo (193211), Caracalla (211-217), Alessandro Severo (222-235).
Con Traiano, che fu un grande generale e governò con giustizia, le conquiste dell'impero raggiunsero la loro massima estensione; sotto Marco AureIio, molte popolazioni confinanti cercarono di conquistare nuove terre a spese dell'impero romano e cessò il sistema dell'adozione. Da allora, talvolta ci si affidò alla successione per eredità, talvolta furono l'esercito o i pretoriani a scegliere il nuovo imperatore.
Sotto i Severi vennero portate a termine alcune importanti riforme, dovute all'influenza del grande giurista Ulpiano.

La pace romana e lo sviluppo economico

Durante l'impero la cultura e il modello di vita romano si diffusero in tutte le province. La lingua latina divenne ovunque la lingua delle classi dominanti, mentre il sistema di vita cittadino fu adottato anche in quelle regioni, come la Gallia, la Britannia, la Germania, la Spagna, dove prima non erano mai esistite vere e proprie città. Nacquero centinaia di nuove città, e ognuna, grande o piccola che fosse, imitava la struttura della tipica città romana o greca: sorgevano templi, una piazza centrale, il teatro, lo stadio per i giochi, le terme e i palazzi pubblici. Ancora oggi centinaia e centinaia di rovine di queste splendide città testimoniano la diffusione del modello di vita romano. Per i primi due secoli seguiti alla morte di Augusto la pace assicurò un livello di sviluppo e di ricchezza che non fu più eguagliato per molti secoli.
Un segno evidente dello sviluppo economico raggiunto è costituito dalla celebre rete stradale fatta costruire dai diversi imperatori e costata allora somme enormi. Ino1tre le città avevano fognature e impianti idraulici, bagni pubblici e terme riscaldate, teatri, anfiteatri, circhi, biblioteche, alberghi.
Che la ricchezza fosse diffusa in tutto l'impero e in tante province lo dimostrano i sontuosi monumenti funebri. Ogni categoria sociale dedicava ai propri morti sarcofagi, tombe, piramidi, mausolei, archi, statue, busti, lapidi, ancora oggi conservati in tutta Europa, ma anche in Africa e in Asia.
La ricchezza di quest' epoca si basò su uno sviluppo equilibrato delle varie attività economiche. Nell'agricoltura e nell' allevamento del bestiame si affermarono in tutte le province le tecniche usate dai Romani, le quali permisero la diffusione di molte colture e dell' allevamento specializzato anche dove non erano mai esistiti. Così molti territori divennero talmente ricchi da poter esportare grano, olio e vino in tutto l'impero.
L'artigianato e l'industria si diffusero anch' essi. La ceramica, la fabbricazione dei tessuti e delle armi, la lavorazione del cuoio e del vetro non furono più prerogativa della Grecia o dell'Egitto, ma divennero attività molto redditizie anche in Gallia, in Germania o in Africa. Il sistema delle strade e dei trasporti marittimi, il clima di pace e di sicurezza favorirono lo scambio anche a lunga distanza delle merci e dei prodotti di ogni regione. La Spagna e la Britannia esportarono metalli; l'Africa oro, avorio e legname prezioso; la Germania pellicce, ambra, pesce, legname.
I primi due secoli dell'impero furono un periodo di progresso tecnico e scientifico. Le costruzioni di opere pubbliche contribuirono al perfezionamento dell' architettura e dell'ingegneria. In molte regioni furono introdotti i mulini azionati da ruote ad acqua. L'irrigazione si diffuse anche nelle province africane, che disponevano allora di un' agricoltura assai più ricca di quella di oggi. La pace romana e la fioritura delle arti All' alto livello di sviluppo dell' economia, della scienza, della tecnica fece riscontro una fioritura culturale di eccezionale rilievo.
Lo sviluppo della letteratura era già iniziato in precedenza, a seguito della conquista dell'Italia meridionale e della Grecia. Già nel periodo repubblicano grandi poeti come Lucrezio (98-55 a.C) e Catullo (87-54 a.C),storici come Sallustio (86-35 a.C), oratori come Cicerone (106-43 a.C) avevano reso pubbliche le loro opere. Successivamente, nell' età di Augusto, Virgilio (70-19 a.C) aveva celebrato nell'Eneide la leggenda delle origini di Roma, collegandole alla Grecia e alle vicende descritte da Omero nell'Iliade e nell'Odissea. In altri poemi, come le Bucoliche e le Georgiche, egli esaltò la pace serena della natura e del lavoro nei campi. Altri grandi poeti furono Orazio (65-8 a.C) e Ovidio (43 a.C-17 d.C), mentre gli storici Tito Livio (59 a.C-19 d.C) e Tacito (54-120 circa d.C) narrarono le vicende della storia repubblicana di Roma, il primo, e del primo secolo dell'impero il secondo.
L'arte dell' età imperiale seguì e sviluppò i modelli greci.
Si perfezionarono l'architettura, la scultura, il bassorilievo, il mosaico; ma anche le arti" minori", quali l'oreficeria, la coniazione di monete e medaglie, il taglio di gemme e cammei, produssero opere di grande bellezza e di notevole valore decorativo.

La tolleranza religiosa di Roma e le nuove religioni

Una delle caratteristiche più importanti dell'impero romano fu la tolleranza religiosa. Roma infatti rispettava le religioni e i culti degli altri popoli e spesso permetteva ai loro adepti di aprire templi e luoghi di culto nella stessa capitale dell'impero. Molte religioni che venivano dall'Oriente (come il culto egizio di Iside e Osiride, quello greco di Orfeo o di Dioniso, quello persiano di Mitra) divennero sempre più popolari fra i Romani. Questo perché, a differenza delle religioni tradizionali, essi offrivano ai fedeli la speranza di una vita che si prolunga anche dopo la morte: il dio che le rappresentava, infatti, risorgeva dal regno dei morti e con lui potevano tornare alla vita anche i suoi fedeli.
A questi culti ogni individuo poteva essere "iniziato" (cioè introdotto) attraverso una serie di cerimonie, chiamate anche misteri perché erano riservate solo a coloro che accettavano il culto del dio, mentre venivano nascoste a tutti gli altri. Oltre alle religioni orientali, e proprio grazie alla tolleranza religiosa dell'impero, in molte città, compresa la stessa Roma, si poteva predicare anche l'ebraismo.

DOCUMENTO "I MERITI DI AUGUSTO"

Prima di morire, l'imperatore Augusto ripercorse con la memoria le vicende della sua carriera e le mise per iscritto nelle Res Gestae Divi Augusti ("Le imprese del Divo Augusto"), importantissime per conoscere la sua personalità politica e il periodo storico in cui visse e che egli condizionò fortemente.
Leggi attentamente il testo e cerca di capire come questo imperatore, il primo a Roma, sia riuscito nell'impresa di governare tentando di non entrare in contrasto con il senato e dimostrando di voler essere il restauratore degli antichi costumi romani.


Durante il consolato di Marco Marcello e Lucio Arrunzio, rifiutai la dittatura che il popolo e il senato mi avevano offerto, sia quando ero presente, sia in mia assenza. Accettai, invece, in un periodo di grave carestia di frumento, la sovrintendenza del l'annona (l'organismo che distri buiva i generi alimentari) che am ministrai in modo tale da liberare in pochi giorni dalla paura e dal presente pericolo tutta la città, a mie spese e per mia sollecitudine. Non accettai nemmeno il consolato, sia annuo sia perpetuo, che mi fu offerto a quel tempo.
Durante il consolato di Marco Vinicio e Quinto Lucrezio, e poi di Publio Lentulo e Gneo Lentulo, e per la terza volta quando erano consoli Paolo Fabio Massimo e Quinto Tiberone, sebbene il senato e il popolo romano volessero che io fossi eletto, da solo e con supremo potere, come supervisore delle leggi e dei costumi, rifiutai ogni magistratura che fosse contraria al costume degli antenati. Grazie al potere tribunizio, che esercitai con un collega [.. .], portai a termine ciò che allora il senato volle che io facessi.
[. . .] Con nuove leggi, emanate di mia iniziativa ripristinai le consuetudini degli antenati, ormai cadute in disuso nella nostra epoca, e io stesso tramandai alle future generazioni molte tradizioni da imitare.
[.. .] Non volli diventare pontefice massimo al posto di un mio collega ancora vivo [si trattava di Lepido], quando il popolo mi assegnò quel sacerdozio che mio padre aveva avuto.
Il tempio di Giano Quirino, che i nostri antenati vollero restasse chiuso quando in tutto l'impero del popolo romano, per terra e per mare, la pace fosse stata assicurata grazie alle vittorie, e che, secondo quanto si tramanda, prima della mia nascita restò chiuso per sole due volte dalla fondazione della città, durante il mio principato il senato ordinò che si dovesse chiudere tre volte.

documento "I ROMANI A TAVOLA"

Dalla lettura di questo brano dello studioso Ugo Enrico Paoli (1884-1963) ti risulteranno evidenti le profonde differenze di gusto esistenti tra gli antichi Romani e i nostri tempi.

A noi sembrerebbe di sprecar la grazia di Dio se si cucinassero i piccioni in un intingolo formato, oltre che da altri ingredienti di cui non si conosce il preciso corrispondente, ma che ispirano una grave diffidenza, con pepe, datteri, miele, aceto, vino, olio e senape; o se, quando si hanno degli uccelli, invece di metterli ad arrostire allo spiedo, si lasciassero cuocere in un umido composto di aceto, miele, olio, uva passa (ovvero susine di Damasco, che fa lo stesso), vino, menta, pepe e un'infinità di erbe dal sapore acuto.

La differenza di gusto fra noi e i Romani è ancora più grave di quel che potrebbe sembrare se ci lasciassimo illudere da apparenti coincidenze; come noi, i Romani erano ghiotti di funghi, ma li cuocevano col miele; pregiavano le belle pesche, ma le trattavano a un dipresso come facciamo noi con le anguille marinate; avevano una predilezione per molti dei pesci che anche oggi si vedono volentieri sulla tavola, ma li preparavano con certi intrugli, diciamo così, preoccupanti, in cui entrava di ogni cosa un po' [.. .].